Tanto più i sintomi sono gravi, tanto è maggiore il rischio corso dal cervello. Essere ansiosi mette in serio pericolo la salute del cervello. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Stroke da un gruppo di ricercatori guidato da Maya Lambiase della Scuola di Medicina dell’Università di Pittsburgh (Stati Uniti) l’ansia aumenta il rischio di ictus di una percentuale variabile tra il 13 e il 20%. L’entità esatta dell’aumento dipende dalla gravità dei sintomi dell’ansia, tanto che nei casi più seri la probabilità di andare incontro ad un ictus è superiore del 33% rispetto al rischio corso da chi soffre di forme lievi del disturbo. Lambiase e colleghi hanno utilizzato i dati raccolti nell’ambito della prima National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES I), uno studio condotto tra il 1971 e il 1975 durante il quale sono state raccolte informazioni su migliaia di individui attraverso questionari, analisi del sangue ed esami medici. Fra i 6.019 individui coinvolti nelle analisi, monitorati per circa 16 anni, sono stati registrati 419 casi di ictus. I dati raccolti hanno svelato l’associazione tra l’ansia e l’aumento del rischio di ictus, svelando allo stesso tempo che il legame è indipendente sia dall’eventuale presenza di problemi di depressione, sia da quella di disturbi cardiovascolari. Nemmeno comportamenti poco salutari come un’attività fisica inadeguata o il vizio del fumo sono parsi sufficienti ai ricercatori per giustificare l’esistenza dell’associazione rilevata tra ansia e ictus. Per questo secondo i ricercatori per riuscire a scoprire quali sono i meccanismi alla base di questo legame “dovrebbero essere presi in considerazione anche gli effetti biologici diretti dell’ansia”. Svelare questi ulteriori dettagli potrebbe aiutare a contrastare meglio il rischio di ictus, che, come spiega Lambiase, “è la quarta causa di morte e una delle principali cause di disabilità. Nel nostro studio dopo aver tenuto in considerazione in diversi modi la depressione l’ansia era ancora associata all’ictus. Questo aspetto – ha concluso la ricercatrice – deve essere studiato ulteriormente”. Fonte: Il Sole 24Ore