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Non solo per le ossa. Tra le altre peculiarità quella di dimezzare il rischio di cancro al colon retto. Altra scoperta importante, tra le notevoli proprietà della vitamina D anche un valido supporto nella lotta contro il tumore. È la recente scoperta di un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell’Università di Harvard che incrociando i dati sull’assunzione di vitamina D, sviluppo di polipi intestinali e cancro al colon retto in 95mila donne ha dimostrato che l’assunzione di circa 300 UI al giorno di vitamina D è in grado abbattere di circa il 50% il rischio di sviluppare il cancro intestinale. Una riduzione significativa associata al consumo di vitamina D che diminuisce notevolmente le possibilità di sviluppare questa malattia soprattutto nelle persone con meno di 50 anni. Secondo il nuovo studio, nessun miracolo, ma solo un quantitativo giornaliero pari almeno a 7,5 milligrammi. Già in passato altre indadini di laboratorio avevano trovato un legame tra la patogenesi del diffuso cancro intestinale, uno dei principali “big killer” in Italia e nel mondo e la vitamina D, tuttavia, questa è la prima ricerca a trovare un'associazione così rilevante tra il rischio di sviluppare la neoplasia e l'assunzione della vitamina, in particolar modo da fonti alimentari.

Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene

A condurre il nuovo studio un team di ricerca internazionale guidata da scienziati della prestigiosa Scuola di Salute Pubblica “T.H. Chan” dell'Università di Harvard in collaborazione con i colleghi del Dana-Faber Cancer Institute, del Dipartimento di Chirurgia dell'Università di Washington, della Clinical and Translational Epidemiology Unit del Massachusetts General Hospital, dello Yale Cancer Center e di altri istituti. I ricercatori, coordinati dal professor Edward L. Giovannucci, docente presso il Dipartimento di Epidemiologia dell'ateneo di Boston, sono giunti a queste conclusioni dopo aver messo a confronto il consumo di vitamina D, l'emersione di polipi precancerosi e del cancro al colon-retto in circa 95mila donne, con un'età compresa tra i 25 e i 42 anni. Durante il periodo oggetto dell’indagine ovvero, tra il 1991 e il 2015 l’équipe di ricercatori ha registrato 111 casi di cancro del colon-retto (tutti sotto i 50 anni) e 3.317 polipi del colon-retto (precursori della malattia maligna). Dallo studio è emerso che le donne che assumevano un maggiore quantitativo di vitamina D avevano un rischio sensibilmente ridotto di polipi e cancro al colon retto. L'assunzione totale di vitamina D è stata calcolata aggiungendo l'assunzione di vitamina D nella dieta e l'assunzione supplementare di vitamina D da integratori e multivitaminici specifici della vitamina D.

Un'amica contro un nemico comune


La vitamina D ha un'attività nota contro il cancro del colon-retto in studi di laboratorio. Poiché la carenza di vitamina D è aumentata costantemente negli ultimi anni, ci siamo chiesti se ciò potesse contribuire all'aumento dei tassi di cancro del colon-retto nei giovani individui - spiega in un comunicato stampa la professoressa Kimmie Ng, direttrice dello Young-Onset Colorectal Cancer Center del Dana-Farber Institute. - Abbiamo scoperto che l'assunzione totale di vitamina D di 300 UI al giorno o più, approssimativamente equivalente a tre bicchieri di latte, era associata a un rischio inferiore di circa il 50 percento di sviluppare il cancro del colon-retto a esordio giovanile. I nostri risultati supportano ulteriormente che la vitamina D può essere importante nei giovani adulti per la salute e possibilmente nella prevenzione del cancro del colon-retto.

Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici

L'incidenza del cancro del colon-retto tra gli adulti di età inferiore ai 50 anni è in aumento. Poiché l'eziologia del cancro del colon-retto ad esordio precoce rimane in gran parte sconosciuta, stabilire i suoi fattori di rischio è essenziale per guidare la prevenzione. Quindi, garantire un'adeguata assunzione di vitamina D potrebbe essere raccomandato come strategia per la potenziale prevenzione del cancro del colon-retto, soprattutto per i giovani adulti. Difati, si prevede che entro il 2030, quasi l'11% dei tumori del colon e il 23% dei tumori del retto si verificheranno tra gli adulti di età inferiore ai 50 anni. Rispetto al CRC diagnosticato dopo i 50 anni, il CRC a esordio precoce (definito come CRC diagnosticato prima dei 50 anni) viene tipicamente diagnosticato in uno stadio più avanzato, probabilmente a causa di ritardi nella diagnosi e un comportamento potenzialmente più aggressivo relativo alle diverse caratteristiche clinicopatologiche. Poiché una parte sostanziale dei pazienti con CRC ad esordio precoce non ha una storia familiare di CRC o sindrome ereditaria si ipotizza che i recenti cambiamenti nei fattori dello stile di vita e nei modelli dietetici scorretti contribuiscano alla crescente incidenza di CRC ad esordio precoce. Recentemente, i ricercatori hanno riscontrato anche un'associazione significativa con i comportamenti sedentari.

L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

Come evitare il rischio di ipovitaminosi D

Fondamentale per rafforzare il sistema immunitario ed evitare sintomi di stanchezza o debolezza muscolare c’è la vitamina D. Aiuta a mantenere livelli ottimali di calcio nel sangue, fa bene ai reni e al sistema cardiovascolare. Il consiglio, soprattutto per affrontare l'autonno e preparsi all'arrivo mesi invernali, è quello di aumentare l’assunzione di alimenti che ne contengono grandi quantità come pesci grassi: salmone, acciughe e sgombro, ma anche uova, fegato e funghi.

La vitamina D, che sappiamo essere contenuta in pochi alimenti come latte, formaggi, tuorlo d’uovo, olio di fegato di merluzzo, pesci grassi (come sgombro, sardina, salmone) – spiega la nutrizionista nell’intervista alla Gazzetta Act!ve -, ma la abbiamo soprattutto esponendoci al sole, oppure attraverso integrazioni. Un livello di vitamina D basso porta anche ad una maggiore predisposizione ad alcune patologie come la dermatite atopica o il morbo di Crohn: alti livelli di vitamina D riducono le recidive e tengono sottotono la parte acuta di queste patologie. Questo nutriente è, infatti, indispensabile per rafforzare la risposta immunitaria contro gli attacchi esterni, ma anche per rendere più forti e sani sia i denti che le ossa. Inoltre favorisce la prevenzione di numerose malattie cronico-degenerative oltre al metabolismo del calcio. La vitamina D è quasi sempre insufficiente e spesso va integrata separatamente. Proprio per questo può essere assunta come alimento solo in minima parte, il resto è prodotto grazie all’esposizione alla radiazione solare, in particolare ai raggi UVB. Quindi, non dimentichiamo di stare al sole il più possibile per fare il pieno di questa preziosa vitamina.

Sintomi e cause di un’ipovitaminosi D, come riconoscerla.

La vitamina D in sé quando è carente non dà segnali evidenti. Ma dal momento che la sua azione principale è l’assorbimento del calcio, in caso di carenze gravi si possono avere i sintomi tipici di una ipocalcemia, come formicolii e parestesie alle mani e ai piedi. Anche una propensione alle fratture può essere un segnale in questo senso, come pure l’astenia, la debolezza muscolare e la conseguente facilità alle cadute, poiché la vitamina D ha funzioni extrascheletriche, sul muscolo». «Con un semplice esame del sangue che misuri i livelli di calcifediolo o 25 idrossivitamina D. Livelli inferiori ai 20 nanogrammi per millilitro indicano una carenza di vitamina D». «Le cause possono essere molteplici, ma quella principale è, appunto, la ridotta esposizione al sole. La gran parte della vitamina D che serve all’organismo viene prodotta dalla pelle sotto forma di vitamina D3 o colecalciferolo (la forma inattiva della vitamina D), in risposta alle radiazioni solari. Come abbiamo visto parlando del possibile legame tra deficit di vitamina D e Covid, lo stile di vita attuale, che ci vede sempre più in luoghi chiusi, è un fattore di rischio in questo senso. Per questo il consumo di cibi addizionati di vitamina D può essere risolutivo, soprattutto a livello di popolazione generale, come sanno i Paesi del Nord Europa, in cui questa è una consuetudine consolidata e il deficit di vitamina D è meno diffuso che nei Paesi del Mediterraneo.

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Per approfondimenti:

Gastroenterology "Total Vitamin D Intake and Risks of Early-Onset Colorectal Cancer and Precursors"

Fanpage "La vitamina D può dimezzare il rischio di cancro al colon retto in chi ha meno di 50 anni"

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Pubblicato in Informazione Salute

Bruciore, intorpidimento e formicolio di lingua e bocca. Sono questi i principali sintomi della sindrome della bocca urente molto frequente tra la popolazione. Una patologia che sembrerebbe correlata a una carenza importante. Difatti, una recente indagine condotta da un team di ricerca della Mayo Clin ha dimostrato, analizzando le analisi di circa 700 pazienti affetti da questo fastidioso disturbo che una delle condizioni più diffuse era proprio l’ipovitaminosi D ovvero, la carenza di vitamina D, un pro-ormone che si sintetizza principalmente attraverso l’esposizione solare, l’integrazione e, seppur in misura minore, con l’alimentazione. Associata soprattutto alle fratture, ma anche alla modulazione del sistema immunitario e all’aumento del rischio di infezioni. Insomma, avere livelli adeguati di vitamina D è sicuramente importante per la salute.

Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene

Glossodinia, nota anche con i nomi di sindrome della bocca urente o bruciante è una condizione patologica per la quale si riscontra un dolore intenso, percepita lungo i bordi o sulla punta della lingua, simile a quello provocato da un'ustione, a livello del cavo orale. Una sensazione anomala e spiacevole, dovuta all’azione di un agente che compromette l’integrità somatica o suscitata dallo stato di sofferenza anatomica o funzionale di un organo. Le parti colpite possono essere la lingua, le labbra, gengive, guancia, palato o l'intera bocca. Bersagliate da questa sindrome prevalentemente le donne in un'età compresa tra i 50 ed i 70 anni. La glossodinia può essere dovuta a una glossite o a un’irritazione della lingua causata da denti in cattivo stato o legata a un fattore psicologico. Inoltre, la sua forma “esfoliativa” è caratterizzata da lingua arrossata e dolente e si verifica in alcuni stati carenziali. Insomma, la sindrome della bocca ardente (BMS) è un disturbo le carenze di vitamine o minerali possono avere un ruolo nell’insorgenza di questo fastidio.


Le piccole dosi non bastano


Generalmente, la carenza di vitamina D è causata dalla mancata esposizione alla luce solare. Tuttavia, anche alcuni disturbi possono causare la carenza. Tra le cause più comuni, oltre ad alcune malattie anche un’alimentazione poco bilanciata. Infatti, in condizioni di ipovitaminosi D, si manifestano in primis dolori osteo-muscolari, debolezza muscolare e fragilità ossea. Una condizione che non colpisce solo gli anziani poiché anche i neonati sviluppano il rachitismo: il cranio è molle, le ossa crescono in modo anomalo e hanno difficoltà a sedersi e a gattonare. Per scongiurare questi rischi sarebbe buona abitudine fin dalla nascita, somministrare integratori di vitamina D ai neonati. Due forme indispensabili per la buona salute: la vitamina D2, o ergocalciferolo, viene sintetizzata dalle piante e dai precursori del lievito, ed è anche la forma generalmente usata negli integratori ad alto dosaggio; mentre la vitamina D3, o colecalciferolo, è la forma più attiva di vitamina D e si origina nella pelle quando questa viene esposta alla luce diretta del sole. Le fonti alimentari più comuni sono l’olio di fegato di pesce e il pesce grasso. Le vitamine D2 e D3 non sono attive nell’organismo. Entrambe le forme devono essere elaborate (metabolizzate) nel fegato e nei reni in una forma attiva chiamata vitamina D attiva o calcitriolo. Questa forma attiva stimola l’assorbimento di calcio e fosforo nell’intestino. Il calcio e il fosforo, due minerali, vengono assorbiti nelle ossa per renderle resistenti e dense (danno origine a una processo chiamato mineralizzazione). Utilizzata per trattare psoriasi, iperparatiroidismo e osteodistrofia renale. Si è dimostrata poi un trattamento efficacie nella prevenzione di depressione o malattie cardiovascolari. Alcune evidenze scientifiche, tuttavia, indicano che l'assunzione combinata del fabbisogno giornaliero raccomandato di vitamina D e calcio riduce il rischio di fratture dell'anca nei soggetti che sono maggiormente a rischio.

Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici

Un fabbisogno che aumenta con l’età

Una vitamina liposolubile che si scioglie nel grasso ed è assorbita in modo ottimale se consumata con i grassi. Nella carenza di vitamina D, l’organismo assorbe una quantità inferiore di calcio e fosfato. Poiché calcio e fosfato non sono disponibili in quantità sufficienti per mantenere le ossa sane, la carenza di vitamina D può causare un disturbo osseo detto rachitismo nei bambini o osteomalacia negli adulti. Nell’osteomalacia, l’organismo non incorpora sufficiente calcio e altri minerali nelle ossa, causando debolezza ossea. La carenza di vitamina D in una donna in gravidanza causa la carenza nel feto e il neonato presenta un rischio elevato di sviluppare rachitismo. A volte, la carenza è tanto grave da causare osteomalacia nella donna. La carenza di vitamina D peggiora l’osteoporosi. E ancora, la carenza di vitamina D si traduce in un basso livello di calcio nel sangue. Per tentare di aumentare i livelli di calcio, l’organismo può produrre una maggiore quantità di ormone paratiroideo. Tuttavia, quando i livelli di ormone paratiroideo diventano alti (una condizione chiamata iperparatiroidismo), l’ormone induce la mobilizzazione del calcio dalle ossa per aumentare i livelli ematici di calcio. L’ormone paratiroideo causa anche l’eliminazione di più fosfato nelle urine. Sia il calcio sia il fosfato sono necessari per mantenere ossa sane. Di conseguenza, le ossa s’indeboliscono.

L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

Gli anziani hanno maggiori probabilità di sviluppare una carenza di vitamina D per diversi motivi: il loro fabbisogno è maggiore rispetto a quello dei soggetti più giovani e tendono a trascorrere meno tempo all’aperto, quindi non sono esposti a una quantità sufficiente di luce solare. Insomma, questa carenza in genere si manifesta in soggetti che non si espongono al sole e che non consumano dosi sufficienti di vitamina D con la dieta. L’organismo potrebbe non essere in grado di assorbire una quantità sufficiente di vitamina D dal cibo. Ad esempio, nelle malattie da malassorbimento, i soggetti non sono in grado assorbire normalmente i grassi, né di assorbire la vitamina D, in quanto si tratta di una vitamina liposolubile che normalmente viene assorbita con i grassi nell’intestino tenue. Con l’avanzare dell’età, è possibile che nell’intestino venga assorbita una quantità inferiore di vitamina D. Dolori muscolari, debolezza e dolori ossei, ma non sono in età avanzata. Gli spasmi muscolari (tetania) possono essere il primo segno di rachitismo nei neonati. Sono causati da un basso livello ematico di calcio nei soggetti con grave carenza di vitamina D. Nei fanciulli e negli adolescenti camminare è indubbiamente più doloroso. Una grave carenza di vitamina D può causare varismo o valgismo delle ginocchia. Negli adulti, le ossa, soprattutto quelle della colonna, del bacino e delle gambe, diventano fragili. Le aree interessate possono essere dolenti al tatto e oggetto di fratture. Negli anziani, le fratture ossee, in particolare la frattura dell’anca , possono verificarsi semplicemente con un leggero sobbalzo o una caduta insignificante. Proprio per questo, gli integratori alimentari sono particolarmente importanti per i soggetti a rischio (come i soggetti anziani, costretti a casa o che vivono in strutture di lungodegenza).

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La via del sole: la vitamina-ormone di cui non possiamo fare a meno

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Il peggior nemico del cancro è la vitamina D! Tra i più importanti ricercatori al mondo su questa vitamina, Carole Baggerly, direttrice e fondatrice del Grassroots Health. La sua passione per questo nutriente fondamentale è nata da un’esperienza personale: sopravvissuta al cancro al seno proprio grazie al supporto della vitamina D. Ripetutamente dimostrata poi la sua efficacia su tante patologie, tra cui malattie cardiache e diabete oltre alla riduzione del dolore cronico. Inoltre, le diverse teorie che collegano l’ipovitaminosi D al cancro sono state testate e confermate in più di 200 studi epidemiologici e da oltre 2.500 studi di laboratorio. Secondo gli esperti negli Stati Uniti si registra, tra la popolazione, un elevato livello di carenza vitaminica, perché presente naturalmente solo pochi alimenti. Quindi, secondo quanto riportato da un nuovo studio evidenziato alla riunione annuale virtuale dell’American Society of Clinical Oncology 2021, avere livelli sufficienti di vitamina D al momento della diagnosi è associato, di conseguenza, a migliori esiti nel percorso di guarigione dal cancro al seno. I ricercatori hanno misurato i livelli di vitamina D al momento della diagnosi, e quindi i risultati di sopravvivenza 10 anni dopo in quasi 4.000 persone; si è poi notato che l’assunzione di integratori di vitamina D, l’indice di massa corporea e la razza/etnia sono tutti fattori che influiscono sui livelli di vitamina D presenti nel sangue.

Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene

Tra le categorie di persone che necessitano maggiormente di questo apporto sicuramente le donne in post-menopausa e durante l’allattamento, chi assume steroidi a lungo termine, gli anziani, le persone con malattia renale cronica, con malattia paratiroidea e chi soffre di patologie come obesità e sovrappeso. La maggior parte delle ricerche scientifiche sulla vitamina D si sono concentrate prevalentemente sui tumori del colon-retto e della mammella dimostrando che livelli ematici più elevati di vitamina D sono associati a un minor rischio di cancro del colon-retto e ha una maggiore possibilità di sopravvivere in caso di cancro al seno. Un’altra indagine particolarmente degna di nota è stata completata da Joan Lappe e Robert Heaney, nel 2007 dove ad un gruppo di donne in menopausa è stato somministrato un integratore di vitamina D per raggiungere i livelli ematici di 40 ng/ml. Per livelli ematici più elevati di vitamina D si intende qualsiasi livello che soddisfi o superi il cut-off clinico “sufficiente” (≥30 ng/ml). Secondo l’Office of Dietary Supplements del National Institutes of Health la carenza di vitamina D è inferiore a 20 ng/ml. I risultati hanno poi mostrato che queste donne hanno avuto una riduzione del 77% in termini di incidenza di tutti i tipi di tumori dopo soli quattro anni. Inoltre, 40 ng/ml di vitamina D è un livello relativamente medio, il livello ottimale di vitamina D è da 50 a 100 ng/ml. Ottenere tali risultati con soli 40 ng/ml sottolinea quanto sia potente e importante la vitamina D per il funzionamento ottimale del corpo.

Disintegra le cellule tumorali

La vitamina D (detta anche “calciferolo”) è una vitamina liposolubile naturalmente presente in alcuni alimenti, aggiunta ad altri e disponibile come integratore alimentare. Viene anche prodotto in modo endogeno quando i raggi ultravioletti (UV) della luce solare colpiscono la pelle e innescano la sintesi della vitamina D. La vitamina D favorisce l'assorbimento del calcio nell'intestino e mantiene adeguate concentrazioni sieriche di calcio e fosfato per consentire la normale mineralizzazione ossea e per prevenire la tetania ipocalcemica (contrazione involontaria dei muscoli, che porta a crampi e spasmi). È anche necessaria per la crescita ossea e il rimodellamento osseo da parte di osteoblasti e osteoclasti. Senza una quantità sufficiente di vitamina D, le ossa possono diventare sottili, fragili o deformate. La sufficienza di vitamina D previene poi il rachitismo nei bambini e l'osteomalacia negli adulti. Insieme al calcio, la vitamina D aiuta anche a proteggere gli anziani dall'osteoporosi. La vitamina D svolge altri ruoli importanti nel nostro corpo, inclusa la riduzione dell'infiammazione e la modulazione di processi come la crescita cellulare, la funzione neuromuscolare e immunitaria e il metabolismo del glucosio. Negli alimenti e negli integratori alimentari, la vitamina D ha due forme principali, D2 (ergocalciferolo) e D3 (colecalciferolo), che differiscono chimicamente solo nelle loro strutture a catena laterale. Entrambe le forme sono ben assorbite nell'intestino tenue. L'assorbimento avviene per semplice diffusione passiva e da un meccanismo che coinvolge le proteine di trasporto della membrana intestinale. La contemporanea presenza di grasso nell'intestino migliora l'assorbimento della vitamina D, ma parte della vitamina D viene assorbita anche senza grassi alimentari. Né l'invecchiamento né l'obesità alterano l'assorbimento della vitamina D dall'intestino. Pochi alimenti contengono naturalmente vitamina D tra cui la carne di pesce grasso (come trota, salmone, tonno e sgombro) anche se gli oli di fegato di pesce sono tra le migliori fonti. La dieta di un animale influisce sulla quantità di vitamina D nei suoi tessuti. Fegato di manzo, formaggio e tuorli contengono piccole quantità di vitamina D, principalmente sotto forma di vitamina D3.

Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici

Proprio in virtù dei suoi potenti effetti è stata descritta come una “sindrome da carenza da vitamina D”. Naturalmente, altri fattori nello stile di vita sono altrettanto importanti nella prevenzione del cancro: in primis l’alimentazione (come zuccheri e farine raffinate che aumentano il rischio di cancro al seno). Inoltre, dalle analisi di Carole Baggerly emerge che il 90% del cancro al seno ordinario è legato alla carenza di vitamina D, la quale è al 100% prevenibile! Il primo epidemiologo ad aver messo in relazione il binomio “carenza vitaminica-cancro al seno” è stato il dottor Cedric F. Garland della University of California di San Diego, secondo il quale in quasi tutte le forme di cancro al seno, la vitamina D influisce sulla struttura delle cellule epiteliali. Queste cellule sono tenute insieme da una sostanza simile a colla chiamata E-caderina, che fornisce la struttura alla cellula. L’E-caderina è costituita principalmente da vitamina D e calcio. Questo avviene perché in caso di deficit la struttura si sfascia e quelle cellule fanno ciò che sono programmate di fare per sopravvivere – vanno avanti e si moltiplicano. Quando questo processo di crescita (proliferazione cellulare) va fuori controllo, si trasforma in cancro. Tuttavia, anche se il cancro al seno è in corso, l’aggiunta di vitamina D può aiutare a far regredire le cellule tumorali agendo sull’E-caderina. Difatti, una volta rallentata la crescita del cancro, il sistema immunitario può cominciare a smaltire gli avanzi delle cellule tumorali.

L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

Oltre a prevenire il cancro, l’ottimizzazione della vitamina D riduce il rischio di parto prematuro del 50%. Infatti, l’80% delle donne in gravidanza è alle prese con l’ipovitaminosi D. Carol Wagner e Bruce Hollis hanno studiato, con risultati inaspettati, anche gli effetti dei livelli di vitamina D sulle donne in gravidanza. Gli studiosi hanno dato 4.000 IU di vitamina D ad un gruppo di donne in stato di gravidanza, riducendo l’incidenza di parti prematuri del 50%. Inoltre, la vitamina D riduce anche una serie di rischi legati proprio alla gravidanza, tra cui la probabilità di avere un bambino sotto peso. Indubbiamente, il modo migliore per ottimizzare il livello di vitamina D è attraverso l’esposizione al sole. In linea di massima, è necessario esporre circa il 40% di tutto il corpo al sole per circa 20 minuti tra le ore 10 e le 14 del pomeriggio, quando il sole è allo zenit. Ovviamente, senza correre alcun pericolo con l'sposizione ai raggi ultravioletti. In assenza di tempo libero e di giornate soleggiate, una valida alternativa al sole e fonte di questo importante nutriente sono gli integratori alimentari. Una sana abitudine sostenuta e incoraggiata anche dall’Istituto di Medicina Conservativa poiché priva di particolari rischi. Numerose evidenze scientifiche dimostrano che la vitamina D svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione delle malattie e nel mantenimento di una salute ottimale. Ci sono circa 30.000 geni nel nostro corpo, e la vitamina D ne influenza 3.000, così come i suoi recettori si trovano in tutto il corpo. Difatti, come dimostra una ricerca su larga scala, i livelli ottimali di vitamina D possono ridurre drasticamente il rischio di cancro. Mantenere i livelli ottimali può aiutare quindi a prevenire almeno 16 diversi tipi di cancro, tra cui pancreas, polmone, ovaie, prostata e tumori della pelle.

RIPRODUZIONE RISERVATA LIFE 120 © Copyright A.R.

Per approfondimenti:

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Ingrediente importante nella prevenzione di alcune malattie legate all’invecchiamento cellulare e alla neurodegenerazione, come il morbo di Parkinson e l’Alzheimer. I ricercatori della Fondazione Mach, nei laboratori di metabolomica di San Michele all’Adige, hanno studiato i metaboliti della frutta nel loro percorso all’interno del corpo, soffermandosi in particolare sull’acido gallico, presente nel vino e nei piccoli frutti. I ricercatori hanno dimostrato come esso si depositi in quantità significative proprio nel cervello. I risultati del progetto di ricerca sono stati poi pubblicati sulla prestigiosa rivista dell’American Chemical Society, “ACS Chemical Neuroscience”. Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa progressiva caratterizzata da una perdita di neuroni dopaminergici, che porta a bradicinesia, rigidità, tremore a riposo e instabilità posturale, nonché sintomi non motori come compromissione olfattiva, dolore, disfunzione autonomica, sonno alterato, affaticamento e cambiamenti comportamentali. La patogenesi coinvolge lo stress ossidativo, la distruzione dei mitocondri, le alterazioni della proteina α-sinucleina e i processi neuroinfiammatori. Dall’altro lato, i polifenoli, metaboliti secondari delle piante, che hanno mostrato benefici in diversi modelli sperimentali di Parkinson. L'assunzione di polifenoli attraverso la dieta è anche associata a un minor rischio della patologia del Parkinson e, dai dati a supporto, anche della potenziale capacità neuroprotettiva dell'aumento dei polifenoli nella dieta. L'evidenza suggerisce che l'assunzione di polifenoli alimentari potrebbe addirittura inibire la neurodegenerazione e la progressione della patologia stessa.


I polifenoli, infatti, sembrano avere un effetto positivo sul microbiota intestinale, capaci quindi di ridurre l'infiammazione che contribuisce all’insorgenza della malattia. Pertanto, una dieta ricca di polifenoli potrebbe dunque diminuire i sintomi e aumentare la qualità della vita di tutte quelle persone costrette a convivere con questa patologia. Le malattie neurodegenerative (ND) sono caratterizzate da disturbi con progressivo deterioramento della struttura e/o della funzione dei neuroni. Le mutazioni genetiche possono portare a molte di queste. Tuttavia, la neurodegenerazione può anche avvenire a causa di diversi processi biologici. La patogenesi di diverse malattie neurodegenerative tra cui le malattie di Alzheimer (AD), Parkinson (PD) e Huntington (HD) è associata allo stress ossidativo (OS). Per mantenere le normali funzioni dei neuroni, sono importanti anche livelli più bassi di specie reattive dell'ossigeno (ROS) e specie reattive dell'azoto (RNS), poiché i loro livelli maggiori potrebbero causare la morte delle cellule neuronali. È stato scoperto, inoltre, che la neurodegenerazione mediata dal sistema operativo comporta una serie di eventi tra cui la disfunzione mitocondriale. Numerose evidenze scientifiche suggeriscono da anni il beneficio dell'utilizzo dei polifenoli per il trattamento dei disturbi neurodegenerativi. Nel complesso, i fitochimici polifenolici sono di natura più sicura. In particolare, sulla potenziale efficacia di polifenoli come epigallocatechina-3-gallato, curcumina, resveratrolo, quercetina e polifenoli metilati berberina contro i più comuni disturbi neurodegenerativi.

Un muro allo stress ossidativo


Una comune malattia neurodegenerativa, quella del Parkinson caratterizzata da deficit motori e gastrointestinali (GI). Studi recenti evidenziano il ruolo del microbiota intestinale nei disturbi neurologici. Considerata come la seconda malattia neurodegenerativa progressiva più diffusa caratterizzata dalla degenerazione dei neuroni dopaminergici nel mesencefalo umano. Vari studi di ricerca in corso concorrono per comprendere le cause di questa patologia e chiarire i meccanismi alla base della neurodegenerazione. Gli attuali trattamenti farmacologici si sono concentrati principalmente sul miglioramento del metabolismo della dopamina nei pazienti con Parkinson, nonostante gli effetti collaterali dell'uso a lungo termine. Negli ultimi anni, è stato riconosciuto che i percorsi mediati dallo stress ossidativo portano alla neurodegenerazione nel cervello, che è associata alla fisiopatologia del morbo di Parkinson. Inoltre, la funzione esercitata dal microbiota intestinale potrebbe essere influenzato da fattori che predispongono gli individui al morbo di Parkinson, come le tossine ambientali, l'invecchiamento e la genetica dell'ospite. È necessario evidenziare l'effetto del microbiota intestinale sui meccanismi implicati nella fisiopatologia del Parkinson, tra cui l'asse del cervello intestinale del microbiota interrotto, la disfunzione della barriera e la disfunzione immunitaria.

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Nella malattia di Parkinson – evidenzia Christian Orlando, biologo - l'importanza dell’alimentazione è ormai nota a tutti. In presenza di malattie croniche un’alimentazione corretta diventa condizione fondamentale per il benessere dell’individuo e influisce positivamente sull’efficacia della terapia farmacologica e sullo stato di salute generale». Inoltre, «un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati insulinici ha un enorme potenziale nella prevenzione e nella gestione delle patologie neurodegenerative come il Parkinson. Gli studi clinici che esplorano l’effetto dei cambiamenti dietetici a livello neuronale sono pochi e lontani tra loro, ma esiste già un’enorme quantità di materiale scientifico che dettaglia come le diete ad alto contenuto di zucchero mettono a repentaglio la salute del cervello e quanto invece, al contrario, le diete a basso contenuto di carboidrati supportano la salute del cervello. Infatti nella patologia del Parkinson la funzione mitocondriale indebolita si suppone sia coinvolta nella morte dei neuroni che forniscono la dopamina. I ricercatori ipotizzano che i corpi chetonici, utilizzati come fonte energetica in caso di ridotto apporto di carboidrati, possono proteggere i mitocondri e sostenere la loro funzione» conclude l’esperto.

E ancora, questa patologia è caratterizzata oltre alle alterazioni del microbiota intestinale anche da un elevato carico di comorbidità gastrointestinali, in particolare costipazione e riduzione del tempo di transito del colon. E i diversi metaboliti prodotti dal microbiota sono decisamente importanti per la salute dell'ospite. Gli obiettivi dello studio erano valutare le associazioni tra composizione del microbiota, consistenza delle feci, stitichezza e metaboliti microbici sistemici nella malattia di Parkinson per comprendere meglio come i microbi intestinali contribuiscono ai disturbi gastrointestinali comunemente osservati nei pazienti. In sintesi, le alterazioni compositive e metaboliche nel microbiota del Parkinson sono altamente associate alla funzione intestinale, suggerendo plausibili collegamenti meccanicistici tra metabolismo batterico alterato e ridotta salute intestinale in questa malattia. La rilevazione sistemica di elevati metaboliti microbici proteolitici deleteri nel siero di Parkinson suggerisce un meccanismo per cui la disbiosi del microbiota contribuisce all'eziologia e alla fisiopatologia della malattia. A tal proposito, i polifenoli del cacao riattivano i processi coinvolti nel metabolismo cerebrale, mantenendo un corretto afflusso cerebrale di sangue, migliorando la perfusione cerebrale; migliorano la sensibilità all’insulina, modulano l’attività neuroinfiammatoria e posseggono attività neuroprotettiva, bloccando la morte neuronale indotta dalle neurotossine.

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Per approfondimenti:

PubMed "Microbiota Composition and Metabolism Are Associated With Gut Function in Parkinson's Disease"

PubMed "Parkinson's disease: Are gut microbes involved?"

PubMed "The Pathology of Parkinson's Disease and Potential Benefit of Dietary Polyphenols"

JAMA Neurology "Association of Circadian Abnormalities in Older Adults With an Increased Risk of Developing Parkinson Disease"

PubMed "Plant Polyphenols as Neuroprotective Agents in Parkinson's Disease Targeting Oxidative Stress"

PubMed "Neuroprotective role of polyphenols against oxidative stress-mediated neurodegeneration"

MedicalFacts "Malattia di Parkinson: levatacce e ore piccole possono influire?"

PubMed "The Pathology of Parkinson's Disease and Potential Benefit of Dietary Polyphenols"

Il Messaggero "Il Covid può portare al Parkinson, studio australiano: Sarà la terza ondata della pandemia"

Libero "Coronavirus e Parkinson, la correlazione col morbo: "Questa sarà la vera terza ondata della pandemia"

Io Donna "Post lockdown: 6 bambini su 10 mostrano ansia, irritabilità e disturbi del sonno"

Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"

Il Fatto Quitidiano "Parkinson, “un nesso tra infiammazione e la neurotossicità”. Lo studio dell’istituto Mario Negri"

Wired "A causa di Covid-19 potremmo vedere un'ondata di Parkinson"

PubMed "Peripheral inflammation exacerbates α-synuclein toxicity and neuropathology in Parkinson's models"

Biomedicalcue "Parkinson: scoperta la coppia molecolare che frena il morbo"

LEGGI ANCHE: Elimina i "rifiuti": il sonno rigenera il cervello e contrasta le malattie neurodegenerative

Insonnia e disturbi del sonno triplicano il rischio di sviluppo del Parkinson

Covid-19. Dalla terza ondata della pandemia al morbo di Parkinson

Rush University: la cannella per arrestare la progressione del morbo di Parkinson

Studi: la curcuma può curare Parkinson e Alzheimer ma la medicina non studia prodotti a basso costo...

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Più vitamina D significa meno cancro. Una sorta di terapia naturale che ci difende dal cancro, una vera e propria strategia di prevenzione. È la volta dei ricercatori tedeschi che in un lavoro segnalano il ruolo centrale della vitamina D, come alleato dei malati di tumore. A questa conclusione è giunta uno studio condotto dal Centro tedesco di ricerca sul cancro (DKFZ) di Heidelberg dove il team di ricercatori ha scoperto che l’integrazione della vitamina D potrebbe avere un impatto decisivo sulla riduzione della mortalità, nel contesto di un quadro patologico di cancro grave. Un decremento del 13% che potrebbe cambiare le sorti di un numero significativo di pazienti oncologici. Hermann Brenner, epidemiologo della DKFZ ha precisato che il tasso di mortalità per tumori legati all’età è diminuito negli ultimi anni in modo costante, tuttavia, in alcuni Paesi europei i numeri dei decessi rimangono ancora rilevanti. Sempre secondo Brenner, che ha messo a confronto le morti dei pazienti oncologici della Germania con quelle della Finlandia, di gran lunga inferiori, il motivo sarebbe da rintracciare nel stile alimentare adottato da ciascuno. Difatti, in Finlandia, molti alimenti sono stati rafforzati con l’aggiunta di vitamina D ormai da tempo. Sfortunatamente per tutti gli altri, solo un numero limitato di alimenti, come i pesci grassi salmone, tonno e sgombro, contengono notevoli quantità di vitamina D3. Questo rende l'integrazione una strategia alternativa per ottimizzare lo stato di questa preziosa sostanza.

L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

Registrata in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, la carenza della vitamina D colpisce principalmente gli over 50. È quindi fondamentale integrare questa vitamina, per salvaguardare la salute, in quanto sostanza con un impatto decisivo sul sistema immunitario capace di favorire la prevenzione di diverse malattie. Recenti meta-studi hanno dimostrato che una dieta sana, caratterizzata da un livello equilibrato di questo ormone, potrebbe ridurre notevolmente i decessi causati dal cancro. La conferma arriva dallo studio firmato dal Centro tedesco di ricerca sul cancro (DKFZ). L’indagine pubblicata ha evidenziato che un’integrazione della vitamina in tutte le persone sopra i 50 anni potrebbe prevenire fino a 30.000 decessi per cancro ogni anno. In modo tale da attuare una forma di prevenzione importante, dal momento che un gran numero di persone soffre di un significativo deficit di vitamina D. Caduta di capelli, unghie fragili e mal di testa sono tra i principali sintomi di questa pericolosa condizione. Già 40 anni fa, uno studio epidemiologico suggeriva che la vitamina D potesse essere protettiva contro il cancro del colon-retto (CRC), poiché una maggiore esposizione al sole (UV-B) e una vita a latitudini più basse (che causano entrambi una maggiore formazione di vitamina D 3) porta a una minore incidenza per questo tipo di cancro.

Antinfiammatorie e immunosoppressive 

Da quello del colon a quello del seno, da quelli del sangue a quello alla prostata. Una missione “salva-vite” quella della vitamina D che avrebbe dunque la capacità di sostenere l’arduo compito delle terapie contro il cancro. Hermann Brenner ha spiegato poi che l’integrazione di questo nutriente è fondamentale soprattutto per le persone sopra i 50 anni, per questo è bene consultare il proprio medico curante. Inoltre, è bene esporsi di più al sole, con le dovute cautele, per assimilarla dai raggi considerato che il nostro corpo non è capace di produrla. Un altro studio, quello condotto dall'Università della Finlandia orientale e dall'Università autonoma di Madrid e pubblicato sulla rivista scientifica Seminars in Cancer Biology a conferma della teoria dei colleghi tedeschi. Secondo questo precedente lavoro, le sue funzioni preventive sono molto più ampie e questa sostanza potrebbe essere un’arma vincente contro alcuni tumori, tra cui quelli del colon, del seno, della prostata e del sangue. L’indagine si basa sulla correlazione tra l’elevata reattività alla vitamina D alla riduzione del rischio di cancro. Gli autori hanno osservato che la vitamina D regola il sistema immunitario e che i suoi effetti anticancro vengono mediati principalmente dalle cellule immunitarie, come i monociti e le cellule T. Inoltre, questa sostanza applica i suoi effetti tramite il recettore della vitamina D (VDR). I suoi effetti sono particolarmente evidenti nella prevenzione del cancro del colon-retto e dei tumori del sangue, come leucemie e linfomi. Gli altri due tumori sensibili alla vitamina D sono il carcinoma mammario e prostatico. Anche in questo caso un basso livello di vitamina D è stato associato a una maggiore incidenza di cancro e una prognosi peggiore.

Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici

 

Secondo i ricercatori, ogni individuo ha una risposta molecolare e una sensibilità diversa alla vitamina D (e alla sua supplementazione). «La vitamina D contribuisce a mantenere e difendere la normale fisiologia dell'organismo contro l'apparizione e lo sviluppo delle neoplasie. L'identificazione dell'uso clinico ottimale del sistema vitaminico D è un compito che richiede sforzi continui» concludono gli autori. Dal punto di vista evolutivo, il ruolo principale della vitamina D è stato probabilmente il controllo del metabolismo energetico che successivamente si è spostato per modulare l'immunità innata e adattativa, nonché per regolare l'omeostasi del calcio e delle ossa. Poiché le cellule immunitarie e cancerose in rapida crescita utilizzano entrambe le stesse vie e geni per controllare la loro proliferazione, differenziazione e apoptosi, non sorprende che la segnalazione della vitamina D modifichi questi processi anche nelle cellule neoplastiche. Pertanto, gli effetti anti-cancro della vitamina D possono derivare dalla gestione della crescita e della differenziazione nell'immunità ovvero, gli effetti dell'1,25 (OH) 2 D 3 sull'epigenoma e sul trascrittoma e la sua relazione con la prevenzione e la terapia del cancro.

Il ruolo antitumorale del sistema immunitario

Nel 2018, in tutto il mondo, sono morte di tumore circa 10 milioni di persone. Il cancro è il termine generale che descrive una moltitudine di malattie molto eterogenee che hanno in comune la visualizzazione di una crescita eccessiva incontrollata di cellule in qualsiasi tessuto di un individuo. La base molecolare del cancro è l'accumulo di mutazioni puntiformi e variazioni del numero di copie, come amplificazioni e delezioni o grandi alterazioni cromosomiche come traslocazioni e aneuploidie, che aumentano l'attività degli oncogeni e diminuiscono quella dei geni oncosoppressori. Queste instabilità genomiche sono modulate da cambiamenti epigenetici attraverso azioni dirette degli enzimi che modificano la cromatina, nonché tramite effetti indiretti dei fattori di trascrizione. Sia i modificatori della cromatina che i fattori di trascrizione si trovano spesso al punto finale delle cascate di trasduzione del segnale che sono stimolate da vari segnali intra ed extracellulari. I cambiamenti dell'epigenoma sono innescati da segnali dell'ambiente cellulare, come nutrienti, tossine e citochine e chemochine correlate all'infiammazione. Pertanto, i cambiamenti epigenetici possono avere effetti sia dannosi che benefici sull'insorgenza e sulla progressione del cancro.

Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene

Vi è ampio consenso sul fatto che la modulazione del sistema immunitario sia la più importante funzione extra-scheletrica della vitamina D. La vitamina D stimola il sistema immunitario innato a combattere in modo più efficiente contro le infezioni batteriche, come la tubercolosi, mentre previene le reazioni eccessive del sistema immunitario adattativo che possono causare malattie autoimmuni, come la sclerosi multipla. In generale, la vitamina D agisce come un induttore dell'immunità innata, come attraverso la regolazione della catelicidina peptidica antimicrobica secreta o della glicoproteina CD14 ancorata alla membrana plasmatica. Pertanto, la risposta precoce dei monociti e dei macrofagi alla stimolazione della vitamina D è un'azione pro-infiammatoria. In una fase successiva, la vitamina D spesso sposta la polarizzazione dei macrofagi dallo stadio M1 pro-infiammatorio e antitumorale allo stadio M2 immunosoppressivo e pro-tumorale. La carenza di vitamina D è associata anche al morbo di Crohn e alla colite ulcerosa, che sono le due manifestazioni fisiopatologiche predominanti della malattia infiammatoria intestinale. I tassi di malattia infiammatoria intestinale sono probabilmente in aumento a causa dei moderni stili di vita che influenzano la funzione del microbioma intestinale attraverso alti livelli di grassi saturi e zuccheri nella dieta e l'uso di antibiotici. La vitamina D è importante per regolare l'immunità della mucosa intestinale attraverso la modulazione della funzione di barriera immunitaria innata, l'integrità dell'epitelio intestinale e lo sviluppo e la funzione delle cellule T. Pertanto, la vitamina D può prevenire l'insorgenza di malattie infiammatorie intestinali attraverso la stabilizzazione dell'omeostasi del microbiota e migliorare la progressione della malattia tramite risposte immunitarie antinfiammatorie.

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Per approfondimenti:

Science Direct "An update on vitamin D signaling and cancer"

Di Lei "Cancro al colon, la vitamina D funziona come uno scudo"

Gazzetta Active "Carenza di vitamina D: ecco perché è facile averla. Come diagnosticarla ed evitarla?"

Il Giornale "Come fare il pieno di vitamina D in estate"

Fondazione Veronesi "Sette italiani su dieci sono sotto i livelli minimi di questo prezioso micronutriente con grave rischio di osteoporosi"

La Repubblica "Un mare di bellezza"

Il Giornale "Tintarella salvavita: da 15' di sole vitamina D come 100 uova"

Ansa "Salute: importante ruolo vitamina D in infartuati"

Meteo Web "Infarto, importante ruolo della vitamina D: una carenza può aumentare il rischio"

Fanpage "Cancro, vitamina D e Omega-3 riducono il rischio di morte e infarto"

Quotidiano di Ragusa "Carenza di vitamina D? A rischio infarto"

Meteo Web "La vitamina D può aiutare a prevenire l’insufficienza cardiaca dopo un infarto"

Onco News "Legame tra infarto miocardico e deficit di Vitamina-D"

Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"

LEGGI ANCHE: Dalla vitamina D al Covid: una lunga storia tra mito e scienza

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Il sonno, soprattutto quello profondo, contrasta l’Alzheimer. Dall’eliminazione dei “rifiuti” dal cervello alla protezione dalle tossine. Insomma, dormire bene tiene alla larga le malattie neurodegenerative. È il risultato di un nuovo studio della Northwestern University che sottolinea, ancora una volta, così come hanno fatto indagini precedenti, l’importanza del corretto riposo. Secondo quanto spiega Ravi Allada, professore in Neuroscience e presidente del Dipartimento di Neurobiologia del Weinberg College of Arts and Sciences nel nord ovest, direttore associato del Northwestern's Center for Sleep and Circadian Biology, membro del Chemistry of Life Processes Institute e autore senior dello studio, questa capacità di rimuovere i “rifiuti” da parte del cervello in realtà si verifica anche durante la veglia o durante le altre fasi del sonno ma è durante la fase del sonno profondo che essa si rivela particolarmente efficiente. Nell’indagine, pubblicata su Science Advances, i ricercatori descrivono come hanno ottenuto queste informazioni eseguendo esperimenti sui moscerini della frutta, piccole mosche che hanno cicli del sonno-veglia sorprendentemente simili a quelli degli esseri umani e che proprio per questo vengono presi in considerazione quando si tratta di studi sul sonno o su tutto ciò che riguarda questo argomento per gli esseri umani. I ricercatori si sono concentrati soprattutto sul sonno profondo di questi moscerini, simile alla fase del sonno profondo umana con le sue lente onde cerebrali e hanno scoperto che, i moscerini, durante questa importante fase, estendono e ritraggono in maniera ripetuta la proboscide, ossia quella sporgenza che hanno davanti al muso. Si tratta di un movimento di pompaggio di fluidi verso quelli che sono considerati le versioni dei reni negli umani.

«Il nostro studio mostra che questo facilita l’eliminazione dei rifiuti e aiuta nel recupero degli infortuni» spiega Allada. Compromettendo la fase del sonno profondo nei moscerini, questi ultimi erano meno capaci di eliminare una sostanza che gli stessi ricercatori avevano iniettato nei loro corpi e risultavano più suscettibili alle lesioni traumatiche. Questo studio mostra perché la maggior parte degli animali debba dormire, nonostante la fase di sonno sia rimasta ancora pericolosissima perché rende il corpo particolarmente vulnerabile agli attacchi. Evidentemente i benefici che il sonno apporta, come la rimozione di importanti rifiuti, restano ancora nettamente superiori ai pericoli che possono incorrere durante una fase in cui si è praticamente incoscienti e quindi la stessa evoluzione non ha permesso che il sonno stesso possa essere intaccato in qualche modo. Quando gli scienziati hanno compromesso il sonno profondo delle mosche, le mosche erano meno in grado di eliminare un colorante non metabolizzabile iniettato dai loro sistemi ed erano più suscettibili a lesioni traumatiche. Secondo l’autore della ricerca, questo studio ci avvicina alla comprensione della motivazione per cui tutti gli organismi hanno bisogno di dormire anche se, proprio gli animali, specialmente quelli in natura, sono incredibilmente vulnerabili quando dormono. Ma la ricerca mostra sempre più che i benefici del sonno, inclusa la rimozione cruciale dei rifiuti, superano questa maggiore vulnerabilità.


L’eliminazione dei rifiuti, un’antica funzione riparatrice


La rimozione dei rifiuti potrebbe essere importante, in generale, per mantenere la salute del cervello o per prevenire le malattie neurogenerative», ha affermato il dottor Ravi Allada, autore senior dello studio. La rimozione dei rifiuti può verificarsi durante la veglia e il sonno, ma è notevolmente migliorata durante il sonno profondo. Questo movimento di pompaggio sposta i fluidi possibilmente alla versione mosca dei reni - spiega Allada -. Il nostro studio mostra che questo facilita l'eliminazione dei rifiuti e aiuta nel recupero degli infortuni. La nostra scoperta che il sonno profondo ha un ruolo nell'eliminazione dei rifiuti nel moscerino della frutta indica che l'eliminazione dei rifiuti è una funzione fondamentale del sonno conservata in modo evolutivo. Questo suggerisce che l'eliminazione dei rifiuti potrebbe essere stata una funzione del sonno nell'antenato comune delle mosche e degli esseri umani.

Tutti i consigli per RIPOSARE meglio ed essere più energici

 

La privazione del sonno altera l'apprendimento, la memoria e la funzione immunitaria oltre a ritardare la guarigione delle ferite, ma una buona notte di sonno può invertire queste menomazioni. Proponiamo che quelle funzioni conservate rappresentino le funzioni primordiali del sonno che hanno guidato l'evoluzione di questo stato enigmatico. Una di queste funzioni proposte comporta l'eliminazione dei rifiuti dal cervello attraverso i cambiamenti innescati dal sonno nella dinamica dei fluidi. In un modello, il liquido cerebrospinale (CSF) entra nel parenchima cerebrale attraverso percorsi periarteriosi, guidando la convezione del liquido interstiziale (ISF) che rimuove i prodotti di scarto tossici dallo spazio interstiziale del cervello e drena lungo i percorsi perivenosi. Inoltre, il flusso sanguigno cerebrale e il volume del sangue diminuiscono durante il sonno a onde lente (SWS), causando un'inversione temporanea della direzione del flusso del liquido cerebrospinale nel terzo e quarto ventricolo. Queste oscillazioni emodinamiche guidate da SWS facilitano potenzialmente l'eliminazione dei rifiuti consentendo a CSF e ISF di mescolarsi. Sebbene il sonno sia stato spesso caratterizzato nei mammiferi utilizzando firme neurali per diverse fasi del sonno, i criteri comportamentali vengono generalmente applicati a un'ampia gamma di organismi. Questi criteri comportamentali includono la quiescenza comportamentale reversibile alla stimolazione, una postura caratteristica, una ridotta reattività sensoriale e un sonno di rimbalzo in seguito alla privazione del sonno.

Dal risparmio energetico al degrado delle prestazioni

Nello studio è stato dimostrato che il sonno della drosofila è importante per l'apprendimento e la memoria, risparmio energetico, riducendo il degrado delle prestazioni indotto dalla veglia e supportando le funzioni immunitarie. Vi sono prove crescenti che il sonno degli invertebrati sia composto anche da diverse fasi. Il sonno profondo negli invertebrati ha distinti correlati neurali. Oscillazioni lente (8 Hz), accompagnate da una postura specifica e soglie di eccitazione aumentate, sono state identificate nei gamberi e oscillazioni di 1 Hz in risposta all'aumento della pressione del sonno sono state osservate localmente nei neuroni della drosophila R5. Le api che si addormentano progrediscono attraverso diverse posture correlate a soglie di eccitazione aumentate e i moscerini della frutta attraversano fasi di sonno più leggero e più profondo durante un periodo di sonno, come indicato dai cambiamenti nelle soglie di eccitazione. L'inizio del sonno è un processo cerebrale discreto in drosophila che è caratterizzato da oscillazioni da 7 a 10 Hz mentre la mosca passa al sonno. Questa è una fase del sonno profondo, come indicato dall'aumento delle soglie di eccitazione e dai cambiamenti caratteristici dell'attività neurale. In sintesi, l'eliminazione dei rifiuti è un'antica funzione riparatrice del sonno profondo, in cui le mosche come gli esseri umani hanno sviluppato soluzioni meccaniche per aumentare le oscillazioni emodinamiche durante il sonno.

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Il sonno è insostituibile. Da non confondere poi con il rituale “pisolino”. Oltre ad essere vitale per un equilibrato funzionamento del nostro organismo, rappresenta l’unico metodo per tenere a un certo livello le funzioni cognitive del cervello e in generale per il recupero di questo importantissimo organo. La conferma arriva da un nuovo studio pubblicato sulla rivista SLEEP ad opera di un team di ricercatori dell’Università di Friburgo.

«Il sonno è insostituibile per il recupero del cervello. Non può essere sostituito da brevi intervalli di riposo per migliorare le prestazioni. Lo stato del cervello durante il sonno è unico» spiega Christoph Nissen, ricercatore del Dipartimento di Psichiatria e Psicoterapia dell’Università tedesca al momento dello studio (ora ricercatore all’Università di Berna). Secondo i ricercatori dall’indagine è emerso che il sonno profondo ha un impatto sul cervello molto importante, soprattutto per la connettività delle cellule nervose e, di conseguenza, le ore di sonno non possono essere sostituite dal semplice riposo, breve o frammentato che sia, senza avere impatti negativi sulle funzioni cognitive e quindi sulla vita quotidiana. Inoltre, indagini precedenti condette all’Università della California, Berkeley, evidenziano che nel target di riferimento dell'indagine, tra cinquantenni e sessantenni che dormono poco e male aumenta il rischio di Alzheimer. Attenzione, quindi, come ricorda Matthew Walker, professore di Psicologia all’Università della California e autore principale dello studio: «Il sonno insufficiente, soprattutto quando caratterizza la vita di una persona a lungo termine, è predittivo dello sviluppo del morbo di Alzheimer».

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Per approfondimenti:

Notizie Scientifiche "Fase del sonno profondo fondamentale per eliminare “rifiuti” dal cervello"

NORTHWESTERN "Deep sleep takes out the trash"

Science Advances "A deep sleep stage in Drosophila with a functional role in waste clearance"

Notizie Scientifiche "Il sonno è unico per il cervello, semplice riposo non può sostituirlo"

Sleep "Sleep is more than rest for plasticity in the human cortex"

Notizie Scientifiche "Cinquantenni e sessantenni con scarsa qualità del sonno più a rischio di Alzheimer"

La Stampa "Il segreto della felicità? Semplice: dormire bene di notte"

Io Donna "Post lockdown: 6 bambini su 10 mostrano ansia, irritabilità e disturbi del sonno"

Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"

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Ribattezzata “coronasomnia”. Dal cambiamento delle abitudini allo spostamento dei rituali quotidiani. Complice sicuramente anche l’aumento dell’utilizzo dei dispositivi elettronici e della drastica riduzione delle occasioni sociali, i problemi del sonno sono diventati praticamente uguali a quelli di adeguamento da jet lag ovvero, dei tipici disagi riscontrati a seguito di un brusco cambiamento, come avviene in un volo intercontinentale, cambiando fuso orario e stagione. Energia, umore, lucidità mentale e performance. Il sonno è indispensabile! Tra i suoi grandi nemici in questo delicato periodo storico, la luce blu dei dispositivi elettronici, prima tra tutte, quella della televisione. Un recente studio indio-asiatico pubblicato su Psychiatry Research ha indagato la crescita del cosiddetto “binge watching” (abbuffate televisive), un comportamento patologico che nel sud-est asiatico durante il lockdown è aumentato fino al 73,7%. Insomma, intere giornate passate davanti allo schermo, in oltre la metà dei casi per noia (il 52,6%), in un quarto per ridurre lo stress e nel 15,7% per vincere la solitudine, guardando per almeno 5 ore consecutive soprattutto notiziari (il 69,2%) o programmi di YouTube (il 52,7%). Una cyber-psicopatologia che sfocia in affaticabilità cronica, irritabilità, disturbi dell’umore, ridotta efficienza lavorativa e una significativa interferenza col sonno. Un disturbo che coinvolge il 70% della popolazione, soprattutto donne (il 49%), nella fascia tra i 18 ed i 44 anni. Di questi binge-wiever, il 90% soffre di insonnia o disturbi del sonno.

INSONNIA? Farmaci per dormire e possibili rischi per la salute

Oltre alle abbuffate di serie televisive, anche quelle di cibo. Insomma, isolati, affamati e insonni. La risposta alle notti tormentate è una terapia capace di ripristinare in maniera naturale i cicli perduti di sonno, garantendo così il regolare funzionamento del ritmo circadiano e delle fasi sonno-veglia. Un effetto con la capacità di riequilibrare la bilancia ipotalamica. Grande alleata in questa battaglia quotidiana, proprio la melatonina che, seguendo la stessa curva di diffusione sera-mattino di quella naturale dell’epifisi, ripristina un sonno fisiologico, riducendo il fenomeno della cosiddetta “inerzia morfeica da sonniferi (cioè il risveglio frastornato che segue a una dormita indotta farmacologicamente) e migliora, di conseguenza, del 55% la qualità del risveglio, peraltro pessima in oltre la metà degli adulti che fanno uso di sonniferi. Quindi, la salute fisica e mentale è strettamente correlata ad un buon riposo, condizione sempre più rara in tempi di Covid. Tra i diversi disturbi del sonno, quella che accomuna gran parte degli italiani è senza dubbio l’insonnia, ovvero la difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno costante, che si traduce nella percezione di un sonno non ristoratore, con stanchezza e sonnolenza durante il giorno. In sostanza, si dorme poco e male e l’indomani ci si sveglia scarichi e non riposati. Nel lungo termine, questi disturbi, possono impattare sulla salute con la comparsa di serie patologie come obesità, ansia, depressione, malattie cardiovascolari e diabete. Senza trascurare poi la difficoltà di concentrazione. Tirando le somme, dalla prima alla seconda ondata, complice anche il peggioramento delle condizioni psicologiche, si registra non solo un inasprimento della qualità del sonno, bensì un aumento dei “nottambuli” del 25%.

Le “ore piccole” indeboliscono la risposta immunitaria

Una correlazione poi, quella tra il sistema immunitario e le ore di riposo che viene confermata da una lunga serie di studi. Evidenze scientifiche dimostrano che chi dorme meno di sei ore è più vulnerabile rispetto a chi dorme almeno sette ore a notte. Insomma, uno scudo naturale che ci protegge da virus, raffreddori e influenze stagionali. Difatti, l’insonnia o un sonno frammentato incidono negativamente sul nostro sistema immunitario e, di conseguenza, anche sul nostro organismo. Insomma, dal sonno a intermittenza all'insonnia, questi disturbi non vanno mai sottovalutati. Dormine fa bene perché il riposo porta con se tanti aspetti e azione importanti contribuendo sia al benessere psicofisico sia al contrasto di tante patologie.

INSONNIA? Come DORMIRE bene e svegliarsi riposati


Con l’arrivo della pandemia è un po’ come se tutti fossimo saliti a bordo di un aereo che non atterra mai, alterando così i nostri ritmi sonno-veglia - spiega al Corriere della Sera l’ex-presidente della SINPF, Giovanni Biggio dell’Università di Cagliari che ha illustrato questa sistuazione al convegno "Quando tutto cambia" - Questo volo senza scalo assomiglia alla costrizione in casa impostaci dal lock-down in cui si perde il ritmo delle abituali attività di vita e di lavoro e i rapporti sociali. Il naturale alternarsi del ciclo luce-buio che favorisce sonno e ritmi di vita è il principale fattore perduto: non ci si alza più alla solita ora per andare in ufficio o a scuola e la sera ci si attarda alla TV o al computer. La continua esposizione alla luce artificiale di casa o a quella blu degli schermi TV o dei PC usati in smart-working, mette in crisi l’epifisi, la ghiandola posta dietro la fronte che, in risposta agli stimoli luminosi naturali, produce l’ormone dei ritmi del sonno chiamato melatonina che sale la sera e scende il mattino.

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Una persona su quattro trascorre notti in bianco. Secondo i risultati della British Sleep Society pubblicati sul Journal of Thoracic Disease, bel il 70% dei britannici di età compresa tra i 40 e i 63 anni ha riferito di cambiamenti nei propri schemi di sonno dal primo lockdown. Il catalogo dei problemi di sonno riportati includevano disturbi del sonno, addormentarsi involontariamente, difficoltà ad addormentarsi o rimanere addormentati e andare a dormire più tardi. Tra le altre considerazioni rilevanti, il sonno influenza direttamente la nostra risposta immunitaria. La privazione del sonno riduce la produzione di citochine protettive e viceversa, così come quella degli anticorpi e delle altre cellule che combattono le infezioni. «Durante il sonno, il nostro sistema immunitario rilascia proteine chiamate citochine», evidenzia la dottoressa Ivana Rosenzweig, medico del sonno. Tuttavia, dormire di più non è sufficiente, occorre riposare bene! Il dottor Steven Altchuler, psichiatra e neurologo specializzato in medicina del sonno presso la Mayo Clinic (USA), sottolinea che sono in gioco molteplici fattori. Primo, la nostra routine quotidiana e l’ambiente sono stati interrotti, rendendo difficile mantenere intatto il nostro ritmo circadiano. Normalmente le nostre giornate si susseguono secondo un programma di risvegli, pendolari, pause e ore di sonno, ma il COVID-19 ha cambiato, da un giorno all'altro, tutte le nostre abitudini. «Abbiamo perso molti dei segnali esterni che sono presenti nelle riunioni dell’ufficio, nelle pause pranzo programmate. Quello che stai facendo, durante il lavoro a distanza, è interrompere il tuo orologio biologico», ha sottolineato il neurologo.

Una spiegazione esaustiva del disagio che siamo vivendo ce la fornisce anche Christian Orlando, biologo e nutrizionista:

Il lockdown, tra le varie problematiche che ha portato una di queste riguarda l’aumento di disturbi del sonno (insonnie reattive legate agli stati ansioso-depressivi, allo stress, all’ansia; insonnie legate all’alterazione del ritmo biologico e delle attività giornaliere del singolo). Un recente approfondimento pubblicato dalla rivista americana The Atlantic afferma che “il buon funzionamento del ritmo sonno-veglia aiuta a impedire che le nostre risposte immunitarie vadano in tilt” quindi intervenire sulla regolarizzazione del sonno è certamente desiderabile per quanto concerne l’esposizione all’infezione: disturbi del ritmo circadiano, infatti, si associano a vari aspetti di depressione immunitaria I benefici della melatonina riguardano principalmente il ripristino del ritmo sonno-veglia e subordinatamente la facilitazione dell’addormentamento. Un sonno migliore e stabilizzato, a cascata e in maniera indiretta, può migliorare il quadro immunitario. La melatonina è un ingrediente naturalmente presente nel nostro organismo, in grado di incidere positivamente sulla qualità del sonno senza compromettere le nostre attività diurne. Infatti con il risveglio, l’organismo riesce a smaltire naturalmente la melatonina residua, concedendo al corpo l’energia necessaria per affrontare le attività giornaliere. Secondo uno studio, realizzato dagli scienziati della Cleveland Clinic, centro di ricerca con sede in Ohio, la melatonina sarebbe associato a una “probabilità ridotta di quasi il 30% di positività al test diagnostico per Sars-Cov-2”. Trattandosi di risultati prodotti sulla base di simulazioni e analisi di dati statistici, occorre specificare che per ora non vi è alcuna evidenzia del nesso causa-effetto del beneficio e del fatto che gli integratori a base di melatonina abbiano azione protettiva rispetto al virus. L’ormone, sottolinea la ricerca, potrebbe giovare in particolare ai soggetti anziani, visto che la sua produzione naturale si riduce con l’avanzare dell’età.

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Per approfondimenti:

Corriere della Sera "Con la pandemia gli stessi problemi di sonno e adeguamento del jet lag"

Gazzetta Active "Sistema immunitario, così il sonno ci protegge dalle infezioni. Dormite poco? Ecco i rischi"

Corrriere della Sera "Gli effetti sul sonno della pandemia"

Il Messaggero "Covid: stanchezza, affaticamento e insonnia. Gli strascichi della malattia nello studio del Careggi"

Il Giornale "Coronavirus e insonnia: cosa fare per dormire meglio"

The italian times "Insonnia: cause e rimedi per curare ansia e stress da mancanza sonno!"

Plos Biology "A bidirectional relationship between sleep and oxidative stress in Drosophila"

Vanity Fair "INSONNIA E PROBLEMI COL SONNO: ECCO COSA FARE SE NON RIESCI A DORMIRE"

La Repubblica "Dormire poco fa male al cuore"

Plos Biology "Broken sleep predicts hardened blood vessels"

Fondazione Veronesi "Insonnia: se dormi male anche il cuore rischia"

La Repubblica "Anziani, se troppo sonno diventa la spia di diabete e problemi di cuore"

Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"

La Repubblica "Coronavirus: irritabilità, insonnia e paura per il 70% dei ragazzi"

Io Donna "Post lockdown: 6 bambini su 10 mostrano ansia, irritabilità e disturbi del sonno"

LEGGI ANCHE: Dall’insonnia al raffreddore, quando dormire poco indebolisce il sistema immunitario

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Esiste un legame tra le alterazioni del ritmo sonno-veglia e la malattia di Parkinson? Tra le più frequenti malattie neurodegenerative della nostra epoca. Generato dalla morte precoce di alcune cellule all’interno del cervello, in particolare neuroni localizzati in un’area detta “sostanza nera”. I neuroni situati in questa parte del cervello compongono un circuito complesso, regolato da molecole di trasmissione tra cui la dopamina. La scomparsa delle cellule che producono questa sostanza, comporta la perdita di regolazione dell’intero circuito, producendo infine i tipici sintomi di questa patologia. Tra le diversi manifestazioni, il Parkinson è maggiormente riconosciuto per le sue alterazioni del movimento tra cui tremori, rigidità e lentezza nei movimenti, difficoltà a mantenere equilibrio e postura eretta. Invece, tra i sintomi non motori compaiono quelli relativi al comportamento e al cosiddetto “ritmo circadiano”. Dal latino circa diem, letteralmente “intorno al giorno”, con questa espressione si intende, infatti, l’alternanza ciclica delle attività dell’organismo, ovvero del nostro orologio biologico, nell’arco delle 24 ore. Ne è l’esempio il ritmo sonno-veglia dove siamo portati spontaneamente a rimanere svegli nelle ore diurne per poi riposare in quelle notturne. Un istinto che viene influenzato da diversi fattori biologici, il nostro complesso “orologio interno” che reagisce a stimoli esterni (tra cui luce e buio) oltre a circuiti neuronali e ormonali.


Niente dura per sempre, neanche i ritmi circadiani che tendono a indebolirsi, diventando sempre più frammentari e deboli, con l’avanzare dell’età. Questo affievolimento sembra più evidente nelle persone affette da morbo di Parkinson. A conferma di questa teoria, alcune recenti evidenze scientifiche indicano che i disturbi del ritmo sonno-veglia, inclusi l’addormentamento durante le ore diurne, l’insonnia e altri disturbi del sonno, potrebbero essere sintomi precoci o fattori di rischio per lo sviluppo del Parkinson. Se così fosse, riconoscerli tempestivamente e prevenirli potrebbe contribuire efficace contrasto della malattia. In pratica, l’interruzione del ritmo circadiano negli anziani potrebbe rappresentare, in particolare tra quelli con malattie neurodegenerative, un'importante caratteristica prodromica per il morbo di Parkinson. Ovvero, la ridotta ritmicità circadiana è stata associata ad un aumento del rischio di questa malatti, suggerendo che possa rappresentare un'importante caratteristica prodromica per il Parkinson. Non dimentichiamo che, solo in Italia, sono 230 mila le persone affette dal morbo di Parkinson. Tra questi, soprattutto le persone con età media superiore ai 60 anni.

Dormire bene per vivere bene


Nella malattia di Parkinson – evidenzia Christian Orlando, biologo - l'importanza dell’alimentazione è ormai nota a tutti. In presenza di malattie croniche un’alimentazione corretta diventa condizione fondamentale per il benessere dell’individuo e influisce positivamente sull’efficacia della terapia farmacologica e sullo stato di salute generale». Inoltre, «un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati insulinici ha un enorme potenziale nella prevenzione e nella gestione delle patologie neurodegenerative come il Parkinson. Gli studi clinici che esplorano l’effetto dei cambiamenti dietetici a livello neuronale sono pochi e lontani tra loro, ma esiste già un’enorme quantità di materiale scientifico che dettaglia come le diete ad alto contenuto di zucchero mettono a repentaglio la salute del cervello e quanto invece, al contrario, le diete a basso contenuto di carboidrati supportano la salute del cervello. Infatti nella patologia del Parkinson la funzione mitocondriale indebolita si suppone sia coinvolta nella morte dei neuroni che forniscono la dopamina. I ricercatori ipotizzano che i corpi chetonici, utilizzati come fonte energetica in caso di ridotto apporto di carboidrati, possono proteggere i mitocondri e sostenere la loro funzione» conclude l’esperto.

Tutti i consigli per RIPOSARE meglio ed essere più energici

 

Che sia in arrivo la primavera, l’estate, l’autunno o l’inverno, il cambiamento influenza pesantemente il nostro organismo» sostiene Christian Orlando, biologo. «Il doversi adattare a un nuovo clima – continua -, alla diversa lunghezza della giornata e a nuove abitudini di vita, può generare stress mentale e stanchezza fisica. Ogni volta che c’è un cambio di stagione potrebbero manifestarsi una serie di disturbi, che possono compromettere la qualità della vita quotidiana». «Spesso si parla di disordine affettivo stagionale che si manifesta con malessere e stress. Sono diverse le cause che potrebbero celarsi dietro la stanchezza del cambio di stagione, tra cui l’alterazione della serotonina e della melatonina, dovute alle modifiche nell’alternanza tra luce e buio» evidenzia l’esperto. «Comunque – suggerisce Orlando - ci sono dei semplici rimedi che possono aiutare a vivere meglio il cambio di stagione, è importante assumere vitamine del gruppo B che supportano il nostro metabolismo energetico, la vitamina C perché contribuisce a ridurre stress e affaticamento e la melatonina importante per ritrovare il giusto equilibrio sonno-veglia. E’ importantissimo anche idratare l’organismo, che ha bisogno di eliminare le tossine e le scorie accumulate inoltre anche una leggera attività fisica è utile per rilassare la mente.

Tutte le conseguenze delle "ore piccole"

Per verificare questa associazione, è stato condotto uno studio clinico recentemente pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Neurology. L’indagine è stata condotta su 2930 uomini di età avanzata (età media 76 anni) non affetti da malattia di Parkinson. I partecipanti sono stati sottoposti all’analisi del ritmo sonno-veglia attraverso un actigrafo: un dispositivo indossato sul polso che misura il movimento tramite un accelerometro, registrandone anche la frequenza e l’intensità. Il ritmo circadiano è stato valutato attraverso parametri ben precisi tra cui l’ampiezza, ovvero, la differenza tra il punto di massima e di minima attività; il livello medio di attività durante le ore diurne; la robustezza, cioè la stabilità e non frammentarietà del ritmo; e, infine, la cosiddetta acrofase, una misura del momento della giornata in cui si verifica la massima attività. Nel corso dello studio sono anche stati analizzati eventuali disturbi del sonno. I partecipanti sono stati seguiti nel tempo per 11 anni, valutando l’eventuale insorgenza di malattia. Nel corso del periodo di studio, solo in 78 dei 2930 partecipanti hanno riscontrato il morbo di Parkinson. Analizzando i dati raccolti, gli individui a maggior rischio di sviluppare la malattia erano anche quelli con un ritmo sonno-veglia caratterizzato da minori livelli di ampiezza, robustezza e con un minor livello medio di attività. L’acrofase è risultata mediamente più ritardata nelle persone con malattia di Parkinson. Le associazioni rilevate sono risultate verificate anche dopo aver escluso l’interferenza di disturbi del sonno e di altri fattori come sintomi depressivi, malattie concomitanti, assunzione di alcolici e caffeina.

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Insomma, le anomalie circadiane negli anziani sono associate ad un aumentato rischio di sviluppare la malattia di Parkinson nel tempo? I risultati di questo studio confermano come i disturbi del ritmo sonno-veglia (tra cui addormentamento durante le ore del giorno, disturbi del sonno, insonnia e frammentazione del sonno durante la notte) possano essere un sintomo precoce della malattia di Parkinson, spesso precedente all’insorgenza dei più noti disturbi motori. Non si può escludere, in base alle conoscenze attuali, che le alterazioni del ritmo circadiano siano esse stesse responsabili dello sviluppo della malattia: potenzialmente, la disregolazione dell’orologio biologico potrebbe danneggiare il sistema immunitario o provocare stress ossidativo, contribuendo alla genesi del disturbo. Per analizzare ulteriormente questi meccanismi e verificare la presenza di un nesso causale sono necessari ulteriori studi: se questa correlazione verrà confermata, l’ottimizzazione del ritmo sonno-veglia potrebbe diventare un ulteriore obiettivo terapeutico nella prevenzione e gestione della malattia di Parkinson. Proprio per questo, per contrastare insonnia e disturbi del sonno è fondamentale un buon alleato: scegliere la corretta integrazione per regolarizzare e facilitare la fasi del sonno. Tra i rimedi naturali per il corretto riposo c’è proprio la melatonina. Una molecola naturale antichissima (la sua evoluzione risale a 3 miliardi di anni fa), prodotta dalla ghiandola pineale (epifisi), allocata nell’encefalo, a forma di pigna e presente in qualsiasi organismo animale o vegetale. La sua principale funzione è quella di regolare il ritmo circadiano, laddove l’alternarsi del giorno e della notte inducono variazioni dei parametri vitali.

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Per approfondimenti:

JAMA Neurology "Association of Circadian Abnormalities in Older Adults With an Increased Risk of Developing Parkinson Disease"

MedicalFacts "Malattia di Parkinson: levatacce e ore piccole possono influire?"

Il Messaggero "Il Covid può portare al Parkinson, studio australiano: Sarà la terza ondata della pandemia"

Libero "Coronavirus e Parkinson, la correlazione col morbo: "Questa sarà la vera terza ondata della pandemia"

Io Donna "Post lockdown: 6 bambini su 10 mostrano ansia, irritabilità e disturbi del sonno"

Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"

Il Fatto Quitidiano "Parkinson, “un nesso tra infiammazione e la neurotossicità”. Lo studio dell’istituto Mario Negri"

Wired "A causa di Covid-19 potremmo vedere un'ondata di Parkinson"

PubMed "Peripheral inflammation exacerbates α-synuclein toxicity and neuropathology in Parkinson's models"

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Sono 230 mila le persone affette dal morbo di Parkinson in Italia. Tra questi, sono soprattutto le persone con età media superiore ai 60 anni. Come sappiamo, il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa, che determina la morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina (un neurotrasmettitore responsabile di numerose funzioni cerebrali). Lunga e silenziosa. Oltre alle conseguenze neurologiche, una forte escalation dell'incidenza del morbo di Parkinson. Secondo alcuni ricercatori spagnoli, l’infezione da coronavirus potrebbe innescare il morbo di Parkinson, proprio come già accaduto in Spagna. Lancia l’allarme il Journal of Parkinson’s Disease dove emerge la paura di alcuni ricercatori dell’autorevole istituto australiano di neuroscienza e salute mentale, Florey Institute of Neuroscience and Mental Health, che temono che i sintomi neurologici indotti dall’infezione di Sars-Cov-2 possano essere solo le prime fasi di un processo infiammatorio del cervello dalle conseguenze ben più gravi. Lo studio, condotto da Kevin Barnham teme una storia già vista circa un secolo fa, quando, dopo la pandemia di influenza Spagnola, l’incidenza di malattia di Parkinson aumentò fino a tre volte. Dalle encefaliti alla perdita di olfatto e gusto. I dati finora raccolti sui sintomi neurologici correlati all’infezione di Sars-Cov-2, sostengono gli autori dell’articolo, suggeriscono che le premesse ci sono tutte e che il rischio sia reale.

Insomma, secondo lo studio, l'infiammazione neurale subita da molte persone positive al Covid-19 potrebbe essere un fattore chiave di rischio di contrarre il Parkinson's. I ricercatori evidenziano come la malattia degenerativa rischia con probabilità di rappresentare la «terza ondata della pandemia di Covid-19 e stimano che in tre persone su quattro con il Covid-19 si riscontrano sintomi neurologici. Sostengono inoltre gli esperti, che i sintomi stessi, che vanno da encefalite a perdita dell'olfatto, sono probabilmente riportati per difetto. Questo potrebbe includere test di olfatto e vista e scansioni cerebrali per identificare sintomi motori. Gli esperti non hanno ancora compreso fino in fondo le modalità usate da Sars-CoV-2 per raggiungere il cervello, ma «è acclarato il fatto che questo si verifichi e può causare danni alle cellule cerebrali innescando un potenziale processo neurodegenerativo» spiega all’Adnkronos il professor Kevin Barnham, del Florey Institute. Tra i principali segnali, proprio la perdita dell'olfatto potrebbe essere un nuovo modo per rilevare il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson, dato che si presenta nel 90% delle persone che hanno contratto il coronavirus e si trovano ancora nella prima fase e che si manifesta circa un decennio prima dei sintomi motori. Attualmente, per diagnosticare la malattia si presta particolare attenzione ai sintomi motori. Tuttavia, «se si aspetta fino a questa fase della malattia di Parkinson per diagnosticare e curare, si perde l'opportunità di adottare terapie neuroprotettive con l'effetto desiderato» sottolineano gli esperti.

Una battaglia che inizia a tavola

Si celebra il 28 novembre, la XII edizione della Giornata Nazionale Parkinson per offrire a tutti informazioni preziose e puntuali su questa malattia così complessa ed eterogenea.

«Nella malattia di Parkinson – evidenzia Christian Orlando, biologo - l'importanza dell’alimentazione è ormai nota a tutti. In presenza di malattie croniche un’alimentazione corretta diventa condizione fondamentale per il benessere dell’individuo e influisce positivamente sull’efficacia della terapia farmacologica e sullo stato di salute generale». Inoltre, «un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati insulinici ha un enorme potenziale nella prevenzione e nella gestione delle patologie neurodegenerative come il Parkinson. Gli studi clinici che esplorano l’effetto dei cambiamenti dietetici a livello neuronale sono pochi e lontani tra loro, ma esiste già un’enorme quantità di materiale scientifico che dettaglia come le diete ad alto contenuto di zucchero mettono a repentaglio la salute del cervello e quanto invece, al contrario, le diete a basso contenuto di carboidrati supportano la salute del cervello. Infatti nella patologia del Parkinson la funzione mitocondriale indebolita si suppone sia coinvolta nella morte dei neuroni che forniscono la dopamina. I ricercatori ipotizzano che i corpi chetonici, utilizzati come fonte energetica in caso di ridotto apporto di carboidrati, possono proteggere i mitocondri e sostenere la loro funzione» conclude l’esperto.

Una diversa risposta all’infiammazione di alcune cellule non neuronali, le microgliali rispetto alle astrocitarie, è quanto dimostrato da un nuovo studio, tutto italiano, sul morbo di Parkinson, la ricerca sperimentale pubblicata sulla rivista Neuropathology and Applied Neurobiology è stata condotta da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, in collaborazione con il Dipartimento di Biotecnologia e Scienze della vita dell’Università dell’Insubria. Una novità che forse potrebbe meglio orientare l’approccio terapeutico alla malattia. I test comportamentali, infatti, convergono nell’indicare l’influenza dello stato infiammatorio su fenomeni patologici a livello cerebrale. Inoltre, l’indagine dimostra in due modelli sperimentali distinti che l’infiammazione sistemica contribuisce in maniera determinante ad aggravare il danno cerebrale indotto dall’alfa-sinucleina, la proteina che in forma aggregata svolge un ruolo patologico nel morbo di Parkinson.

Gli effetti sulle cellule neuronali


«Il ruolo dell’infiammazione nelle malattie neuro-degenerative è stato evidenziato in diversi contesti sperimentali e clinici – spiega in un’intervista al Fatto Quotidiano Gianluigi Forloni, capo del Dipartimento di Neuroscienze del Mario Negri e coordinatore dello studio -. Questo studio ha il merito di indicare un possibile meccanismo biologico alla base dell’interazione tra infiammazione sistemica e neuro-degenerazione. I nostri risultati indicano in maniera precisa un nesso tra infiammazione e la neurotossicità indotta dalla proteina alfa-sinucleina che si accumula a livello intracellulare nei cosiddetti corpi di Lewy nel morbo di Parkinson e nelle demenze associate. L’induzione a livello sperimentale di uno stato infiammatorio cronico, non solo aggrava la tossicità neuronale indotta dall’applicazione intracerebrale di alfa-sinucleina, ma amplifica anche il quadro patologico che caratterizza topi transgenici modello di Parkinson». «L’azione sinergica tra alfa-sinucleina e infiammazione – secondo Pietro La Vitola, ricercatore del Mario Negri e primo autore della pubblicazione – produce un danno delle cellule nervose, ma ha un effetto differenziato sulle popolazioni cellulari non neuronali. Infatti, alcune (le cellule microgliali) mostrano un’attivazione amplificata, mentre altre (le cellule astrocitarie) risultano meno coinvolte nel processo infiammatorio o addirittura danneggiate. Questo risultato evidenzia come interventi più specifici sui diversi tipi cellulari, piuttosto che l’utilizzo di anti-infiammatori generici, possano rappresentare una nuova e promettente strategia terapeutica per il morbo di Parkinson». «Nel complesso – conclude Forloni – i nostri risultati devono trovare conferma a livello clinico, ma possono spiegare alcune evidenze già emerse nell’uomo e soprattutto orientare in maniera più mirata l’approccio terapeutico al morbo di Parkinson».

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Per approfondimenti:

Il Messaggero "Il Covid può portare al Parkinson, studio australiano: Sarà la terza ondata della pandemia"

Libero "Coronavirus e Parkinson, la correlazione col morbo: "Questa sarà la vera terza ondata della pandemia"

Il Fatto Quitidiano "Parkinson, “un nesso tra infiammazione e la neurotossicità”. Lo studio dell’istituto Mario Negri"

Wired "A causa di Covid-19 potremmo vedere un'ondata di Parkinson"

PubMed "Peripheral inflammation exacerbates α-synuclein toxicity and neuropathology in Parkinson's models"

Biomedicalcue "Parkinson: scoperta la coppia molecolare che frena il morbo"

LEGGI ANCHE: Infiammazione? Lo stile alimentare che aiuta la prevenzione di tante patologie

Rush University: la cannella per arrestare la progressione del morbo di Parkinson

Studi: la curcuma può curare Parkinson e Alzheimer ma la medicina non studia prodotti a basso costo...

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Duemila arance al giorno tolgono il medico di torno. È quanto mostra la ricerca condotta dall'Irccs di Candiolo e pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine. Secondo quest’indagine, infatti, una mega dose di vitamina C, somministrata per via endovenosa, per almeno due settimane, potrebbe potenziare gli effetti curativi dell'immunoterapia. Quindi, una dose massiccia, l’equivalente di 2000 arance potrebbe diventare un prezioso alleato nella battaglia anti-cancro. In base a quanto dimostrato da questa ricerca, l’acido ascorbico, rafforzando il sistema immunitario, potrebbe aumentare gli effetti benefici del trattamento anti-tumorale, riducendone persino la crescita. Come si legge su La Stampa, «la “bomba” di vitamina C potenzia l’immunoterapia e la rende più tollerabile, aprendo la strada a nuove possibilità di terapie integrate che potrebbero rallentare la progressione della malattia». Tuttavia, l’uso dell’acido ascorbico in dosi massicce e per via endovenosa è una pratica terapeutica consolidata già dagli anni ’30, all’epoca principalmente come arma di contrasto a polmoniti e infezioni polmonari e, più di recente, è stato utilizzato anche nel trattamento del Covid-19. Oggi, come allora, vengono dimostrati gli effetti positivi soprattutto sul nostro sistema immunitario.

Vitamina C, un concentrato di proprietà e benefici

Lo studio, condotto su topi con melanomi o tumori della mammella, al colon-retto o al pancreas, sottoposti o meno a immunoterapia oncologica. Perché la terapia sia efficace non si parla di normali dosi di Vitamina C, ma di vere e proprie "bombe" somministrate per via endovenosa per un periodo prolungato insieme. L’alto dosaggio è necessario per sbloccare il sistema immunitario stimolando una risposta più incisiva e, al tempo stesso, per generare reazioni auotoimmuni. Alberto Bardelli, direttore del Laboratorio di Oncologia Molecolare all’istituto di Candiolo e professore ordinario del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, ha spiegato che la scelta di testare le maga dosi di ascorbico nel peritoneo di topolini affetti da diversi tumori solidi è stato per comprenderne gli effetti sia sul tumore che sulla risposta immunitaria. I risultati dimostrano innanzitutto che la vitamina C da sola innesca i linfociti T e li attiva a una risposta più efficace contro il cancro, mettendolo nella condizione di rallentare drasticamente la sua crescita. La vitamina C è un potente antiossidante in grado di contrastare anche le infezioni respiratorie di origine virale, evitando così, lo sviluppo di complicanze. Dall’alimentazione bilanciata all’integrazione corretta. Una sorta di primo scudo contro gli attacchi esterni. Questo nutriente, importante per il nostro organismo, è presente nei kiwi, nelle arance, nelle fragole, nel ribes rosso, nel peperone rosso, nel cavolo nero, nei broccoli, negli spinaci, nella lattuga e nella rucola.

Risveglia il sistema immunitario

Questi promettenti risultati riaccendono i riflettori sugli effetti prodigiosi di questa importante vitamina. In sostanza, la vitamina C, seppur non contrastando direttamente il cancro, mette il nostro organismo nella condizione di fornire una risposta immunitaria capace di inibire lo sviluppo dei tumori. L’idea di questo studio, spiega Alberto Bardelli, nasce dai «dati positivi sull’aumento della sopravvivenza in pazienti con tumori trattati con vitamina C raccolti negli anni ’70 ma mai adeguatamente riprodotti e comprovati, gli studi sul ruolo di questa vitamina nel cancro sono stati a lungo abbandonati». «Questo conferma che il possibile effetto anticancro della vitamina C è mediato dall’azione positiva che essa ha sul sistema immunitario abbiamo, quindi, cercato di capire se tale effetto si mantenga anche in caso di immunoterapia, co-somministrando la vitamina C assieme a due farmaci inibitori dei checkpoint, già approvati per la terapia di alcuni tumori ma gravati da frequenti effetti collaterali, come la comparsa di resistenze al trattamento o di malattie autoimmuni» osserva Federica Di Nicolantonio, professore associato all’Università di Torino e a capo del laboratorio di epigenetica del cancro presso l’Istituto di Candiolo.

Storia e segreti della VITAMINA C nella prevenzione di tante malattie

I checkpoint sono i «freni molecolari» che vigilano sul sistema immunitario bloccherebbero reazioni di difesa eccessive che danneggerebbero i tessuti o provocherebbero malattie autoimmuni. Nel caso di tumori diventerebbe fondamentale sbloccarli, attraverso gli inibitori, in modo tale da rendere la risposta immune ancora più incisiva e in grado di avere la meglio sul cancro. Tuttavia, da non sottovalutare la comparsa di reazioni autoimmuni che impongono di sospendere le cure. «La contemporanea somministrazione delle mega-dosi di vitamina C - conclude Bardelli - ha potenziato l’effetto dell’immunoterapia con gli inibitori di checkpoint, rallentando la crescita dei tumori e addirittura portando alla regressione completa in alcuni animali con tumore al seno. Si tratta di risultati pre-clinici, ma se saranno confermati da successivi studi sull’uomo la ‘triplice terapia’ con vitamina C e i due inibitori di checkpoint potrebbe aprire la strada a nuove prospettive di cura nell’ambito delle terapie oncologiche integrate, rendendo le iniezioni endovenose di vitamina C ad alte dosi una strategia da abbinare all’immunoterapia».

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Per approfondimenti:

 Vanity Fair "Mega-dosi di vitamina C contro il cancro: il nuovo studio"

La Stampa "Le “bombe” di vitamina C potenziano le difese e l’immunoterapia anti-cancro"

Giornale di Sicilia "Tumori, uno studio conferma: Mega dosi di vitamina C endovena aiutano a difendersi"

Di Lei "Uno studio dimostra che la Vitamina C è efficace contro il cancro. Ma solo ad alte dosi"

LEGGI ANCHE: Dopo New York, Palermo: al via con la sperimentazione di vitamina C ad alto dosaggio

Coronavirus, New York come Shanghai: somministrati alti dosaggi di vitamina C

La prima linea di difesa è il sistema immunitario, tutti i segreti per rinforzarlo

Vitamina C e Covid: dall'azione immunomodulante alla tempesta di citochine

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