L’estate sta arrivando e il Covid se ne va. Ci riscaldano, ci abbronzano e in poche decine di secondi uccidono persino il virus. Meno di un minuto per disattivare la carica virale emessa da una persona positiva. È quanto conferma una nuova ricerca sui raggi che arrivano sulla terra. «Abbiamo dimostrato che raggi Uva e Uvb del sole nel giro di poche decine di secondi uccidono completamente il Sars-Cov-2» dimostra Mario Clerici, immunologo, docente di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore scientifico dell’Irccs di Milano Fondazione Don Gnocchi, autore, insieme al gruppo di ricerca dell’Istituto nazionale di astrofisica, di un nuovo studio tutto italiano. Numerose ricerche precedenti condotte nell’ultimo anno avevano già mostrato gli effetti benefici sia dei raggi solari che della vitamina D come scudo di difesa in questa pandemia. Secondo quando mostrato nell’ultima indagine, la luce ultravioletta a lunghezza d’onda corta o radiazione UV-C avrebbe un’ottima efficacia nel neutralizzare il coronavirus SARS-CoV-2. Confermata e ribadita più volte da recenti studi scientifici la relazione che associa la carenza di vitamina D alle forme più gravi di coronavirus. Insomma, che la carenza di vitamina D potrebbe diventare un fattore predisponente per ammalarsi di Covid e portare ad un esito severo o addirittura letale della malattia l’aveva già sostenuto a inizio pandemia, in una lettera al British Medical Journal, il professor Andrea Giustina primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology. Nella lettera, il primario evidenziava come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria.
Insomma, la bella stagione il virus porta via. 10, 20 secondi al massimo e il sole inattiva il virus. Ormai noto da tempo il potere germicida della luce UV-C su batteri e virus, una proprietà dovuta alla sua capacità di rompere i legami molecolari di DNA e RNA che costituiscono questi microorganismi. Difatti, diversi sistemi vengono utilizzati per la disinfezione di ambienti e superfici come appunto ospedali e luoghi pubblici. In pratica, d’estate il virus è spacciato. Quindi, di conseguenza, la peggior letalità del SARS-CoV-2 scaturita dalla minore (o nulla) esposizione ai raggi solari, mezzo primario per sintetizzare la vitamina D. Per l’esperimento, i ricercatori hanno utilizzato cellule polmonari in piastra che sono state irrorate con le diverse quantità di SARS-CoV-2, dunque poste sotto lampade UV per calcolare i tempi di inattivazione delle diverse lunghezze d’onda sul patogeno umano. L’effetto germicida è stato verificato anche in risposta all’irraggiamento con gli UV-A e gli UV-B, indicando che la carica virale può essere completamente inattivata dalle lunghezze d’onda UV corrispondenti all’irradiazione solare UV-A e UV-B. «Abbiamo illuminato con luce UV soluzioni a diverse concentrazioni di virus e abbiamo trovato che è sufficiente una dose molto piccola, per inattivare e inibire la riproduzione del virus, indipendentemente dalla sua concentrazione» sottolinea Mara Biasin, docente di Biologia Applicata dell’Università Statale di Milano. «Con dosi così piccole è possibile attuare un’efficace strategia di disinfezione contro il coronavirus. Questo dato sarà utile [...] per sviluppare sistemi volti a contrastare lo sviluppo della pandemia», aggiunge Andrea Bianco, tecnologo INAF.
Una teoria confermata già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. La vitamina D, per l'appunto, svolge tra le altre funzioni anche un ruolo importante come ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. Nelle persone con deficit di vitamina D, la sua integrazione è in grado di ridurre il rischio di sviluppare diverse infezioni virali. Quindi, oltre all’esposizione solare, la supplementazione di questo nutriente è una raccomandazione utile e sicura.
Questo studio - spiega Clerici all’Adnkronos Salute - è essenzialmente il seguito di un precedente lavoro che avevamo fatto l’anno scorso quando avevamo visto che i raggi Uvc che sono una componente dei raggi solari che però non arriva sulla terra, uccidevano il Sars-Cov-2 dopo un’esposizione di pochi secondi. Però gli Uvc - ribadisce Clerici - non arrivano sulla terra, quindi quei dati erano importanti solo da un certo punto di vista. Adesso, abbiamo visto che anche gli Uva e Uvb che sono i raggi che arrivano sulla terra, ci abbronzano e ci riscaldano, nel giro di poche decine di secondi uccidono completamente il Sars-Cov-2. Dunque abbiamo esattamente replicato i dati sugli Uvc però dimostrando questa volta che tutti i raggi solari distruggono il virus. E fra l’altro il tempo necessario, quando per esempio si è in spiaggia con il sole che viene amplificato dal riverbero sulla sabbia o sull’acqua, è ancora più breve. Quindi in spiaggia bastano veramente 10-20 secondi di Uva e Uvb per uccidere completamente il virus. La nostra idea è che questo, insieme alla percentuale sempre più alta di vaccinati, spieghi perché con la bella stagione stiamo superando la problematica. Innanzi tutto c’è da dire che il sole - sottolinea Clerici - non è il solo elemento che giustifichi tutto quello che osserviamo. In India hanno contribuito le feste religiose con i bagni nel Gange e poi c’erano i monsoni, quindi c’era tutta la velatura dei raggi solari dovuta alle nuvole. In Brasile sappiamo tutti quello che è successo purtroppo hanno pagato la gestione Bolsonaro, perché è vero che servono i raggi solari però servono anche le mascherine, i vaccini e tutto il resto.
Gli studiosi hanno confermato l’efficacia del sole contro il Covid-19 oltre a sterilizzare oggetti e ambienti dal virus.
Si vede proprio in una visualizzazione - spiega l’immunologo - l’effetto dei raggi solari sul virus: se non lo esponi ai raggi solari il virus infetta le cellule, se lo esponi ai raggi solari lo uccidi. I dati dell’anno scorso erano importanti perché hanno portato allo sviluppo di dispositivi che svolgevano proprio questa funzione ma i raggi Uvc - ricorda lo scienziato - sono pericolosi per la cute umana, quindi non si poteva stare nella stessa stanza dove venivano applicati. I raggi Uvb invece no, sono i raggi che ci toccano normalmente quando usciamo al sole, per cui questa scoperta ha un’importanza molto più alta. Gli astrofisici hanno collegato una macchinetta che produce i diversi raggi solari in maniera distinta, quindi solo gli Uva o gli Uvb o gli Uvc piuttosto che gli ultravioletti - spiega Clerici - poi abbiamo messo la macchinetta sotto una cappa, abbiamo preso le cellule polmonari e abbiamo buttato sopra il virus. E il virus che è stato esposto oppure no alle diverse componenti dei raggi solari. Dapprima - chiarisce l’immunologo - abbiamo usato una dose massimale di virus, quindi molto molto più alta di quella che si ha in un soggetto con Covid. E poi abbiamo usato la dose presente in un paziente con Covid severo, per vedere se poteva avere anche una potenziale importanza clinica. Ed effettivamente è così: si inattiva nel giro di pochi secondi la quantità di virus che è quella che nei pazienti provoca il Covid severo.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana che, soprattutto in Italia, è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.). In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione tra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente oppure al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente inferiori rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
Dati poi confermati da altri lavori condotti dall’inizio della pandemia hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza come strategia di prevenzione e trattamento:
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Per approfondimenti:
MedRxiv "UV-A e UV-B possono neutralizzare l'infettività SARS-CoV-2"
Adnkronos "Covid, studio italiano: così il sole distrugge il virus in pochi secondi"
Fanpage "I raggi solari uccidono il coronavirus in meno di un minuto"
HuffPost "I raggi del sole distruggono il virus in pochi secondi: i risultati di uno studio italiano"
Secolo d'Italia "Covid, i raggi solari distruggono il virus in pochi secondi. Lo dimostra uno studio italiano"
YouMedia "I raggi solari uccidono il coronavirus in meno di un minuto"
Respiratory Research "Circulating Vitamin D levels status and clinical prognostic indices in COVID-19 patients"
Agi "La carenza di vitamina D può aggravare la malattia"
Nurse Time "Coronavirus, carenza di vitamina D associata a stadi clinici più compromessi"
Comune di Torino "Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze"
Regione Piemonte "Covid, aggiornato il protocollo delle cure a casa"
Ansa "ANSA-IL-PUNTO/ COVID: PIEMONTE si attrezza contro varianti"
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Jama Network "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Springer Link "Associations between hypovitaminosis D and COVID-19: a narrative review"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"
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Fate largo agli ultracentenari! Quanto dura la vita umana? Esiste davvero un limite? Sulla correlazione tra invecchiamento e durata della vita si interrogano da tempo medici, biologi e studiosi dell’evoluzione. Molti studi confutano la tesi sostenuta in un’indagine del 2016 dove, si evidenziava che la soglia massima di vita era fissata al tetto dei 115 anni. Ma qual è veramente il massimo che possiamo vivere? Una soglia precisa non c’è, sostengono i nuovi studi, ma qualora ci fosse, sarebbe ben più alta dei 115 anni. Per Jim Vaupel, esperto di invecchiamento presso il Max Planck Institute for Demographic Research in Germania, «I dati indicano che non c'è un limite delineato. Al momento le evidenze scientifiche sembrano suggerire che, se di limite si può parlare, questo si situa oltre i 120 anni, forse anche di più, o forse non esiste affatto un limite». I nuovi dati fanno scricchiolare le conclusioni a cui era sopraggiunta della ricerca di Jan Vijg, il genetista dell'Albert Einstein College of Medicine di New York che aveva firmato il paper originale. Tuttavia, il presunto calcolo messo a punto dallo studio precedente sembrerebbe errato poiché basato su interpretazioni "visive" delle curve di longevità, su eccezioni che falsano i risultati, nonché su conclusioni arbitrarie e circolari. Inoltre, i notevoli progressi raggiunti soprattutto nell'alimentazione e nella cura della persona introdotti dai primi del '900 hanno portato ad un aumento pressoché costante nell'aspettativa di vita media. Difatti, l'Italia è tra i Paesi più longevi. Insomma, uno stile di vita sano oggi per diventare i “pionieri della longevità” di domani.
Sicuramente la scienza concorda che la capacità di vita delle cellule umane sia ben oltre i 120 anni e lo dimostrano tutte quelle persone che hanno superato quella soglia di età. Gli scienziati si sono concentrati sulle persone che hanno raggiunto o superato i 110 anni di età nei quattro Paesi con il maggior numero di ultracentenari (USA, Francia, Giappone e Gran Bretagna) e hanno notato che l'età della morte di questi individui super longevi è aumentata rapidamente tra gli anni '70 e i primi anni '90, per raggiungere un plateau attorno al 1995. Non a caso, nel 1997 è morta la francese Jeanne Calment, 122 anni, la persona più longeva che sia mai esistita. Molto spesso sentiamo parlare di persone che sostengono di aver vissuto anche più a lungo, ma la loro nascita non può essere verificata. Si dice che la maggior parte degli animali esistenti sulla terra possa vivere fino a sei volte oltre il periodo di crescita. Sulla base di questa teoria, molti studiosi ritengono che la durata della vita umana, la quale include un periodo di crescita di vent’anni, possa essere portata a 120 anni. Numerose tradizioni orientali di allenamento mente-corpo suggeriscono che gli esseri umani possano vivere in buona salute fino all’età di 120 anni, ovviamente se capaci di prendersi cura di se stessi, in accordo con i principi naturali. Dati alla mano, il limite assoluto di durata di vita umana è stato fissato, in base ai calcoli, a 125 anni. Tra i fattori capaci di migliorare l'aspettativa di vita media indubbiamente l’importanza della prevenzione e del trattamento delle malattie croniche. Tirando le somme, in considerazione di un prolungamento della vita umano ben oltre i 100 anni, ne consegue un altro aspetto importante: vivere questi anni nelle migliori condizioni di salute. Questo perché, in certe condizioni, uno stile di vita sano ed equilibrato diventa il nostro grande alleato nel contrasto a tante malattie, consentendo così alla vecchiaia di procedere ad oltranza.
«120 anni è il limite previsto dal nostro DNA», sottolineava qualche anno fa l’oncologo Umberto Veronesi. Ecco come continuare ad essere “diversamente giovani”. E finalmente, dopo anni di ricerche, gli scienziati cominciano a capire come raggiungerlo, controllando i nostri geni e l’alimentazione. Spinta dal progresso tecnologico, l'aspettativa di vita umana è aumentata notevolmente dal XIX secolo ad oggi. L'evidenza demografica ha rivelato una continua riduzione della mortalità in età avanzata e un aumento dell'età massima alla morte con la conseguente estensione, seppur graduale, della longevità stessa. Insieme alle osservazioni secondo cui la durata della vita in varie specie animali è flessibile e può essere aumentata, questi risultati hanno portato a suggerire che la longevità potrebbe non essere soggetta a vincoli genetici specifici per specie. Nello studio in questione, analizzando i dati demografici globali, viene mostrato come i miglioramenti nella sopravvivenza con l'età tendano a diminuire superati i 100 anni.
EMMA MORANO e il segreto della donna più vecchia del mondo
Questi risultati suggeriscono fortemente che la durata massima della vita degli esseri umani è fissa e soggetta a vincoli naturali. Lo dimostrano anche i dati delle Nazioni Unite del 2015, la popolazione mondiale con età superiore ai cento anni è di circa 500.000 individui. Si tratta di un aumento quadruplo rispetto a vent’anni fa e si prevede che la cifra aumenterà ancora più rapidamente in futuro. Secondo un sondaggio, nel 2014 avevano più di cento anni 72.000 americani.
Meglio essere chiari, l’elisir di lunga vita non esiste. Invecchiare in buona salute però è possibile, ritardando al massimo la comparsa della fragilità, che è sinonimo di vulnerabilità — spiega Nicola Ferrara, presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg) —. Un anziano fragile non ha acciacchi evidenti, ma vive in equilibrio precario perché la sua funzionalità si è pian piano deteriorata: un evento acuto come una frattura, una polmonite, un lutto possono alterare la situazione in maniera irreversibile, facendo precipitare le condizioni di salute.
Centenari si nasce o si diventa grazie all’alimentazione? Dieta corretta, una buona vita sociale per stimolare la mente e un’attività fisica adeguata. È questa la ricetta per invecchiare in salute. Con un regime alimentare corretto l’“invecchiamento attivo” (il momento in cui si dovrà affrontare il declino), dovrà aspettare. E anche se l’elisir di lunga vita non esiste, esistono tuttavia una serie di raccomandazioni per invecchiare in buona salute. Insomma, quello che mangi diventa il tuo corpo e la tua energia, da qui l’importanza nella scelta di come e cosa portare a tavola. Nascosto in Ecuador, il segreto di lunga vita. Nel 1969, il cardiologo ecuadoriano Miguel Salvador decide di esaminare 338 persone, tra uomini, donne e bambini di Vilcabamba per scoprire successivamente che nessuno di loro non solo non era affetto da arteriosclerosi e disfunzioni cardiache, ma neanche da cancro, diabete e Alzheimer. Inoltre, gli uomini sopra i 65 anni erano incredibilmente sani. «Verrebbe da pensare che alla base della longevità – come spiega un medico di Quito – ci sia una semplice dieta […], capace di ridurre l’insidia delle malattie cardiache. Alla salute di queste persone contribuiscono l’alimentazione, con il grande consumo dei prodotti naturali locali, frutta e verdura, ma anche carne e pesce».
Ad esempio, una ricerca dell’università di Londra condotta su 65.000 soggetti ha rivelato che chi consumava porzioni di frutta e verdura quotidianamente, presentava un tasso di mortalità prematura inferiore del 42% rispetto a chi le consumava sporadicamente o in misura ridotta. Inoltre, per mantenersi sani e forti, altro valido aiuto arriva dal movimento fisico, con benefici anche sulla qualità della vita stessa. Il passo diventa meno sicuro, i movimenti più lenti, i muscoli più deboli ed il pensiero meno lucido. Tanti piccoli segnali che, insieme all’avanzare degli anni ci allontanano dal benessere. La buona notizia è che il momento in cui si diventa vulnerabili non è scritto, ma può essere allontanato nel tempo con l’obiettivo di restituire vita agli anni. Vecchietti si, ma arzilli e pieni di energie. «Significa però poter diventare “grandi vecchi” in buona forma fisica e autonomia. Succede sempre più spesso: negli ultimi dieci anni i centenari sono cresciuti del 300%, oggi in Italia sono circa 17mila» Niccolò Marchionni, vicepresidente della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica. E molti di loro sono arzilli, energici, vecchietti.
Obiettivo: vivere fino a 120 anni, ma senza patologie. Nessun gene della longevità, solo comportamenti salutari. Tra le più efficaci strategie antiage, mangiare meglio e soprattutto alimenti che nutrono correttamente e proteggono le cellule. Praticare poi attività fisica regolare, ridurre lo stress, l’ansia, i pensieri negativi e, infine, dormire bene. Prima regola: un’attenzione particolare all’alimentazione evitando quei cibi che intaccano la salute e accorciano la nostra vita.
Una volta si pensava che il grasso addominale fosse un magazzino inerte. Invece abbiamo capito che quando le cellule del grasso diventano più grandi si mettono a produrre degli ormoni che causano infiammazione - spiega Luigi Fontana, docente di Nutrizione all’Università di Salerno e alla Washington University in St. Louis, Stati Uniti. - L’accumulo di grasso addominale favorisce gli stati infiammatori, il diabete, le malattie cardiovascolari e i tumori. Il girovita deve rimanere piatto: ogni volta che aumenta di un centimetro mi devo mettere a dieta e devo cominciare a fare attività fisica [...].
Come rallentare l’invecchiamento? Oltre alla durata cellulare scritta nel nostro DNA, invecchiamo anche a causa dell’accumulo, con il tempo, di danni cellulari all’organismo. Il conto alla rovescia è scandito dai telomeri, una sorta di tappi che rivestono la parte finale del DNA. Quando la cellula si divide, i telomeri si accorciano fino al loro deperimento che porta alla morte della cellula stessa. Colpevoli dei danni, invece, i radicali liberi, molecole che aggrediscono e danneggiano tutte le strutture cellulari. Questo avviene, ad esempio, quando introduciamo quei cibi che aumentano la produzione di radicali liberi che vanno poi a infiammare e a distruggere le nostre cellule. Nel corso degli ultimi anni sono stati scoperti circa 25 geni dell’invecchiamento (gerontogeni) che regolano la durata della vita nei topi, nei vermi e nei topolini: eliminandoli, gli animali vivono più a lungo. Lo stesso avviene anche per il genere umano. Per sommi capi, contro un declino inesorabile la soluzione per manipolare i geni dell’invecchiamento è nascosta proprio in quello che ogni giorno decidiamo di mettere nel piatto.
Nature "Maximum human lifespan may increase to 125 years"
New York Post "Scientists claim many people could soon live beyond 120 years old"
Focus "Esiste o no un limite alla durata della vita?"
Corriere della Sera "Vivere fino a 120 anni è possibile, la guida per arrivarci in buona forma"
Focus "Si può stabilire un limite massimo della vita umana?"
Riza "I segreti per vivere 120 anni"
Time "The New Age of Much Older Age"
Gazzetta dello Sport "Ecco la dieta antinfiammatoria, uno stile alimentare per prevenire le patologie dell’era moderna"
Sky Tg24 "I benefici delle spezie, possono aiutare a ridurre l'infiammazione"
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L'alimentazione, la grande alleata dei nostri occhi
Acclarata già da tempo la relazione che associa la carenza di vitamina D alle forme più gravi di coronavirus, viene confermata ancora volta da un altro studio che dimostra i tanti benefici di questo ‘ormone del sole’ e gli eventuali rischi di un eventuale deficit. Questa volta lo sostiene una ricerca condotta all’Ospedale Sant’Andrea di Roma e pubblicata sulla rivista scientifica Respiratory Research. «Abbiamo osservato in particolare 52 pazienti ricoverati da noi con polmoniti da Covid durante la prima ondata, pazienti anziani con un’età media di 68 anni e mezzo, accomunati da livelli estremamente bassi di vitamina D, inferiori a 10 ng/ml. Tutti avevano quadri respiratori e immunologici particolarmente gravi», spiega in un’intervista a Gazzetta Active il professor Alberto Ricci, direttore dell’U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma. Insomma, che la carenza di vitamina D potrebbe diventare un fattore predisponente per ammalarsi di Covid e portare ad un esito severo o addirittura letale della malattia l’aveva già sostenuto a inizio pandemia, in una lettera al British Medical Journal, il professor Andrea Giustina primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology. Nella lettera, il primario evidenziava come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria, favorendo anche il rischio di malattie autoimmuni.
Uno scenario critico soprattutto in un momento storico in cui il Covid stava compiendo la sua prima strage, soprattutto di anziani, nel Nord Italia. Caratteristica che è rimasta poi invariata anche nella seconda ondata dove tra le regioni più colpite risultano sicuramente quelle settentrionali. Dal Veneto al Piemonte, dalle Valle D’Aosta alla Lombardia. E non dimentichiamo che sono stati proprio i dati di quella parte di Italia a far schizzare il bilancio dei contagi e delle vittime nel Paese, portandoci in vetta alle tristi classifiche mondiali sullo stato dell’infezione da Sars-CoV-2. Quindi, la peggior letalità del Sars-CoV-2 scaturita dalla minore (o nulla) esposizione ai raggi solari, mezzo primario per sintetizzare la vitamina D. Stando a quanto riportato in diversi studi, nella popolazione italiana si registrano, soprattutto negli ultimi anni, bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno, per esempio, i Paesi scandinavi. Inoltre, emerge da un’altra importante metanalisi pubblicata nel 2017 sul British Medical Journal che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D, ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa, avevano meno infezioni respiratorie. Altro importante collegamento è quello che emerge tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio e di vitamina D e vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Tuttavia, questo ormone che è un composto naturale fisiologicamente già presente nell’organismo non può essere addizionato completamente mediante alimentazione poiché il cibo fornisce solo il 20% del fabbisogno giornaliero di questo prezioso nutriente.
L’indagine ha inoltre evidenziato i tanti effetti benefici della vitamina “del sole” oltre che sul sistema immunitario anche per il metabolismo delle ossa ed, in particolare, contro le infezioni.
Lungi dal considerare la vitamina D come un trattamento – sottolinea il professor Ricci – va però detto che rappresenta probabilmente, e non soltanto per il Covid-19, un elemento da valutare per le implicazioni legate ad una sua carenza. Non è solo di una vitamina necessaria per il metabolismo dell’osso, ma probabilmente svolge funzioni molto più complesse anche per quanto riguarda la parte immunologica, sia durante lo sviluppo del sistema immunitario sia nelle fasi successive di mantenimento e attività del sistema immunitario stesso - chiarisce Ricci. - Si tratta di un’osservazione interessante che potrebbe essere considerata anche in altri tipi di patologie infettive, non solo nel Covid.
Un nuovo studio che riporta sotto i riflettori un fenomeno di tutti quei Paesi del Nord Europa, quelli meno esposti al sole, il cosiddetto “paradosso scandinavo”: «C’è una campagna di implementazione di vitamina D importante che noi non facciamo, forse perché ci riteniamo naturalmente più protetti perché più esposti al sole. Ma certe popolazioni fragili come gli anziani stanno prevalentemente chiusi in casa o nelle Rsa e il sole non lo vedono. Proprio in questi casi, ma non solo, studiare i livelli plasmatici di vitamina D può essere molto importante per decidere eventuali integrazioni». Inoltre, a differenza degli italiani, gli scandinavi hanno sopperito a questa carenza, noi invece no, spiega l'autore dello studio.
I suoi importanti effetti a livello immunitario era confermati già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. Un paradosso, quello scandinavo, che permette di formulare un’ipotesi per l’Italia, colpita così duramente dalla pandemia, a causa degli scarsi, e quindi insufficienti, livelli di vitamina D registrati tra la popolazione. A questo scenario critico si lega l’importanza dell’integrazione che non prevede nessuna controindicazione. «La vitamina D non è un farmaco tossico, somministrarla a chi ha una carenza ne potenzia le risposte immunitarie. Dal lato opposto, chi ha livelli di vitamina D molto bassi è probabilmente molto più esposto alle infezioni in generale, respiratorie e non solo», conclude il professor Ricci.
Alimentazione Gazzetta "Vitamina D e Covid, un altro studio evidenzia carenze nei malati ospedalizzati"
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Il Piemonte rompe gli schemi: vitamina D introdotta nel protocollo contro il Covid
Una relazione tanto discussa che torna, ancora una volta, alla ribalta della cronaca nazionale grazie a una nuova ricerca italiana sull’importanza dell’ormone del sole nella lotta contro l’infezione da SARS-CoV2. Dall’indagine emerge che una carenza di vitamina D sembrerebbe peggiorare le condizioni, con evidenti criticità riscontrate nel quadro clinico delle persone positive al Covid. I ricercatori parlano appunto di "stadi clinici di Covid-19 più compromessi" per indicare una malattia più grave. Allo studio retrospettivo, pubblicato sulla rivista Respiratory Research e condotto su 52 pazienti, hanno collaborato l'Istituto superiore di sanità (Iss), l'Ospedale Sant'Andrea di Roma e altre istituzioni. Tra ipovitaminosi D e malattie polmonari, l’ennesima indagine prova a far chiarezza una volta per tutta: «[...] I nostri dati sottolineano una relazione tra i livelli plasmatici di vitamina D e diversi marcatori di malattia». Nelle persone con deficit di vitamina D, la sua integrazione è in grado di ridurre il rischio di sviluppare diverse infezioni virali. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a maggior rischio di essere positivi per Covid-19 rispetto a quei soggetti con stato di vitamina D sufficiente. Oltre all’esposizione solare e all’alimentazione, la supplementazione di vitamina D è una raccomandazione utile e sicura.
Insomma, molto di più di un micronutriente coinvolto nel metabolismo del calcio e nella salute delle ossa. La vitamina D, per l'appunto, svolge tra le altre funzioni anche un ruolo importante come ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. Come noto, infatti, i suoi recettori sono ampiamente distribuiti in tutto l’organismo e in particolare nell’epitelio alveolare polmonare e nel sistema immunitario. Ad, oggi, l'infezione da Covid-19 è ancora una sfida aperta. Sebbene siano note le caratteristiche cliniche a seguito della penetrazione del virus nel nostro sistema respiratorio, la patobiologia ei meccanismi che regolano questo ingresso e le ragioni alla base dei molteplici quadri clinici osservati sono ancora sconosciuti. Sfortunatamente, circa il 20% dei pazienti contagiati ha sviluppato una grave malattia respiratoria caratterizzata da infiltrati polmonari diffusi e danno di pneumociti alveolari, che va incontro ad apoptosi e morte. Le unità alveolari coinvolte sembrano essere periferiche e subpleuriche. Inoltre, è stata segnalata un'iperinfiammazione virale. Una precoce sovrapproduzione di citochine pro-infiammatorie conosciuta come tempesta di citochine. Tra questi, i livelli plasmatici elevati sono stati inclusi come predittori di mortalità. L'insufficienza della vitamina D è stata correlata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all'esacerbazione nelle malattie polmonari ostruttive croniche e nell'asma.
Coinvolti nella ricerca 52 pazienti (con età media di 68 anni) affetti da coronavirus con coinvolgimento polmonare (27 femmine e 25 maschi, nella fascia di età compresa tra i 29 ed i 94 anni). I livelli di vitamina D erano carenti (con livelli plasmatici di vitamina D molto bassi, sotto 10 ng/ml) nell'80% dei pazienti, insufficienti nel 6,5% e normali nel 13,5%. Circa l'8% della coorte di studio aveva livelli plasmatici di vitamina D normali. I pazienti alle prese con la forma più aggressiva di coronavirus avevano livelli plasmatici di vitamina D più bassi indipendentemente dall'età. Francesco Facchiano, ricercatore dell'Iss, coautore dello studio spiega il metodo di ricerca utilizzato:
Nella nostra indagine abbiamo correlato, per la prima volta, i livelli plasmatici di vitamina D a quelli di diversi marcatori (di infiammazione, di danno cellulare e coagulazione) e ai risultati radiologici tramite Tac durante il ricovero per Covid-19 e abbiamo osservato che i pazienti con bassi livelli plasmatici di vitamina D, indipendentemente dall'età, mostravano una significativa compromissione di tali valori, vale a dire risposte infiammatorie alterate e un maggiore coinvolgimento polmonare. Anche se gli effetti in vivo della Vitamina D non sono completamente compresi – si legge nello studio – una serie di osservazioni sottolineano il ruolo della vitamina D nello sviluppo delle malattie polmonari. La sua insufficienza è stata collegata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all’esacerbazione delle malattie polmonari ostruttive croniche e dell’asma. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a un più alto rischio di essere positivi al Covid-19 rispetto ai soggetti con sufficiente stato di vitamina D.
Da un punto di vista generale, l'attività della vitamina D sembra essenziale anche nella regolazione dello stress ossidativo e dei meccanismi di sopravvivenza. L'epitelio alveolare respiratorio rappresenta la prima linea di difesa in grado di contrastare e impedire l'ingresso di agenti patogeni. Rappresenta uno dei principali attori dell'immunità innata compresi i macrofagi alveolari e le cellule dendritiche. Se stimolate, queste cellule attivano una varietà di vie di segnalazione intracellulare per specifiche difese antimicrobiche, rilascio di mediatori infiammatori e risposte immunitarie adattative. La risposta immunitaria adattativa è strettamente correlata alla capacità dei linfociti T e B di secernere citochine e produrre rispettivamente immunoglobuline. La carenza di vitamina D è stata correlata all'aumento dei livelli di IL-6, mentre l'integrazione di vitamina D riduce i livelli di IL-6 in diversi studi. L'IL-6 è elevata nei pazienti Covid-19 con malattia grave ed è anche considerata un marcatore prognostico rilevante. È stato riportato altresì che la mortalità è maggiore nei pazienti con livelli elevati di IL-6. Una conta dei neutrofili elevata predice l'infiammazione in corso e la diminuzione della conta dei linfociti è considerata un indicatore di prognosi infausta. Nel caso di infezione acuta, lo stato più grave è spesso associato a un aumento della conta delle cellule dei neutrofili e a una riduzione dei linfociti.
Colpo di scena della Regione Piemonte che introduce l’utilizzo della tanto discussa vitamina D nella lotta al coronavirus. Un trattamento alla portata di tutti. Nessun effetto collaterale, solo benefici per le persone positive al Covid. Una strategia anche in considerazione dell’attuale emergenza sanitaria con l’obiettivo di trattare la patologia fin dall’esordio ed evitare così eventuali complicanze. Una correlazione, quella tra Covid e vitamina D che torna ancora una volta alla ribalta, oggi a differenza di qualche mese fa, con 300 lavori all’attivo che ne dimostrano efficacia e benefici sia nella prevenzione sia nel trattamento.Hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata. Da qui il suggerimento di intervenire con la somministrazione della vitamina D, soprattutto nella popolazione anziana, che in Italia ne è in larga misura carente. Insomma, sullo stile di quanto fatto in precedenza dal premier inglese Boris Johnson. Una serie di evidenze scientifiche non trascurabili che portano a una raccomandazione da parte degli scienziati, soprattutto dove, in Paesi come in Italia, c'è un'alta prevalenza di ipovitaminosi D o carenza di vitamina D, i governi dovrebbero promuovere campagne di salute pubblica per aumentare il consumo di alimenti ricchi di vitamina D oltre a un'adeguata esposizione alla luce solare o, quando ciò non è possibile, la corretta integrazione. Lungo questa linea, la British Dietetic Association e il governo scozzese hanno pubblicato alcune raccomandazioni per garantire, soprattutto in un periodo critico come quello che tutti stiamo vivendo, livelli normali di vitamina D nella popolazione. Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono a nostro giudizio interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana, che in Italia è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.).
Un improvviso cambio di rotta da cui sta prendendo piede anche uno studio importante. Come spiega l’Accademia di Medicina nel suo documento, in un’indagine osservazionale (Jain A et al.) di 6 settimane su 154 pazienti, la prevalenza di soggetti con scarsa vitamina D è risultata pari al 31,86% negli asintomatici e al 96,82% in quelli che sono stati poi ricoverati in terapia intensiva. In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione fra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente alla dose di 50mila UI al mese, oppure di 80mila-100mila UI per 2-3 mesi, oppure ancora di 80mila UI al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente minori (p=0.004) rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). Dato poi confermato da altri lavori in termini di maggiore velocità di clearance virale e guarigione per coloro che hanno livelli ematici più elevati di vitamina D. E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo. Così l’assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi, annuncia l’aggiornamento appena effettuato del protocollo per la presa in carico dei pazienti Covid a domicilio da parte delle Unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta:
Diamo nuovi strumenti ai medici di famiglia e alle Unità speciali di continuità assistenziali (USCA) per combattere il Covid19 direttamente a casa dei pazienti. Con l’aggiornamento del protocollo delle cure domiciliari, introduciamo l’utilizzo dell’idrossiclorochina nella fase precoce della malattia, insieme a farmaci antinfiammatori non steroidei e vitamina D. In più, prevediamo la possibilità di attivare 'ambulatori USCA' per gli accertamenti diagnostici altrimenti non eseguibili o difficilmente eseguibili al domicilio, ottimizzando le risorse professionali e materiali disponibili. Siamo convinti, perché lo abbiamo riscontrato sul campo fin dalla prima ondata - osserva Icardi - che in molti casi il virus si possa combattere molto efficacemente curando i pazienti a casa. Non vuol dire limitarsi a prescrivere paracetamolo per telefono e restare in vigile attesa, ma prendere in carico i pazienti Covid a domicilio da parte delle unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta. Siamo stati tra i primi, l’anno scorso, a siglare un protocollo condiviso con ASL, prefetture e organizzazioni di categoria dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta. L’obiettivo è evitare che i ricoveri, così come le degenze prolungate oltre l’effettiva necessità clinica, delle persone che possono essere curate a domicilio, determinino una consistente occupazione di posti letto e l’impossibilità di erogare assistenza a chi versa in condizioni più gravi e con altre patologie di maggiore complessità.
Con l’intento di fornire contributo e supporto alle istituzioni per contrastare la pandemia, un altro lavoro scientifico, sull’utilizzo della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del Covid-19 si era fatto strada nel mare magnum di indagini che sono state condotte negli ultimi mesi. Il gruppo di lavoro, istituito dall’Accademia di Medicina di Torino coordinato dal suo Presidente, Giancarlo Isaia, professore di Geriatria e da Antonio D’Avolio, professore di Farmacologia all’Università di Torino, e composto da 61 Medici di molte città italiane. Un documento che mostra le più recenti e convincenti evidenze scientifiche sugli effetti positivi della vitamina D nel contrasto all’infezione da SARS-CoV2. Nella ricerca di fattori che influenzano l'incidenza e la letalità dell'attuale pandemia, recenti studi di associazione hanno esplorato il possibile ruolo della carenza di vitamina D. Nel complesso, questi studi, nella maggior parte dei casi basati su analisi trasversali, non potevano ancora fornire una dimostrazione convincente di una relazione causa-effetto. In questo editoriale, gli autori descrivono le prove scientifiche alla base di un possibile ruolo della vitamina D nella prevenzione e nello sviluppo della pandemia, considerando il suo ruolo immunomodulatore e gli effetti antivirali.
In un precedente numero di Aging Clinical and Experimental Research, Ilie e colleghi riportano una correlazione in 20 paesi europei tra i livelli di vitamina D e l'incidenza di Covid-19 e i tassi di mortalità. Questo lavoro si aggiunge a un crescente corpo di prove circostanziali che collegano Covid-19 e lo stato della vitamina D, come ben riassunto da Fiona Mitchell in un recente editoriale. Gli studi di associazione rientrano in due categorie principali: confronto della variazione dei livelli di vitamina D stimati o storici e dell'incidenza o dei tassi di mortalità del Covid-19 tra i paesi. L'analisi, inoltre, può essere mondiale o all'interno di continenti o anche tra emisferi, considerando la latitudine e lo stato stagionale associato come indicatori indiretti dello stato della vitamina D; studi caso-controllo retrospettivi che confrontano i livelli individuali di vitamina D (effettivi o stimati) con l'incidenza di Covid-19, sia per la popolazione generale che per minoranze specifiche. In questo lavoro, D'Avolio e colleghi hanno trovato un livello di 25 (OH) D notevolmente inferiore nei pazienti Covid-19 rispetto ad altri pazienti ospedalizzati a Bellinzona, in Svizzera. Altro lavoro interessante, quello condotto da Meltzer e colleghi che hanno stimato la probabilità di carenza di vitamina D sulla base di misurazioni 25 (OH) D precedenti (fino a 1 anno) per 499 pazienti testati per Covid-19 e hanno scoperto che coloro che erano positivi aveva una probabilità significativamente maggiore di carenza vitaminica. L’indagine mirava a valutare, in questo caso, se una maggiore incidenza di Covid-19 nelle minoranze non bianche nel Regno Unito potesse essere associata a carenza di vitamina D. Inoltre, una metanalisi che ha coinvolto 25 studi interventistici randomizzati e più di 11.000 pazienti hanno dimostrato che l'integrazione di vitamina D riduce di 2/3 l'incidenza di infezioni respiratorie acute.
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo.
Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi.
Tuttavia, esistono anche prove precliniche di un effetto protettivo della vitamina D sul danno polmonare. Esistono, quindi, prove consolidate sul ruolo immunomodulatore della vitamina D, sulle sue proprietà antivirali e su un possibile ruolo nella mitigazione della polmonite e dell'iperinfiammazione. Varie recensioni ha esaminato la relazione tra vitamina D e sistema immunitario, evidenziando un ruolo protettivo per molte malattie infettive, alla base dell'associazione tra ipovitaminosi D e molte infezioni del tratto respiratorio, enterico e urinario, vaginosi, sepsi, sindrome influenzale, dengue ed epatite. Queste proprietà della vitamina D sono state attribuite alla sua capacità di modulare l'espressione genica attivando il recettore della vitamina D in molte cellule bersaglio, comprese le cellule immunitarie, e promuovendo l'espressione di peptidi antimicrobici come catelicidine e beta-defensine, anch'esse dotate di antivirali e attività immunomodulatorie. Inoltre, la vitamina D supporta l'immunità innata, mantiene l'integrità delle giunzioni strette e della barriera polmonare, fornisce attività immunoregolatrice e modula il sistema renina-angiotensina, tutti fattori di potenziale rilevanza per la polmonite acuta e l'iperinfiammazione osservati in pazienti con Covid-19.
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Prima il lockdown poi lo smart working. Dal Covid alla bilancia: tutte le cattive abitudini che hanno fatto ingrassare gli italiani. Tra le conseguenze di questa pandemia proprio il cambio dello stile di vita. Le limitazioni imposte, in ultimo, con il coprifuoco, il lavoro all’interno delle mura domestiche, la sporadica attività fisica e la maggiore tendenza a dedicarsi alla cucina. È quanto emerge da una analisi di Coldiretti su dati Crea, il centro di ricerca alimenti e nutrizione. Computer, divano e tavola hanno, infatti, allontanato dall’attività motoria e dallo sport il 53% degli italiani. La situazione peggiora poi per le persone obese soprattutto per quelle alle prese con il cosiddetto smart working e in cassa integrazione, che nel 54% dei casi ha registrato un aumento medio di peso di ben 4 Kg, secondo i dati riportati da una ricerca della Fondazione Adi dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica. Insomma, soprattutto in questa fascia della popolazione, il lavoro agile ha favorito l’adozione di comportamenti poco salutari. Da non dimenticare poi che questo fenomeno si verifica in un Paese dove peraltro più di un terzo della popolazione italiana adulta è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%) con il 45,1%. Il rischio obesità non risparmia neanche bambini e adolescenti duramente provati dal lockdown. In Italia si stimano – conclude la Coldiretti – circa 2 milioni e 130 mila bambini e adolescenti in eccesso di peso, pari al 25,2% della popolazione di 3-17 anni secondo l’Istat.
Le vere causa dell'obesità
Dal 1980 ad oggi l’obesità nel mondo è più che raddoppiata. Questa la rivelazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Gli adulti in sovrappeso raggiungono il 39% e gli obesi sono il 13%. Secondo le più recenti stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, 2017) il 65,1% della popolazione adulta degli Stati Uniti ha un problema di eccesso di peso e tra questi, quasi la metà è obesa. L’epidemia dell’obesità si è diffusa negli ultimi decenni anche in Europa. A peggiorare un quadro già drammatico gli ultimi mesi della pandemia. Dal lockdown al coprifuoco, passando per mesi di smart working e quasi totale assenza di attività motoria. Un fattore che ha senza dubbio peggiorato la situazione delle persone obese o in sovrappeso, costrette a casa tra lavoro e Dpcm.
L’obesità è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come «l’epidemia del XXI secolo». Inoltre, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come «un’epidemia estesa a tutta la regione europea» poiché circa la metà della popolazione adulta è in sovrappeso ed il 20-30 % degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso. Rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo, sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena) con progressiva aterosclerosi, aumentato rischio di eventi cardio/cerebrovascolari e tumori. Sovrappeso e obesità sono responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive tra gli adulti; sono condizioni associate a morte prematura e ormai universalmente riconosciute come fattori di rischio per le principali malattie croniche. L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi) con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie nei depositi di tessuto adiposo. E’ causata nella maggior parte dei casi da stili di vita scorretti: da una parte, un’alimentazione non equilibrata e ipercalorica e dall’altra un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica. L’obesità è quindi una condizione ampiamente prevenibile. Un’emergenza socio-sanitaria quella dell’obesità che sia l’OMS che l’European Association for the Study of Obesity ha ripetutamente evidenziato. Inoltre, non dimentichiamo che questa malattia, «potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di 10 anni» sostiene Andrea Lenzi, presidente Health City Institute e del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Via della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Obesità e ipertensione arteriosa
Sovrappeso e obesità affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minor reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette e si accompagna dunque alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso. Un problema particolarmente grave è quello dell’insorgenza dell’obesità tra bambini e adolescenti, esposti fin dall’età infantile a difficoltà respiratorie, problemi articolari, mobilità ridotta, ma anche disturbi dell'apparato digerente e di carattere psicologico. Inoltre, chi è obeso in età infantile lo è spesso anche da adulto: aumenta quindi il rischio di sviluppare precocemente fattori di rischio di natura cardiovascolare (ipertensione, malattie coronariche, tendenza all’infarto) e condizioni di alterato metabolismo, come il diabete di tipo 2 o l’ipercolesterolemia - evidenzia Andrea Urbani Ministero della Salute, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria.
Una corretta strategia di prevenzione del sovrappeso e dell’obesità rientra nell’ambito più generale della prevenzione e controllo delle patologie croniche nel loro complesso. E’ importante perseguire un approccio di promozione della salute e di sensibilizzazione dei soggetti con incremento ponderale sui vantaggi collegati all’adozione di stili di vita sani, in una visione che abbracci l’intero corso della vita. Inoltre, il rapporto dell’Italian Diabetes & Obesity Barometer evidenzia tra gli altri, due aspetti su cui porre particolare attenzione. In primo luogo, la persistente ed elevata prevalenza di obesità e sovrappeso tra i bambini la cui salute rischia di essere seriamente compromessa dall’aumento dei fattori di rischio. Su questo aspetto l’Italia si colloca tra i paesi europei con la più elevata prevalenza. La raccomandazione, a livello nazionale, è quella di seguire stili alimentari adeguati, riducendo il consumo di alimenti ricchi di zuccheri e promuovendo un maggiore consumo di frutta e verdura, oltre a sensibilizzare le industrie alimentari verso la produzione di alimenti più sani ed equilibrati. In secondo luogo, il rapporto documenta ampiamente come la prevalenza di obesità sia fortemente associata a condizioni di svantaggio socioeconomico. I dati relativi alle diseguaglianze sociali nell’alimentazione e nell’attività fisica concorrono a indicare che la maggior parte delle abitudini insalubri sono inversamente correlate con il livello di istruzione e la classe sociale.
(Fonte: Il Sole 24Ore)
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il numero di persone obese nel mondo è raddoppiato a partire dal 1980: nel 2014 oltre 1,9 miliardi di adulti erano in sovrappeso, tra cui oltre 600 milioni obesi. Nella Regione Europea dell’Oms, nel 2013, oltre il 50% della popolazione adulta era in sovrappeso e oltre il 20% obesa. Dalle ultime stime fornite dai Paesi Ue emerge che il sovrappeso e l’obesità affliggono, rispettivamente, il 30-70% e il 10-30% degli adulti. Si ritiene che l’obesità sia responsabile del 10-13% dei decessi. Ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile della perdita di 12 milioni di Dalys (anni di vita in salute persi per disabilità o morte prematura). In Italia, secondo il rapporto Osservasalute 2016 (che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana”) emerge che, nel 2015, più di 1/3 della popolazione adulta (35,3%) era in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%); complessivamente, il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni risultava in eccesso ponderale. Le differenze sul territorio confermano un gap Nord-Sud in cui le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone maggiorenni obese (Molise 14,1%, Abruzzo 12,7% e Puglia 12,3%) e in sovrappeso (Basilicata 39,9%, Campania 39,3% e Sicilia 38,7%) rispetto a quelle settentrionali (obese: PA di Bolzano 7,8% e Lombardia 8,7%; sovrappeso: PA di Trento 27,1% e Valle d’Aosta 30,4%). La percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età e, in particolare, il sovrappeso passa dal 14% della fascia di età 18-24 anni al 46% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità passa, dal 2,3% al 15,3% per le stesse fasce di età. Inoltre, la condizione di eccesso ponderale è più diffusa tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44% vs 27,3%; obesità: 10,8% vs 9%).
Nel 2017 in Italia, sono circa 15 milioni le persone di 18 anni e più che praticano nel tempo libero uno o più attività sportive (29,7% della popolazione di riferimento, di cui il 20,2% con continuità e il 9.5% saltuariamente). Circa il 29% della popolazione (14,8 milioni persone), pur non praticando uno sport, svolge un’attività fisica (come fare passeggiate di almeno due km, nuotare, andare in bicicletta o altro). I sedentari, ovvero coloro che non praticano alcuno sport e nemmeno attività fisica nel tempo libero, sono oltre 20 milioni e 400 mila, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più. Rispetto al 2001 la pratica sportiva è in aumento sia per gli uomini (da 32,1% a 36%) sia per le donne (da 18,8% a 23,9%) e, seppure in maniera differenziata, in tutte le classi di età. Il fenomeno appare ancor più critico se si considera la quota di popolazione adulta che, come suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, svolge almeno 150 minuti a settimana di attività fisica moderata o intensiva, ovvero i livelli considerati adeguati nella popolazione adulta per mantenersi in buona salute. Nel nostro Paese solo il 18,3% della popolazione adulta pratica attività fisica. «La sua diffusione “epidemica” favorisce l’incremento della prevalenza di svariate note patologie come diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemie che contribuiscono alla rilevante mortalità per patologie cardio e cerebrovascolari, prima causa di morte nella popolazione italiana» spiega Giuseppe Malfi, presidente Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (A.D.I.). L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico e spesa energetica con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto adiposo. L’obesità è una patologia eterogenea e multifattoriale, al cui sviluppo concorrono sia fattori ambientali che genetici (geni che si sono evoluti in ere di scarsità di cibo). A livello mondiale, l’OMS stima che circa il 58% del diabete mellito, il 21% della malattie coronariche e quote comprese tra l’8% ed il 42% di certi tipi di cancro sono attribuibili all’obesità. A queste vanno aggiunte, la sindrome delle apnee notturne (che aumenta il rischio di morte improvvisa per aritmia), artrosi, calcolosi della colecisti, infertilità e depressione. Per queste ragioni l’obesità contribuisce in modo molto significativo allo sviluppo delle malattie non trasmissibili (NCDs) che causano nel nostro paese il 92% di morti e più dell’85% di anni persi per disabilità. Si tenga presente che un obeso grave riduce la propria aspettativa di vita di circa 10 anni ma ne passa ben venti in condizioni di disabilità. E se oggi metà della popolazione è in sovrappeso o obesa, le proiezioni dell’OMS per il 2030 danno un quasi raddoppio della prevalenza di obesità che sommata al sovrappeso costituirà circa il 70% della popolazione.
Insomma, la continua crescita della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità è causa di serie preoccupazioni in tutte le regioni del mondo, e il fenomeno si configura sempre più come pandemia globale. In base alle stime dell’OMS, nel 2017 il sovrappeso e l’obesità sono stati responsabili di 4,72 milioni di decessi e di 148 milioni di anni vissuti con disabilità. Fra le cause di morte, l’eccesso ponderale è passato dal 16° posto nel 1990 al 7° posto nel 2007, fino a raggiungere il 4° posto nel 2017, preceduto soltanto da ipertensione, fumo e iperglicemia. Si stima che nel mondo ci siano oggi 2.1 miliardi di persone in sovrappeso o obese, circa il 30% della popolazione mondiale. Se l’andamento in crescita del fenomeno resterà immodificato, nel 2030 circa la metà delle persone nel mondo avrà un eccesso ponderale, con drammatici risvolti clinici, sociali ed economici. Stando ai dati riportati in un rapporto Istat, è pari al 44,9% la popolazione di 18 anni (o più) in eccesso di peso (34,1% in sovrappeso, 10,8% obeso). Il 64,7% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno: il 51,7% beve vino, il 47,8% consuma birra e il 43,2% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori. Inoltre, 20.400.000mila persone, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più, dichiarano di non praticare sport né attività fisica nel tempo libero. Elevate le differenze di genere: è sedentaria la metà delle donne contro un terzo degli uomini. Giusto per completare il quadro, in un Paese con una legge anti-fumo e con pubblicità sui pacchetti di sigarette che dovrebbero indurre a smettere o a non cominciare, nel 2016 il 19,8% della popolazione di 14 anni e più dichiara di essere fumatore (circa 10.400.000mila persone), il 22,6% di aver fumato in passato e il 56,1% di non aver mai fumato. Quindi ancora vincono gli stimoli per cattivi stili di vita. La diffusione dell’obesità tra bambini e ragazzi è un fenomeno che si sta diffondendo e sta caratterizzando non soltanto l’Italia e i Paesi europei, ma anche tutti i Paesi del resto del mondo, ad una velocità diversa a seconda del Paese e seguendo differenti modelli di sviluppo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, attualmente, più di 30 milioni di bambini in eccesso di peso. In Italia, si stima siano circa 1.700.000mila i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso pari al 24,2% della popolazione di 6-17 anni (media 2016-2017)4. Rispetto al biennio 2010-2011 si osserva una lieve tendenza alla diminuzione del fenomeno, sebbene le differenze non risultino statisticamente significative. Emergono forti differenze di genere: il fenomeno è più diffuso tra i maschi (27,3% vs 20,8% femmine). Tali differenze non sussistono tra i bambini di 6-10 anni, mentre si osservano in tutte le altre classi di età. L’eccesso di peso raggiunge la prevalenza più elevata tra i bambini di 6-10 anni, dove raggiunge il 32,9%. Al crescere dell’età, il sovrappeso e l’obesità vanno tuttavia diminuendo, fino a raggiungere il valore minimo tra i ragazzi di 14-17 anni.
Obesity Monitor "1st Italian Obesity Barometer Report"
La Repubblica "Obesità in crescita in Italia. 23 milioni in sovrappeso: uno su 4 ha meno di 17 anni"
AGI "Lockdown e smart working hanno fatto ingrassare gli italiani: il 44% è in sovrappeso"
Corriere della Sera "Adolescenti obesi (e dipendenti)"
La Repubblica "Obesità in Italia: riguarda il 36% della popolazione tra i 5 e i 19 anni"
Obesity Review "Individuals with obesity and COVID‐19: A global perspective on the epidemiology and biological relationships"
La Repubblica "L’obesità raddoppia il rischio di ricovero per Covid 19"
JAMA Network "Large Meta-analysis Digs Into Obesity’s COVID-19 Risks"
Fanpage "L’obesità può aggravare l’infezione da coronavirus nei giovani"
La Stampa "Scatta l’allarme obesità: è la regina di ogni malattia eppure la sottovalutiamo"
Agi " Gli obesi sono più a rischio Coronavirus "
OK Benessere e Salute " Obesità: in Italia un morto ogni 10 minuti. Serve una svolta "
OK Benessere e Salute " Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono" "Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono "
Società Italiana Obesità (SIO)
Società Italiana di chirurgia dell'Obesità e delle Malattia Metaboliche (SICOB.)
Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)
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Dal sovrappeso all'obesità: Vitamina D, nemica dei chili di troppo
Estremamente contagioso e non risparmia nessuno. Parliamo di Covid, il virus che da mesi sta mettendo a rischio la nostra salute.Come tutti sappiamo ormai, i soggetti più esposti sono sicuramente le categorie più deboli: anziani e malati. Ma non sono solo loro ad essere alla mercé di un nemico invisibile. Infatti, oltre alle persone avanti con gli anni o affette da diverse patologie croniche ci sono tutti gli altri. Bambini, adolescenti e adulti. Tra i fattori che incidono maggiormente sulla probabilità di contrarre questo virus c'è sicuramente l'obesità . Uno studio pubblicato su Jama, ha dimostrato che le persone obese hanno un rischio più che doppio di ospedalizzazione per Covid 19 rispetto ai normopeso e un 50% di probabilità in più di complicanze. L'indagine, condotta da Barry Popkin, nutrizionista ed esperto di obesità dell'università del North Carolina a Chapel Hill ha analizzato 75 studi internazionali sul tema, per indagare i dati disponibili sul rapporto tra obesità e Covid 19. I risultati della loro analisi hanno poi fugato ogni dubbio precedente: un obeso avrebbe il 46% di probabilità in più di contrarre la malattia, il 113% in più (un rischio più che doppio quindi) di essere ricoverato in caso di contagio, il 74% in più di finire in terapia intensiva, e il 48% in più di morire a causa di Covid 19 .
Il 46% della popolazione italiana tra sovrappeso e obesità. La prevalenza, inoltre, aumenta al crescere dell’età, ed è maggiore nel genere maschile: la prevalenza massima riguarda la fascia d’età dei 65-74enni, con un 68,2% di soprappeso e obesi tra gli uomini e un 54,9% tra le donne. Inoltre, nel nostro Paese è obeso l’11% della popolazione. È quanto riportato dall’ultimo Italian Obesity Barometer Report, realizzato dall’Italian Barometer Diabetes Observatory foundation in collaborazione con l’Istat. «Nella gestione di questa epidemia la questione dell’obesità è stata per lo più ignorata e dobbiamo ricordare che nel mondo abbiamo più di due miliardi di persone obese e in sovrappeso, che presto saliranno a due miliardi e mezzo» ricorda su Jama Popkin. «L’obesità è uno dei grandi problemi che affronta oggi la sanità, e sapevamo che l’obesità avrebbe avuto una relazione importante con Covid – continua - eppure il tema è stato ignorato dai decisori politici e molti ricercatori, con un’attenzione molto maggiore riservata al diabete, all’ipertensione e disturbi cardiovascolari come problemi per chi contrae Covid».
La prevalenza di individui con sovrappeso o obesità è ai massimi storici e sta aumentando in tutto il mondo. Questo è vero non solo nei paesi a reddito più elevato, ma anche nei paesi a reddito medio e basso con alti livelli di malnutrizione che portano al doppio fardello della malnutrizione. Pochi paesi a basso e medio reddito hanno una prevalenza di individui con sovrappeso o obesità inferiore al 20% tra la popolazione adulta. Questa prevalenza non è in calo in nessun paese. Nei paesi a reddito più elevato, la prevalenza di individui con sovrappeso/obesità era già elevata negli anni '90 e ha continuato ad aumentare. Infatti, porzioni più ampie delle loro popolazioni sono diventate individui con obesità patologica con indici di massa corporea (BMI) superiori a 35-40 kg m −2. L'obesità è intrinsecamente una malattia metabolica caratterizzata da alterazioni del metabolismo sistemico, tra cui resistenza all'insulina, aumento del glucosio sierico, adipochine alterate (ad esempio l'aumento della leptina e diminuzione dell'adiponectina) e infiammazione cronica di basso grado. Una forte evidenza dimostra come la disregolazione degli ormoni e dei nutrienti negli individui con obesità possa compromettere la risposta alle infezioni. L'iperglicemia, un segno distintivo chiave del T2D, è altamente associata agli individui con obesità. È importante sottolineare che è stato dimostrato che il glucosio sierico non controllato aumenta significativamente la mortalità per COVID-19. Durante i periodi di infezione, il glucosio sierico incontrollato può compromettere la funzione delle cellule immunitarie direttamente o indirettamente tramite la generazione di ossidanti e prodotti di glicazione. Allo stesso modo, sia la segnalazione dell'insulina che della leptina sono fondamentali nella risposta dell'effettore infiammatorio dei linfociti T in quanto regolando la glicolisi cellulare, supportando la produzione di citochine effettrici. Questi fattori metabolici si combinano per influenzare il metabolismo delle cellule immunitarie, che determina la risposta funzionale ai patogeni, come SARS ‐ CoV ‐ 2. Inoltre, le persone obese hanno effetti modulatori su popolazioni di cellule immunitarie chiave critiche nella risposta a SARS ‐ CoV ‐ 2. In particolare, un aumento dell'IMC è associato a una maggiore frequenza dei sottoinsiemi di cellule T CD4 antinfiammatorie Th2 e cellule T regolatorie.
«I dati di letteratura disponibili confermano senz’altro l’aumentato rischio di ricoveri e decessi negli obesi», spiega Paolo Sbraccia, professore di Medicina Interna e direttore dell’Unità di medicina interna – centro medico dell’obesità dell’Università Tor Vergata di Roma. «I motivi sono molti: il tessuto adiposo, come le cellule dei polmoni, esprime la famosa proteina Ace 2 a cui si lega il virus, e queste proteine possono facilmente staccarsi e raggiungere i polmoni, facilitando l’invasione di Sars-Cov-2. L’organismo degli obesi presenta poi uno stato di infiammazione cronica che facilita l’insorgenza della tempesta di citochine, tra le complicazioni più gravi di questa malattia. L’obesità in sé, inoltre, crea problemi di respirazione e complica le procedure di ventilazione messe in pratica nelle terapie intensive, rendendo così più probabile un quadro clinco più grave. Ci sono meno certezze invece sulla possibilità che l’obesità renda anche più alto il rischio di infezione da Sars-Cov-2, anche se esistono indizi di un’alterazione del funzionamento del sistema immunitario legato all’obesità che potrebbero spiegare questa evenienza. E purtroppo, presagirebbero anche una minore efficacia dei vaccini nelle persone obese». Anche il consumo alimentare di acidi grassi può influenzare le risposte infiammatorie. Le prostaglandine, i derivati degli acidi grassi a catena lunga, sono pirogeni di fase acuta che danno inizio alla risposta infiammatoria locale durante l'infezione.
La pericolosità del virus per le persone in sovrappeso, d’altronde, è emerso chiaramente in zone come gli Stati Uniti, dove la prevalenza dell’obesità è notevolmente più alta di quella del nostro paese: «A New York – sottolinea Sbarca – si è vista da subito un’alta letalità del virus nelle comunità più disagiate, in cui l’obesità è un problema più comune. Da noi nella prima ondata la letalità dell’epidemia è risultata più alta nelle persone molto anziane, ma anche questo sta cambiando». «Dati certi non sono ancora disponibili – continua Sbraccia – ma parlando con i colleghi che si occupano delle terapie intensive sembra che l’età media dei ricoverati sia scesa di almeno 10 anni, e in moltissimi casi questi pazienti, che hanno ormai un’età media che si aggira attorno ai 70 anni, soffrono di obesità».
Riduce di dieci anni l’aspettativa di vita. Considerata una malattia vera e propria, l’obesità e altri disordini metabolici sono diventati le epidemie sanitarie del XXI secolo. Si legge nel primo punto del position paper, il documento redatto da un’équipe di esperti guidati dal professor Michele Carruba, direttore del Centro di Studio e Ricerca sull’Obesità dell’Università Statale di Milano in collaborazione con la Società Italiana Obesità (SIO), la Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità (SICOB), l’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI) e l’Associazione Amici Obesi Onlus. Tra gli aspetti meritevoli di nota, il documento evidenzia anche l’educazione alimentare e l’attività fisica. Il nostro Paese registra decine di migliaia di morti causate da questa patologia o dalle sue conseguenze. In Italia, ogni anno muoiono 57.000 persone per malattie legate all’obesità. Questi drammatici numeri corrispondo a una media di circa 1.000 morti a settimana o, ancora peggio, una persona ogni 10 minuti. Con un incremento del 10% negli ultimi 5 anni. Il quadro non migliora nel resto del mondo, dove ci sono più di un miliardo di adulti in soprappeso e di questi, 300 milioni sono considerati obesi. Colpiti anche i più piccini: sono ben 22 milioni i bambini sotto i 5 anni in sovrappeso.
Le vere cause dell'obesità
Definita “malattia” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità già dagli anni Sessanta. Una patologia epidemica che in casi potrebbe essere mortale e si caratterizza con l’aumento significativo della massa grassa e, successivamente, si manifesta sul piano organico con serie conseguenze in ogni organo e apparato. L'eccesso di peso e in particolare il grasso intra-addominale, è associato ad una serie di fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, tra cui: ipertensione, diabete di tipo 2, cancro, malattie renali e malattie epatiche. Il primo segnale di questa patologia è la circonferenza vita: dovrebbe essere inferiore agli 88 cm per le donne e a 102 cm per gli uomini. Il secondo, le numerose malattie correlate: l’88% dei casi di diabete è legato all’obesità, come il 55% dei casi di ipertensione, il 35% dei casi di cardiopatia ischemica e il 35% dei tumori. Inoltre, il fattore determinante è lo stile di vita condotto dai soggetti. Quindi, dall’alimentazione sana ed equilibrata all’attività fisica frequente. E aumentare il movimento, riducendo così la vita sedentaria, riduce il rischio di mortalità di circa tre volte.
Da non sottovalutare, inoltre, le conseguenze psicologiche: dal 20 al 40% di persone affette da obesità soffre di un disturbo del comportamento alimentare. La maggior parte poi convivono con episodi di ansia e depressione legati allo svolgimento della attività di routine. Tra i fattori di rischio, notevole aumento dei casi di cancro di cui, mezzo milione l’anno sono riconducibili all’indice di massa corporea (BMI): i chili di troppo sarebbero implicati nello sviluppo di varie tipologie di tumore tra cui all’esofago, colon-retto, pancreas, cistifellea, seno, endometrio e ovaie. Il grasso in eccesso, soprattutto quello addominale, produce sostanze che provocano infiammazioni dei vasi sanguigni che portano alle più gravi patologie cardiache. Dall’ipertensione al colesterolo. Tra gli altri pericoli del sovrappeso anche ictus e malattie cardiache. Altra correlazione è quella con l’asma allergico. La probabilità di svilupparla raddoppia in caso di obesità. Nel caso specifico, i tessuti adiposi producono mediatori che influenzano l’infiammazione e ostruiscono le vie respiratorie.
Tra i soggetti a rischio, anche i diabetici. Infatti, quasi il 90% di chi soffre di diabete di tipo 2 è in sovrappeso. Lo zucchero, nei soggetti insulino-resistente, non riesce a raggiungere le cellule e rimane in eccesso nel sangue. Da non trascurare poi, la maggiore pressione su articolazioni e cartilagini che, sottoposte a uno sforzo superiore, sono più soggette all’usura. E ancora un aumento del 25% delle probabilità di incorrere in depressione, lo dimostra uno studio della Rush University Medical Center di Chicago. Così anche per le donne incinte in sovrappeso e ai rischi connessi agli interventi chirurgici oltre che a tutte le procedure operatorie. Da non dimenticare poi la steatosi epatica, causata dall’eccessivo accumulo di grasso nel fegato e, il fegato grasso, è tipico delle persone con chili in eccesso. Ricordiamo che, nella peggiore delle ipotesi, la statosi potrebbe degenerare in cirrosi danneggiando irreparabilmente il fegato. Tra gli altri fastidi correlati all’obesità anche le apnee notturne dovuti al grasso in eccesso intorno al collo che ostacola la respirazione. In ultimo, ma non meno importante, secondo quanto scoperto da un team di ricercatori dell’Università di Cambridge, pubblicata sulla rivista scientifica The Journal of Neurobiology of Aging: il cervello delle persone in soprappeso ha le stesse caratteristiche di quello di un altro soggetto più anziano di dieci anni.
A complicare un quadro già crititico di suo, lo scenario attuale causato dell'epidemia in corso. Il 75% dei pazienti positivi al Covid-19 in terapia intensiva è in sovrappeso. Secondo alcuni ricercatori inglesi del Public Health England, contrarre il Coronavirus in condizioni di obesità aumenterebbe il rischio di complicanze. Difatti, le persone in sovrappeso sarebbero maggiormente esposte per via del maggiore numero di adipociti presenti nel loro corpo, con la funzione di “serbatoio virale” per la malattia. In sostanza, il peso eccessivo potrebbe determinare difficoltà respiratorie e alterare la risposta immunitaria e peggiorare irrimediabilemente la il quadro clinico.
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«La vitamina C per via endovenosa è un antivirale sicuro, efficace e ad ampio spettro» è la rivelazione di Richard Z. Cheng, MD, PhD, medico specialista cinese-americano. Dopo Shanghai e New York, è la volta di Palermo. Anche in Italia si parte con la sperimentazione di alte dosi di vitamina C somministrate per endovena ai soggetti positivi al coronavirus. Lo studio, sarà condotto nell’Ospedale Nazionale di Rilevanza Arnas Civico, di Cristina Benfratelli, nel palermitano. Nell’indagine saranno inclusi tutti i pazienti ricoverati con esito positivo al tampone e polmonite interstiziale o sottoposti a intubazione. Saranno successivamente raccolte, sui soggetti, una serie di informazioni tra cui informazioni personali e anamnestiche, risultati clinici e di laboratorio come genere, età, etnia, comorbidità, droghe, azoto ureico nel sangue, creatinina, elettroliti, conta delle cellule del sangue, clearance dei lattati, PCR, PCT, Punteggio SOFA, funzionalità epatica, coagulazione, analisi dei gas nel sangue, pressione arteriosa sistolica e diastolica, Sp02, glicemia, indice di massa corporea (BMI). Sarà poi registrata per ciascuno anche la durata della degenza. Previa autorizzazione, ai soggetti verranno poi somministrati 10 gr di vitamina C in 250 ml di soluzione salina con una frequenza di 60 gocce al minuto.
COVID-19 e Vitamina C: Anche Palermo si muove
Dieci giorni fa, gli ospedali di New York, iniziavano a curare i malati di Covid-19 con alti dosaggi di vitamina C. La notizia si diffonde in fretta, il primo a pubblicarla il New York Post in un articolo: «Nel più grande sistema ospedaliero dello stato di New York, i pazienti gravemente malati di coronavirus, ricevono dosi massicce di vitamina C». Andrew G. Weber, pneumologo e specialista in terapia intensiva del Northwell Health a Long Island, un’intervista al NYP, spiega che per curare il virus e limitarne le complicanze stava somministrando, ai pazienti, in terapia intensiva, affetti da coronavirus, 1.500 milligrammi di vitamina C tre o quattro volte al giorno. Tuttavia, l’uso dell’acido ascorbico contro le polmoniti e le infezioni polmonari è una pratica nota dagli anni '30. Infatti, già nel 1936 Gander e Niederberger, due medici tedeschi scoprirono che la vitamina C aveva la capacità di abbassare la febbre e riduceva il dolore nei pazienti affetti da polmonite (Gander and Niederberger "Vitamin C in the handling of pneumonia" Munch. Med. Wchnschr., 31: 2074, 1936). Sempre lo stesso anno, un altro esperto tedesco otteneva risultati positivi con la somministrazione di 500 milligrammi di vitamina C, ogni novanta minuti, ai pazienti affetti da polmonite (Hochwald A. Beobachtungen "Ascorbinsaurewirkung bei der krupposen Pneumonie" Wien. Arch. F. Inn. Med. , 353, 1936). Era il '44 quando due medici americani, Slotkin & Fletcher, curarono con l’acido ascorbico un paziente che aveva sviluppato una grave infezione polmonare a seguito di un intervento (Slotkin & Fletcher, "Acido ascorbico in complicanze polmonari a seguito di chirurgia prostatica” Jour. Urol. , 52: 6 novembre 1944). Due anni dopo, la vitamina C veniva usata abitualmente dai chirurghi del Millard Fillmore Hospital, a Buffalo, come profilassi contro la polmonite. Inoltre, i medici militari curavano le polmoniti dei soldati con l’acido ascorbico iniettato per endovena.
Dal trattamento clinico per i contagiati alla misura di prevenzione per contrastare il virus, Ken Walker Gifford-Jones lancia il suo j'accuse contro la mancanza di intervento dei governi degli Stati colpiti dall'emergenza e dei rispettivi sistemi sanitari: «L'efficacia della vitamina C, nel ridurre la mortalità dovuta all'infezioni virali, è ampiamente stata dimostrata, non somministrarla ai pazienti affetti da COVID-19 è uguale all'omicidio». A sostegno della sua tesi, Lendon H. Smith autore della Clinical Guide to the Use of Vitamin C che riprende la ricerca del Dr. Frederick R. Klenner, pioniere nell'utilizzo della vitamina C e nella sua applicazione, con successo, a varie malattie virali e batteriche. Diverse ricerche hanno dimostrato, infatti, che l’acido ascorbico (vitamina C) influenza positivamente lo sviluppo e la maturazione dei linfociti T, in particolare le cellule NK (Natural Killer) coinvolte nella risposta immunitaria agli agenti virali. Contribuisce, inoltre, all’inibizione della produzione di ROS e alla rimodulazione della rete di citochine tipiche della sindrome infiammatoria sistemica. I recenti studi, poi, hanno anche dimostrato e confermato l’efficacia della somministrazione di vitamina C in termini di riduzione della mortalità, ai pazienti con sepsi ricoverati nei reparti di terapia intensiva, di scomparsa dei sintomi e di modifica dello stato del tampone. In considerazione dell’attuale emergenza SARS-CoV-2, è stato predisposto questo studio sui pazienti ospedalizzati con polmonite Covid-19.
Dopo la sua comparsa in Cina, il coronavirus, si è diffuso nel resto del mondo, trasformandosi, in pochi mesi, in una pandemia, tramutando in un lazzaretto, Paese dopo l’altro. Di pari passo alla diffusione di questo nuovo virus si registra anche un aumento del numero di polmoniti identificate con il termine “polmonite infettata da coronavirus” (2019-nCoV) (NCIP), caratterizzata da febbre, astenia, tosse secca, linfopenia, prolungata tempo di protrombina, elevata deidrogenasi lattica e imaging tomografico indicativo di polmonite interstiziale (vetro smerigliato e ombre irregolari). La decisione di adottare l’uso della vitamina C per via endovenosa, in aggiunta alla terapia convenzionale, deriva dall’evidenza sperimentale delle sue proprietà anti-infiammatorie e antiossidanti. La vitamina C, infatti, provoca una maggiore proliferazione di assassini naturali senza comprometterne la funzionalità. Inoltre, la vitamina C riduce la produzione di ROS (specie reattive dell’ossigeno) che contribuiscono all’attivazione dell’infiammosomi e, in particolare, della NLRP3 che influenza la maturazione e la secrezione di citochine come IL1beta e IL-18 che sono coinvolte nella sindrome sistemica infiammatoria che ha caratterizzato la sepsi. La vitamina C blocca l’espressione di ICAM-1 e l’attivazione di NFKappaB. Ed è proprio per questo motivo che l’uso dell’acido ascorbico potrebbe essere efficace in termini di riduzione della mortalità e di risultati positivi sulle eventuali complicanze.
«Il dosaggio della Vitamina C somministrato negli ospedali di New York è troppo basso» spiega Richard Z. Cheng, MD, PhD, leader internazionale del team di supporto medico epidemico della vitamina C in Cina. Sulla smentita di FB Fact Check, in merito alla raccomandazione ufficiale da parte del governo di Shanghai di somministrare la vitamina C ad alte dosi per il trattamento del coronavirus, chiarisce Cheng: «Non solo Shanghai, ma anche Guangzhou, nella provincia del Guangdong, un’altra grande città della Cina, ha approvato ufficialmente IVC ad alte dosi per il trattamento di Covid-19». Il dottor Cheng ritiene necessario un intervento immediato oltre a un trattamento efficace e sicuro per salvare vite umane e limitare la diffusione del virus e, quindi, di conseguenza il contagio.
«La sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) – scrive Cheng in un articolo pubblicato su Science Direct - è un fattore chiave di mortalità. Lo stress ossidativo significativamente aumentato dovuto al rapido rilascio di radicali liberi e citochine è il segno distintivo di ARDS che porta a lesioni cellulari, insufficienza d’organo e morte». «L’uso precoce di antiossidanti ad alte dosi – prosegue l’articolo -, come la vitamina C (VC), può diventare un trattamento efficace per questi pazienti. Gli studi clinici dimostrano anche che il VC orale ad alte dosi fornisce una certa protezione contro l’infezione virale». «Né la somministrazione endovenosa né orale di VC ad alte dosi è associata a significativi effetti collaterali. Pertanto, questo regime deve essere incluso nel trattamento di COVID-19 e utilizzato come misura preventiva per le popolazioni sensibili come gli operatori sanitari con rischi di esposizione più elevati» conclude Cheng.
Using vitamin C as a treatment
Il coronavirus e l’influenza sono tra i virus pandemici che possono causare lesioni polmonari letali e morte per ARDS. Le infezioni virali potrebbero evocare una ‘tempesta di citochine’ che porta all’attivazione delle cellule endoteliali dei capillari polmonari, all’infiltrazione dei neutrofili e all’aumento dello stress ossidativo (specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto). L’ARDS, caratteristica dell’ipossiemia grave, è generalmente accompagnata da infiammazione incontrollata, lesioni ossidative e danni alla barriera alveolare-capillare. L’aumento dello stress ossidativo è un grave insulto nella lesione polmonare, inclusa la lesione polmonare acuta (ALI) e l’ARDS, due manifestazioni cliniche di insufficienza respiratoria acuta con morbilità e mortalità sostanzialmente elevate.
U.S. National Library of Medicine "Use of Ascorbic Acid in Patients With COVID 19"
Treatment for severe acute respiratory distress syndrome from COVID-19
Science Direct - Medicine in Drug Discovery "Can early and high intravenous dose of vitamin C prevent and treat coronavirus disease 2019 (COVID-19)?"
Gander and Niederberger "Vitamin C in the handling of pneumonia" Munch. Med. Wchnschr., 31: 2074, 1936
Hochwald A. Beobachtungen "Ascorbinsaurewirkung bei der krupposen Pneumonie" Wien. Arch. F. Inn. Med. , 353, 1936
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COVID-19, la verità da Oriente: Vitamine C e D nella prevenzione delle malattie polmonari
Duro j'accuse di Gifford-Jones: "Il coronavirus e le vite che potevano essere salvate"
La carenza di vitamina D è tra i principali fattori di rischio per l'infezione causata dal SARS-CoV-2, il nuovo coronavirus scoppiato in Cina. Sul possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D per contrastare il COVID-19, arriva la ricerca dell’Università degli Studi di Torino. Giancarlo Isaia (docente di Geriatria e Presidente dell'Accademia di Medicina di Torino) e Enzo Medico (ordinario di Istologia), nel loro studio, richiamano l’attenzione su un aspetto di prevenzione: l’ipovitaminosi D. «Sulla base di numerose evidenze scientifiche e di considerazioni epidemiologiche, sembra che il raggiungimento di adeguati livelli plasmatici di Vitamina D sia necessario anzitutto per prevenire le numerose patologie croniche che possono ridurre l’aspettativa di vita nelle persone anziane, ma anche per determinare una maggiore resistenza all’infezione COVID-19 che, sebbene con minore evidenza scientifica, può essere considerata verosimile. Tale compenso può essere raggiunto anzitutto con l’adeguata esposizione alla luce solare, poi alimentandosi con cibi ricchi in Vitamina D».
Lo studio di Isaia e Medico nasce proprio dai dati raccolti negli ultimi giorni a Torino tra i pazienti ricoverati per Coronavirus. E il denominatore comune tra i soggetti positivi al virus era proprio la carenza di vitamina D. «Questa raccomandazione - spiegano i due ricercatori - è utile per la popolazione generale, ma è particolarmente pregnante per i soggetti già contagiati, i loro congiunti, il personale sanitario, gli anziani fragili, gli ospiti delle residenze assistenziali, le donne in gravidanza, le persone in regime di clausura e tutti coloro che per vari motivi non si espongono adeguatamente alla luce solare. Inoltre, potrebbe essere considerata la somministrazione in acuto del calcitriolo per via endovenosa in pazienti affetti da COVID-19 con funzionalità respiratoria particolarmente compromessa»
Dott. Paolo Giordo - Le verità nascoste sulla vitamina D
Cibo, sole e corretta integrazione. Gli esperti spiegano poi le due modalità di assunzione di questa importante vitamina che può essere sintetizzata dalla cute, per effetto delle radiazioni ultraviolette emanate dalla luce solare oppure tramite gli alimenti. A tal proposito, nell’indagine dell’Università degli Studi di Torino, viene proposta anche una “top ten” degli alimenti in cui è maggiormente presente (vedi figura). Quindi, mangiare molto pesce e prendere tanto sole. Così, la lotta al Covid-19 si combatte tra il terrazzo e la cucina. L’esposizione alla luce solare e un sano stile alimentare, ricco soprattutto di cibi che contengono vitamina D, diventano i nostri principali alleati in questa grande battaglia. Per sommi capi, i due professori suggeriscono, al sistema sanitario, di garantire adeguati livelli di vitamina D sia per le persone già contagiate, sia per il resto della popolazione. In primis, ovviamente, ai soggetti in terapia intensiva e a tutte quelle persone che sono maggiormente a rischio (pazienti oncologici o con altre patologie pregresse, anziani e personale sanitario).
Dott. Luca Avoledo - Vitamina D: perché è così importante? In quali alimenti si trova?
L'Italia, è uno dei Paesi europei, insieme a Spagna e Grecia, con maggiore prevalenza di ipovitaminosi D. E nel Nord Europa poi, la prevalenza è minore per l’antica abitudine di addizionare cibi di largo consumo con vitamina D. Nella nostro Paese, è stato dimostrato che il 76% delle donne anziane presentano carenza di vitamina D. Da non trascurare poi che la maggioranza delle persone in terapia intensiva sono soprattutto anziani e sono proprio questi (ma non solo) a rischiare le complicanze maggiori. Tra i rischi annoverati nel report: «Le concentrazioni ridotte di 25(OH)D aumentano il rischio di osteoporosi e delle cadute dell’anziano, ma si associano anche a tumori, malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni, infezioni croniche dell’apparato respiratorio, diabete mellito, malattie neurologiche e ipertensione. Queste patologie causano maggiore mortalità, soprattutto se questi pazienti si ammalano di COVID-19»
Intervista a Cristiana Stellato - Effetti della vitamina D sul sistema respiratorio
Inoltre, «la ridotta incidenza di Covid-19 nei bambini - sottolineano gli esperti - potrebbe essere attribuita alla minore prevalenza di ipovitaminosi D conseguente alle campagne di prevenzione del rachitismo attivate in tutto il mondo dalla fine dell’Ottocento». Per cui, concludono i docenti: «L'insorgenza di un focolaio in Piemonte in un convento di suore di clausura, popolazione a più elevato rischio di ipovitaminosi D, costituisce un altro elemento suggestivo sul possibile ruolo protettivo della vitamina D sulle infezioni virali". Mentre la distribuzione geografica della pandemia "sembra potersi individuare maggiormente nei Paesi situati al di sopra del tropico del cancro, con relativa salvaguardia di quelli subtropicali».
Prof. Diego Peroni (Pediatria Università di Ferrara) - Ruolo della vitamina D sul sistema immunitario
In ultima analisi, ma non meno importante, l'aspetto della prevenzione contro il coronavirus. Nello specifico, la vitamina D fornirebbe un valido aiuto per ridurre l’incidenza di infezioni delle vie respiratorie e dei casi di influenza. Ad avvalorare la testi, le ricerche precedenti che dimostrano un ruolo attivo della Vitamina D sulla modulazione del sistema immune, la stretta correlazione dell’Ipovitaminosi D con una lunga serie di patologie croniche che possono ridurre l’aspettativa di vita, ancor più in caso di infezione; un effetto della Vitamina D nella riduzione del rischio di infezioni respiratorie di origine virale, incluse quelle da coronavirus, oltre alla sua capacità di limitare il danno polmonare da iperinfiammazione. Ecco, alcune delle motivazioni scientifiche a supporto:
1) Concentrazioni ridotte di 25(OH)D aumentano il rischio di osteoporosi e delle cadute dell’anziano, ma si associano anche a tumori, malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni, infezioni croniche dell’apparato respiratorio, diabete mellito, malattie neurologiche e ipertensione. Queste patologie causano maggiore mortalità, soprattutto se questi pazienti si ammalano di COVID-19.
2) Ruolo immunomodulatore della Vitamina D e anche un suo effetto antagonista sulla replicazione virale nelle vie respiratorie.
3) Nel 2014, una review “Vitamin D: a new anti-infective agent?”, esamina le interazioni fra la Vitamina D, il sistema immunitario e le patologie infettive, sottolineando l’associazione tra l’ipovitaminosi D e le infezioni respiratorie ed enteriche, l’otite media, le infezioni da Clostridium, le vaginosi, le infezioni del tratto urinario, la sepsi, l’influenza, la dengue, l’epatite da attribuire alla capacità della vitamina D di incrementare peptidi antimicrobici (catelicidina e beta-defensine) dotati di attività antivirale e immunomodulatoria.
4) Uno studio condotto in Sud Corea ha evidenziato valori ridotti di 25(OH)D (14 ±8 ng/ml) in pazienti con polmonite acuta acquisita in comunità.
5) In pazienti con malattie infiammatorie intestinali è stato evidenziato che, in presenza di livelli di 25(OH)D < a 20 ng/ml, la somministrazione di vitamina D3 (500 U/die) riduce di due terzi l’incidenza di infezioni delle alte vie respiratorie.
6) Una concentrazione di 25(OH)D superiore a 38 ng/ml si associa al dimezzamento del rischio di infezioni respiratorie acute.
7) Una metanalisi del 2017 ha considerato 25 studi randomizzati, evidenziando che la supplementazione di Vitamina D riduce di due terzi l’incidenza di infezioni respiratorie acute nei soggetti con livelli di 25(OH)D inferiori a 16 ng/ml
8) Il Calcitriolo si è dimostrato efficace nei ratti nel ridurre il danno polmonare acuto indotto nei ratti da lipopolisaccaridi attraverso un effetto sul sistema renina-angiotensina
9) Particolarmente attuale ed importante, “Vitamin D Supplementation Could Prevent and Treat Influenza, Coronavirus, and Pneumonia Infections” nel quale viene sottolineato un possibile ruolo della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento anche della malattia da coronavirus. Vi si legge che la Vitamina D riduce il rischio di infezioni respiratorie attraverso tre meccanismi:
➢ Mantenimento delle tight junctions, e della barriera polmonare:➢ Incremento dell’espressione di peptidi antimicrobici quali la catelicidina e beta-defensine: Da notare che questi peptidi sono dotati di attività antivirale:➢ Stimolo dell’attività immunoregolatoria, potenzialmente rilevante rispetto al rischio di tempesta citochinica e di polmonite, osservata in pazienti con COVID-19:
Dott. Piergiorgio Pietta - Difese Immunitarie: l'importanza dei fermenti lattici e della vitamina D
«Una buona difesa, quindi utile anche contro il coronavirus, si ha assumendo vitamina C e D e in generale prendendo tutto ciò ciò che combatte i processi ossidanti che mandano in crisi il sistema immunitario [...] bisogna difendersi, ma in maniera ordinata» sostiene Luc Montagnier, premio Nobel per la medicina nel 2008, in un'esclusiva realizzata da Pandora Tv. Ricordiamo che il sistema immunitario è una sorta di barriera protettiva dagli agenti esterni. Un'interessante spiegazione viene presentata nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti. «Il nostro corpo è attaccato continuamente dall’esterno da virus, batteri, funghi e solo la nostra pelle riesce a difenderci efficacemente. Tali microrganismi patologici cercano in ogni modo di entrare nel nostro organismo, utilizzando le ferite o le abrasioni, oppure tramite la bocca o il naso. Un altro terreno di scontro all’interno del nostro corpo è l’intestino, dove colonie di batteri patogeni, presenti nel colon, si scontrano con le nostre difese immunitarie. Il nostro corpo è difeso da un esercito definito sistema immunitario, perché composto da gruppi differenziati di globuli bianchi, ognuno dei quali pronto ad assolvere specifici compiti».
The Lancet "Vitamin D supplementation and musculoskeletal health"
La Stampa "Sole e pesce alleati contro il rischio contagio da coronavirus"
La Repubblica "Coronavirus, studio dell'Università di Torino: assumere più vitamina D per ridurre il rischio di contagio"
Adnkronos "Coronavirus, l'ipotesi: carenza vitamina D può aumentare rischi"
Fanpage "Coronavirus, carenza di Vitamina D possibile fattore di rischio: lo studio italiano"
Leggo "Coronavirus, carenza di vitamina D aumenta il rischio? Lo studio italiano"
Corriere della Sera "Coronavirus: perché serve la Vitamina D"
Io Donna "Coronavirus: perché serve la Vitamina D"
Panorama "Combattere il Coronavirus a tavola: ecco la giusta alimentazione"
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