Pronti a dire addio al mal di testa? Una dieta ricca di pesce grasso può ridurre l'intensità e la frequenza dell'emicrania. È la scoperta dei ricercatori del National Institute on Aging (NIA), del National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism (NIAAA) e dell'Università della Carolina del Nord (UNC). Lo studio, pubblicato su "The BMJ", è stato condotto su 182 partecipanti predisposti al mal di testa, ha ampliato il precedente lavoro del team sull'impatto dell'acido linoleico (un acido grasso polinsaturo) sull'algia cronica. Indagini precedenti avevano valutato il possibile ruolo dell'acido linoleico nell'infiammazione dei tessuti e delle vie di elaborazione del dolore correlato all'emicrania del nervo trigemino ed erano giunti alla conclusione che una dieta povera di acido linoleico e ricca di acidi grassi omega 3 potrebbe lenire questa flogosi. Per 16 settimane i partecipanti all’indagine sono stati assegnati casualmente a uno dei tre piani di dieta. Tutti hanno ricevuto un pasto che includeva pesce, verdure, insalate e prodotti per la colazione. Al primo gruppo sono stati assegnati cibi con ampie porzioni di pesce grasso, mentre l'acido linoleico era ridotto. Il secondo gruppo ha avuto alimenti con abbondanti porzioni sia di pesce grasso che di acido linoleico. Al terzo gruppo, infine, sono toccati pasti con quantitativi abbondanti di acido linoleico e porzioni ridotte di pesce grasso. Durante la sperimentazione i ricercatori hanno monitorato il numero di giorni, la durata e l'intensità dell'emicrania oltre all'eventuale incidenza del mal di testa sulle capacità lavorative e sociali e alla necessità di assumere antidolorifici.
Oltre 4 milioni di persone in tutto il mondo soffrono di emicrania. Tra le cause più frequenti di dolore cronico, i suoi effetti si ripercuotono negativamente sul lavoro e sulla vita quotidiana. Le donne di età compresa tra 18 e 44 anni sono maggiormente inclini a questa patologia e si stima che il 18% di tutte le donne americane ne sia colpita. L'emicrania è una malattia neurologica, tra le cause più comuni di dolore cronico, perdita di tempo lavorativo e qualità della vita ridotta. Lo studio ha mostra che i soggetti avevano una media di più di 16 giorni di cefalea al mese, oltre cinque ore di emicrania al giorno e punteggi di base che mostravano un grave impatto sulla qualità della vita e 122 partecipanti (67%) avevano emicrania cronica e 102 (56%) soddisfacevano i criteri per l'abuso acuto di farmaci. La dieta a basso contenuto di olio vegetale e con maggiori quantità di pesce grasso ha ridotto del 30-40% le ore di mal di testa totale al giorno e di giorni complessivi di cefalea al mese rispetto al gruppo di controllo. «Questa ricerca - ha affermato Luigi Ferrucci, direttore scientifico della NIA - ha fornito prove intriganti del fatto che i cambiamenti nella dieta hanno il potenziale di migliorare una condizione di dolore cronico molto debilitante come l'emicrania senza i relativi aspetti negativi dei farmaci». Ha aggiunto Chris Ramsden coordinatore dello studio: «Ecco un'ulteriore prova che i cibi che mangiamo possono influenzare i percorsi del dolore». Gli scienziati sperano di continuare a espandere questo lavoro per studiare gli effetti del regime alimentare su altre condizioni di algia cronica. Il team NIH è stato guidato da Chris Ramsden, un ricercatore nei programmi di ricerca intramurale NIA e NIAAA e membro della facoltà dell'UNC. Ramsden e il suo team sono specializzati nello studio dei lipidi, composti di acidi grassi presenti in molti oli naturali, e del loro ruolo nell'invecchiamento, in particolare nel dolore cronico e nelle condizioni neurodegenerative. Il team UNC è stato guidato da Doug Mann, MD, del Dipartimento di Neurologia, e Kim Faurot, Ph.D., del Program on Integrative Medicine.
Questo studio su 182 adulti con frequenti emicranie ha ampliato il lavoro precedente del team sull'impatto dell'acido linoleico e del dolore cronico. L'acido linoleico è un acido grasso polinsaturo comunemente derivato nella dieta americana da mais, soia e altri oli simili, nonché da alcune noci e semi. I precedenti studi più piccoli del team hanno esplorato se l'acido linoleico infiammasse i tessuti e le vie di elaborazione del dolore correlato all'emicrania nel nervo trigemino, il più grande e complesso dei 12 nervi cranici del corpo. Hanno scoperto che una dieta più povera di acido linoleico e più alta nei livelli di acidi grassi omega 3 (come quelli che si trovano nel pesce e nei crostacei) potrebbe ridurre il rischio di insorgenza di fastidiosi mal di testa. I ricercatori hanno notato che questi risultati servono come convalida del fatto che gli interventi basati sulla dieta che aumentano i grassi omega 3 riducendo le fonti di acido linoleico mostrano una migliore promessa per aiutare le persone con emicrania a ridurre il numero e l'impatto dei giorni di cefalea, riducendo al contempo il bisogno di farmaci per il dolore.
OMEGA 3, ecco perchè è importante integrarli per la nostra salute
Gli acidi grassi n-3 e n-6 sono i principali componenti dei tessuti implicati nella patogenesi dell'emicrania dove fungono da precursori per diverse famiglie di mediatori lipidici bioattivi che regolano il dolore (come ad esempio prostaglandine, leucotrieni, resolvine, maresine). Questi mediatori lipidici sono noti collettivamente come ossilipine. Poiché gli esseri umani non possono sintetizzare gli acidi grassi n-3 e n-6, i livelli di questi acidi grassi e dei loro derivati dell'ossilipina possono essere alterati dalla dieta. Dallo studio emerge che diverse famiglie di recettori dell'ossilipina sono arricchite nelle terminazioni nervose trigeminali e nelle vie centrali di elaborazione del dolore, dove regolano la sensibilizzazione e il rilascio del neuropeptide correlato al gene della calcitonina correlato alla cefalea; ciò implica un legame diretto tra acidi grassi n-3 e n-6 e patogenesi della cefalea. Diverse ossilipine derivate da acidi grassi n-6 hanno proprietà pronocicettive (promotori del dolore). In pratica, l'infusione di prostaglandine derivate dall'acido arachidonico n-6 suscitano nelle persone attacchi di tipo emicranico. I derivati dell'ossilipina dell'acido linoleico n-6 sensibilizzano le terminazioni del nervo trigemino ed evocano risposte al dolore comportamentale in modelli preclinici. Al contrario, diverse ossilipine derivate dall'acido eicosapentaenoico n-3 (EPA) e dall'acido docosaesaenoico (DHA) hanno potenti proprietà antinocicettive (riducenti il dolore). In particolare, l'acido 17-idrossidocosaesaeonico (17-HDHA) è il precursore della via per diverse famiglie di ossilipine segnalate per avere potenti effetti antinocicettivi in modelli sperimentali ed è stato collegato a punteggi del dolore più bassi nei pazienti con artrite.
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Per approfondimenti:
Il Giornale "Così il pesce grasso nella dieta aiuta l'emicrania"
NHI "Consuming a diet with more fish fats, less vegetable oils can reduce migraine headaches"
The BMJ "Dietary alteration of n-3 and n-6 fatty acids for headache reduction in adults with migraine: randomized controlled trial"
AGI "Pesce azzurro in tavola due volte a settimana riduce i rischi cardiaci"
Ansa "Meno rischio cardiaco con 2 porzioni di pesce a settimana"
URV "A study identifies the mechanism by which eating fish reduces the risk of cardiovascular disease"
Corriere Nazionale "Chi mangia regolarmente pesce azzurro ha un rischio significativamente inferiore di sviluppare il diabete di tipo 2 rispetto a chi prende integratori"
Notizie Scientifiche "Omega-3 del pesce riduce rischio di malattie cardiovascolari modulando lipoproteine"
Ragusa News "Omega-3: perché inserirli nella dieta"
Journal of the American Heart Association (JAHA) "Habitual Fish Consumption, n‐3 Fatty Acids, and Nuclear Magnetic Resonance Lipoprotein Subfractions in Women"
Il Fatto Alimentare "Omega 3: guida al consumo degli acidi grassi essenziali molto presenti nel pesce azzurro e nel salmone e pochissimo nei filetti di sogliola"
Il Giornale "Gli integratori omega 3 salvano cuore, mente e portafogli"
Prima Lodi "Che cosa sono gli Omega 3 e a cosa servono"
Prima Milano Ovest "I benefici degli Omega 3, fra pesce, frutta e verdura"
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Demonizzati da decenni, i grassi, soprattutto quelli “saturi” (i grassi cattivi), sono considerati erroneamente come i principali responsabili di tante patologie e causa del colesterolo. Tuttavia, è arrivato il momento di sfatare questo luogo comune perché i grassi non fanno male, anzi sono utili soprattutto agli sportivi. «I grassi non fanno male», chiarisce in un'intervista a Gazzetta Active la dottoressa Claudia Delpiano, dietista e biologa nutrizionista presso l’IRCCS Policlinico San Donato e il Policlinico San Pietro. Al via quindi con gli effetti benefici dei lipidi, in particolare per chi pratica sport di resistenza. In particolare l’olio extravergine di oliva (fonte di acidi grassi monoinsaturi, è uno dei condimenti più indicati per chi soffre di colesterolo alto), il pesce azzurro (come l'alice, l'aringa, la ricciola, la sardina e lo sgombro, ricco di grassi buoni, ovvero gli omega3, contiene anche selenio, calcio, iodio, fosforo, potassio, selenio, fluoro, zinco e vitamine A e B), le noci, le nocciole, le mandorle (povere di carboidrati e ricche di proteine, fibre e, appunto, grassi buoni, sono potenti antiossidanti), i semi di lino (fonte preziosa di energia per l’organismo nei periodi di stress) e il cioccolato fondente (fonte di ferro, magnesio, rame e manganese, aiuta a mantenere la mente attiva e migliora le abilità cognitive ed è utile per contrastare il colesterolo cattivo e scacciare stress e cattivo umore) sono ottime fonti di grassi monoinsaturi e polinsaturi, i cosiddetti “grassi buoni”. Questi poi rappresentano anche un fattore protettivo rispetto all’ipercolesterolemia.
Fonte di energia per l’organismo, migliorano l’assorbimento delle sostanze nutritive. Conosciuti anche come lipidi, forniscono al nostro organismo l’energia necessaria per il suo sostentamento e un quantitativo di gran lunga maggiore rispetto a quella prodotta dai carboidrati e dalle proteine. Utilizzati, dunque, per lo svolgimento di funzioni organiche essenziali per il nostro benessere. «Per comprendere l’importanza dei grassi per l’organismo è fondamentale capire l’uso che ne fa il nostro corpo – precisa Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti -. Per molti di noi il grasso è visto come un substrato energetico (utilizzato per creare energia) e niente più, invece le sue funzioni sono essenziali anche per altri motivi. Distinguiamo intanto i tre differenti tipi di grassi che il nostro corpo assimila con l’alimentazione o produce in base alle proprie esigenze: trigliceridi, fosfolipidi e colesterolo». Tra i grassi più importanti indubbiamente omega 3 e 6. «Questi acidi grassi – spiega la nutrizionista - sono molto importanti perché il nostro organismo non è in grado di sintetizzarli endogenicamente e quindi li deve assumere attraverso la dieta». Difatti, questi grassi, sono un concentrato di benefici anche per gli sportivi. «I grassi sono una fonte di energia nelle prestazioni di resistenza, che si tratti di corsa, ciclismo o triathlon. Per lo sportivo l’apporto di grassi dovrebbe essere intorno al 30% dell’apporto energetico totale. La restrizione di grassi va limitata al pre-gara, in cui troppi lipidi potrebbero rallentare la digestione».
Non solo non fanno male, ma sono deputati al benessere dell’organismo e allo svolgimento di numerose funzioni essenziali.
Proprio ultimamente c’è stata, da parte della comunità scientifica, una rivalutazione degli acidi grassi polinsaturi, i cosiddetti grassi buoni. Ma non bisogna abolire nemmeno i grassi saturi, quelli considerati cattivi. È vero, sono legati allo sviluppo di patologie cardiache e diabete, ma svolgono anche diverse funzioni utili per l’organismo. Prendiamo il burro: l’acido butirrico in esso contenuto è necessario per la salute metabolica della mucosa del colon perché va a nutrire i colonociti. Una noce di burro al giorno, meglio se crudo chiarificato, fa solo bene, soprattutto se si ha una vita attiva. Svolgono il ruolo di deposito energetico e hanno una funzione strutturale, perché vanno a costruire la membrana delle cellule, che è fatta proprio di lipidi e proteine. Vanno a costituire i nervi, il cuore, il fegato e i reni, e sono quindi fondamentali anche per lo sviluppo del sistema nervoso. Per questo motivo, per esempio, ai bambini bisognerebbe dare sempre latte intero, e non scremato. Lo stesso latte materno è molto lipidico. Trasportano anche le vitamine liposolubili come la A, la D, la E e la K, e ne permettono l’assorbimento. E la vitamina D, per esempio, è molto importante per gli sportivi, in particolare per runner e maratoneti, perché fondamentale per il metabolismo dell’osso. Nella corsa lo scheletro subisce molte sollecitazioni e microtraumi, da qui l’importanza della vitamina D.
Su questi costituenti essenziali, Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti fornisce un quadro dettagliato e completo per conoscere e comprendere il modus operandi di questi preziosi elementi e gli effetti positivi sulla nostra salute:
I grassi si distinguono in: saturi monoinsaturi e polinsaturi. Sono composti da una catena di atomi di carbonio (da 4 a 24) ed idrogeno, che in base alla lunghezza, al numero dei legami ed al posizionamento degli stessi, assumono strutture e caratteristiche differenti. Gli acidi grassi saturi hanno una consistenza solida anche a temperatura ambiente e si trovano principalmente negli animali (strutto), nei vegetali (palma e cacao) e nel latte. Gli acidi grassi monoinsaturi hanno un aspetto liquido e sono presenti nei vegetali come pistacchi, noci, mandorle ed avocado, ma vengono anche estratti dai semi come olive, arachidi, colza. Difatti li assumiamo sotto forma di oli. Gli acidi polinsaturi si dividono in due categorie, gli omega 3 e gli omega 6. Tali grassi sono anche definiti essenziali, in quanto il nostro corpo non è in grado di costruirli (a differenza degli altri grassi) e quindi vanno assunti con la dieta. Inoltre questi ultimi sono molto importanti perché il nostro corpo li utilizza solo a fini plastici (e non energetici). Gli acidi grassi saturi non hanno interruzioni, disponendosi longitudinalmente, dalla testa alla coda, dove si legano gli atomi di ossigeno (il gruppo ossidrile). Tale struttura permette l’allinearsi delle catene, conferendo al grasso, a temperatura ambiente, un aspetto solido. Inoltre più è lunga la catena e maggiore è la resistenza al calore (punto di fusione). Fanno parte di questa tipologia: i grassi caproico (6 atomi) e caprilico (8 atomi) presenti nel latte; il grasso miristico (14 atomi) presente negli oli, nei grassi vegetali, nel latte (11%), nel cocco e nella noce moscata; il grasso palmitico (16 atomi) che si trova nei grassi animali (strutto) e vegetali (palma 35-50% e cacao 25%); il grasso stearico (18 atomi) che si trova nello strutto al 10%, nel cacao al 35%, negli oli vegetali all’1,5%; i grassi arachico e beenico (22 atomi); il grasso lignocerico (24 atomi). Questi ultimi si trovano in piccole quantità nei grassi animali e vegetali. Gli acidi grassi monoinsaturi sono molecole che non hanno un aspetto lineare, bensì ricurvo, dovuto ad un doppio legame, ca pace di creare uno squilibrio elettrostatico. Ciò impedisce l’allineamento delle catene, rendendo il grasso liquido (solidifica solo con l’abbassamento della temperatura). Fanno parte di questa tipologia l’olio di oliva (che solidifica in frigorifero), l’olio d’arachide, l’olio di colza. È presente nei frutti come l’avocado, le mandorle, le noci, i pistacchi, gli anacardi ed in animali come le anatre e le oche. Esistono poi grassi polinsaturi che non hanno una catena lineare (fenomeno registrato anche in alcuni grassi monoinsaturi), bensì due doppi legami. Si dividono in due categorie, gli omega 3 e gli omega 6. Tale distinzione in omega, partendo dal fondo della catena, indica la posizione del primo doppio legame (omega 3 ad esempio indica la terza posizione; omega 6 la sesta posizione). Questi grassi polinsaturi sono anche definiti essenziali, in quanto il nostro corpo non è in grado di produrli (a differenza degli altri grassi) e quindi vanno assunti con la dieta. Inoltre questi ultimi sono utilizzati solo a fini plastici (e non energetici). Di conseguenza la loro carenza crea molti problemi (lo approfondiremo più avanti). Infine, esistono i grassi trans, una tipologia di grassi omega 6 o monoinsaturi, modificati da procedimenti chimici (con l’inserimento di atomi d’idrogeno) al fine di raggiugere la consistenza dei grassi saturi (la margarina ne è un esempio). Parleremo più avanti di quanto tali grassi, possano dimostrarsi dannosi per la nostra salute.
Il giornale "Grassi buoni, quali sono e in quali alimenti trovarli"
Marie Claire "I cibi grassi da evitare vs i grassi buoni, buonissimi, da riscoprire"
Science Direct "Peroxidation of n-3 and n-6 polyunsaturated fatty acids in the acidic tumor environment leads to ferroptosis-mediated anticancer effects"
UCLouvain "An Omega-3 that’s poison for tumours"
News Medical Life Science "Lo studio delucida come gli acidi grassi Omega-3 avvelenano le celle del tumore"
Medi Magazine "Un Omega-3 che è veleno per il cancro"
Il Giornale "I grassi buoni: acidi grassi Omega-3"
GEN "Mechanism Identified by Which Omega-3 Fatty Acid Is “Poison” to Tumors"
Medical Xpress "An omega-3 that's poison for tumors"
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Il buono e il cattivo. Demonizzato da quelli che non sanno che è in realtà, il colesterolo, è un grasso essenziale per la nostra vita. Infatti, al di là delle convinzioni comuni «Noi ogni giorno abbiamo bisogno di molto colesterolo per il turn over delle membrane cellulari, costituite proprio da colesterolo. Inoltre questo lipide serve per la formazione degli ormoni a noi necessari, come gli ormoni steroidei e gli ormoni sessuali, sia maschili sia femminili. In altre parole, non possiamo prescindere dal colesterolo» spiega in un’intervista a Gazzetta Active il professor Carmine Gazzaruso, responsabile del Servizio di Diabetologia, Endocrinologia, Malattie Metaboliche e Vascolari e del Centro di Ricerca Clinico (Ce.R.C.A.) dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano e docente di Endocrinologia all’Università degli Studi di Milano. In Europa, le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte, con una stima che si aggira intorno ai 4 milioni di decessi l’anno. In parte prodotto dall’intestino e in parte attraverso l’alimentazione. Presente nel sangue, il colesterolo è di fondamentale importanza per la salute dell’organismo e deputato allo svolgimento di diverse funzioni. Una molecola organica della famiglia degli steroli che favorisce la produzione di molti ormoni, contribuisce alla formazione delle membrane cellulari e al loro corretto funzionamento, favorisce la digestione e migliora la sintesi della vitamina D. Trasportato dal fegato ai tessuti attraverso le lipoproteine: HDL (colesterolo buono) e LDL (colesterolo cattivo). Quando questi ultimi superano i precedenti, si attaccano alle pareti delle arterie generando delle placche estremamente pericolose per la salute fino a impedire il passaggio del sangue e aumentare il rischio di patologie cardiovascolari.
Il COLESTEROLO ALTO è davvero pericoloso per la salute del cuore?
Ogni anno, in Italia, muoiono più 224.000 persone per malattie cardiovascolari: di queste, circa 47.000 sono imputabili al mancato controllo del colesterolo. Il colesterolo, infatti, rappresenta uno tra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. «Le malattie cardio e cerebrovascolari sono ancora oggi nel mondo la prima causa di morte e di disabilità. La pandemia Covid 19 ha peggiorato questa situazione, è ora di ripartire! Dobbiamo assolutamente agire contro i principali fattori di rischio cardiovascolari e tra questi sicuramente l’ipercolesterolemia è uno dei più importanti. Dobbiamo trattare al meglio i nostri pazienti, ridurre il colesterolo LDL a valori a target per i pazienti. Ora abbiano diverse opportunità per poterlo fare, fondamentale è instaurare un’alleanza tra specialisti, medici di famiglia e pazienti per raggiungere questo ambizioso obiettivo», dichiara all’Ansa Stefano Carugo, direttore UOC Cardiologia, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. Le principali cause sono sicuramente da ricercare nella dieta e nello stile di vita. Inoltre, anche la presenza di precise patologie e la predisposizione genetica possono influenzare in maniera significativa l’ipercolesterolemia. Oltre a stress, il fumo, l’assenza di attività fisica, l’uso continuato ed eccessivo di farmaci immunosoppressori, contraccettivi orali, steroidi anabolizzanti, cortisonici e altri ancora. La raccomandazione di tante società scientifiche, compresa l'American Heart Association, è quella di ridurre al minimo il consumo di grassi saturi, ma non tutti gli esperti sono d'accordo. Cardiologi e dietologi della University of South Florida hanno messo in discussione questo suggerimento poiché, secondo il loro studio, pubblicato sulla rivista Bmj Evidence-Based Medicine, non ci sono prove sufficienti che dimostrino che una riduzione del consumo di grassi saturi possa abbassare il colesterolo nel sangue e ridurre il rischio per le persone con ipercolesterolemia di sviluppare malattie cardiache. «Negli ultimi 80 anni, alle persone con ipercolesterolemia familiare è stato raccomandato di abbassare il colesterolo con una dieta a basso contenuto di grassi saturi» - chiarisce l'autore dello studio David Diamond - «Il nostro studio suggerisce che una dieta più salutare per il cuore è povera di zuccheri, e non di grassi saturi».
Secondo quanto mostrano i dati raccolti nel corso dell’indagine, i pazienti che sviluppano malattie coronariche presentano fattori di rischio associati all'insulinoresistenza (o sindrome metabolica), come obesità, livelli elevati di trigliceridi nel sangue, ipertensione e diabete, per cui l'indicazione è quella di seguire una dieta a basso contenuto di carboidrati e povera di zuccheri. Inoltre «Gli effetti deleteri dell’ipercolesterolemia sul sistema cardiovascolare diventano più gravi quando è accompagnata da trigliceridi elevati, che potrebbero essere ridotti da una dieta povera di carboidrati» spiega Giaccari. In pratica, non solo non ci sono prove degli effetti dei grassi sull’ipercolestemia, ma una dieta a basso contenuto di carboidrati (LCD) migliora significativamente i biomarcatori delle malattie cardiovascolari, rispetto a una dieta a basso contenuto di grassi. Banditi quindi, oltre ai carboidrati anche in particolare gli zuccheri semplici e gli amidi con elevato indice glicemico (pane, pasta, legumi). E ancora una meta-analisi del 1992 e portata avanti da un team di esperti dell’Università di Maastricht. Gli esperti in questione hanno preso in esame i dati di 27 studi scientifici, scoprendo che gli acidi grassi hanno, rispetto ai carboidrati, effetti maggiormente positivi sui livelli di colesterolo buono HDL. Nel 2014 un’indagine sviluppata da ricercatori britannici (Università di Warwick) e svedesi (Università di Linköping), pubblicata su Nutrition & Diabetes, ha evidenziato che la glicazione (fenomeno dovuto a un eccesso individuale di glucosio, fruttosio o alcol) contribuisce alla trasformazione del colesterolo buono (HDL) in colesterolo cattivo (LDL) determinando cioè un aumento del rischio cardiovascolare. Ulteriore conferma arriva da un lavoro recente (2021) effettuato su soggetti diabetici e pubblicato su Biomedicines ha evidenziato che la lesione endoteliale (quella cioè che contribuisce all'infarto o all'occlusione delle coronarie) dipende dalla glicazione delle lipoproteine. In sostanza, residui di fruttosio e glucosio vanno a inserirsi su alcune proteine determinandone il malfunzionamento e facilitando la formazione della placca arteriosa che porta poi all'ischemia o all'infarto.
COLESTEROLO: tra approfondimenti ed evidenze scientifiche
Insomma, è necessario fare attenzione all’eccesso di colesterolo, o meglio, a quello di un particolare tipo.
L’eccesso di colesterolo – spiega Gazzaruso - può provocare dei danni dovuti al fatto che questo grasso tende ad accumularsi all’interno delle pareti dei vasi, in particolare dei grossi vasi, i vasi arteriosi, determinando aterosclerosi, patologia che ostruisce gradualmente le arterie. Se questo si verifica non arriva più sangue a sufficienza agli organi irrorati proprio da queste arterie e si possono verificare le tre patologie principe di tipo aterosclerotico: l’infarto, l’ictus e la arteriopatia degli arti inferiori. - Se infarto e ictus sono piuttosto noti, è bene chiarire di che cosa si parla quando si parla di arteriopatia degli arti inferiori - Si tratta di una patologia purtroppo poco cercata, diagnosticata e curata che è frequente in particolare nei grandi fumatori, oltre che nelle persone con diabete. La prognosi di sopravvivenza è peggiore rispetto a quella dei più comuni tumori maligni. Quando si avvertono i sintomi, ovvero dolori al polpaccio camminando, si ha già l’angina a livello di arti inferiori e a quel punto spesso è troppo tardi. Di fatto è dunque una aterosclerosi a livello di gambe. Ricordiamo infatti che l’aterosclerosi non colpisce mai un solo distretto, bensì è presente in tutte le arterie. Poi, a seconda del soggetto, si può manifestare in uno, due o più distretti. E il responsabile principale è il colesterolo che si accumula nelle arterie.
Ma qual è la differenza sostanziale tra HDL e LDL?
Essendo un grasso – chiarisce l’esperto -, per circolare nel sangue il grasso deve essere integrato in sistemi solubili nel plasma che si chiamano lipoproteine. Ma esistono diversi tipi di lipoproteine. I più noti sono le LDL (o lipoproteine a bassa densità) e le HDL (o lipoproteine ad alta densità). Le LDL trasportano prevalentemente colesterolo, in una percentuale di circa il 40% del totale, oltre a trigliceridi e altri grassi. Lo trasportano dal fegato, dove viene prodotto, alle periferie del corpo, andando ad integrare il colesterolo in tutto l’organismo. Se le LDL sono in eccesso, il colesterolo che arriva in periferia è superiore alla quantità che serve fisiologicamente, e quindi, tende ad accumularsi nelle arterie, con i danni di cui abbiamo detto. È qui che intervengono le lipoproteine HDL. Anch’esse sono deputate al trasporto del colesterolo, ma in un percorso inverso rispetto alle LDL, dalla periferia al centro. Di conseguenza una carenza di HDL determina una maggiore presenza di colesterolo a livello delle arterie. - Proprio per questo motivo il valore relativo al colesterolo totale conta poco - Ad essere importanti sono i valori relativi all’LDL e all’HDL. Ricordando che se l’HDL sale, l’LDL si riduce, come spiega la formula di Friedwald. Maggiore è la quantità di LDL, minore è la quantità di HDL. Ed è proprio ai livelli di LDL che dobbiamo prestare attenzione.
LDL e HDL, tutto quello che dobbiamo sapere sul COLESTEROLO
Secondo quanto scrive Adriano Panzironi, nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti:
La comunicazione semplicistica operata dalla stampa e dalla classe medica, ha reso ingiustizia al concreto ruolo esercitato dal colesterolo nei confronti del nostro metabolismo. Sappiamo che esiste un colesterolo buono e uno cattivo, ma a cosa veramente servano, quasi nessuno ne è a conoscenza. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Il colesterolo è un grasso usato principalmente per la costruzione, la manutenzione ed il buon funzionamento del nostro corpo. Approfondiamo le funzioni del colesterolo. Innanzitutto è essenziale per la membrana delle nostre cellule, in quanto si inserisce tra i due strati di fosfolipidi, aumentando la stabilità meccanica e la flessibilità della membrana. Inoltre regola lo scambio di sostanze messaggere tra l’esterno e l’interno della cellula. Le cellule neuronali (del cervello) sono più ricche di colesterolo. 1) La cellula, grazie al colesterolo riesce a staccare pezzi di membrana, al fine di creare degli organuli interni. Inoltre solo per la presenza di questo particolare grasso, la cellula può dividersi e crescere. 2) Senza colesterolo il fegato non potrebbe produrre la bile e quindi emulsionare i grassi, rendendoli assorbibili nell’intestino tenue. 3) Il colesterolo è alla base di moltissimi ormoni tra cui il cortisolo, l’aldosterone, il Gh, il testosterone, etc. 4) Questo grasso è necessario alla produzione endogena (autoproduzione) di vitamina D, essenziale per il nostro metabolismo. Parlare di colesterolo buono o cattivo non ha senso (vista la sua importanza). Per la precisione si dovrebbe parlare di quantità eccessiva di colesterolo nel sangue. Difatti non esistono riserve di tale grasso (come invece accade per i trigliceridi), essendo prodotto esclusivamente dal fegato in caso di esigenza da parte del corpo o assunto ingerendo alimenti che lo contengono. Il colesterolo ed i grassi non si trovano nel sangue allo stato libero, ma all’interno di alcune molecole chiamate lipoproteine.
Dal COLESTEROLO "CATTIVO" ai TRIGLICERIDI, le vere cause dell'aumento
Dati scientifici alla mano, la riduzione dei carboidrati aiuta a controllare alcuni valori fondamentali per la salute cardiovascolare. Ovvero, nel caso specifico, si verifica aumento dei livelli di colesterolo HDL (lipoproteine ad alta densità), il cosiddetto colesterolo buono che diventa superiore di quello LDL. Questi livelli vengono influenzati da precisi schemi alimentari a basso contenuto di carboidrati e contraddistinti dalla presenza di numerose fonti di acidi grassi essenziali (come gli omega 3), nutrienti essenziali per tenere sotto controllo il colesterolo cattivo.
NCBI "Arginine-directed glycation and decreased HDL plasma concentration and functionality"
Ansa "Colesterolo perché si forma e come si può ridurre"
BMJ "Dietary Recommendations for Familial Hypercholesterolaemia: an Evidence-Free Zone"
Gazzetta Active "Colesterolo Ldl e Hdl: la differenza e i rischi di averlo alto"
PubMed "Effect of dietary fatty acids on serum lipids and lipoproteins. A meta-analysis of 27 trials"
Ansa "Ipercolesterolemia e rischio cardiovascolare: “La best practice della Regione Lombardia”"
NCBI "Endothelial Dysfunction in Diabetes Is Aggravated by Glycated Lipoproteins; Novel Molecular Therapies"
Eurosalus "Sale il colesterolo? Attenti a zuccheri e carboidrati"
DiLei "Dieta chetogenica: tieni a bada colesterolo e trigliceridi"
The Lancet "Associations of fats and carbohydrate intake with cardiovascular disease and mortality [...]"
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Tumori che si disintegrano in pochi giorni grazie all'azione dell’omega 3. È questa l'eccezionale scoperta dei ricercatori dell'Università di Lovanio (UCLouvain), pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Cell Metabolism. Non si tratta di prevenzione, ma di un vero e proprio di arresto della crescita del tumore. Alcuni acidi grassi, secondo lo studio condotto in Belgio, che va avanti da alcuni anni, gli omega 3 ucciderebbero le cellule tumorali. Fondamentali per la salute umana, in particolare l’acido docosaesaenoico (DHA), ritenuto fondamentale per la funzione celebrale, la vista e i fenomeni infiammatori. Ora quaesta nuova ricerca, gli attribuisce un ruolo fondamentale nella lotta ad alcuni tipi di tumore, tra cui quello al seno e al colon, due dei tumori più letali che affliggono i nostri tempi. I cosiddetti “grassi buoni” allentano la progressione di alcuni tumori maligni confermando, di conseguenza, alcuni precedenti studi sul cancro. Questo fenomeno si verifica perché il DHA li avvelena letteralmente. In pratica, il veleno, agisce sulle cellule tumorali attraverso un fenomeno chiamato ferroptosi, un tipo di morte cellulare legata alla perossidazione di alcuni acidi grassi. Maggiore è la quantità di acidi grassi insaturi nella cellula, maggiore è il rischio della loro ossidazione. Di solito, nel compartimento acido all’interno dei tumori, le cellule immagazzinano questi acidi grassi in goccioline lipidiche, una sorta di protezione dall’ossidazione. Ma, in presenza di una grande quantità di DHA, la cellula tumorale è sopraffatta e non può immagazzinare il DHA, che si ossida e arriva alla morte. Utilizzando un inibitore del metabolismo lipidico che previene la formazione di goccioline lipidiche, i ricercatori hanno osservato che questo fenomeno è ulteriormente amplificato, ulteriore conferma al meccanismo identificato. Gli studiosi hanno dunque dimostrato che, in presenza di DHA, gli sferoidi prima crescevano e poi implodevano, verificando che lo sviluppo del tumore risultava significativamente rallentato.
Tumori che si disintegrano in pochi giorni grazie all’azione di un noto Omega-3 (DHA, che si trova principalmente nei pesci): questa è l’eccezionale scoperta dell’Università di Lovanio. Affamate di acidi grassi, le cellule tumorali in acidosi si rimpinzano di DHA ma non sono in grado di immagazzinarlo correttamente e si avvelenano letteralmente. Il risultato? Loro muoiono.
Un veleno per il cancro. Affamate di acidi grassi, le cellule tumorali in acidosi si rimpinzano di DHA ma non sono in grado di immagazzinarlo correttamente e si auto-avvelenano. «Abbiamo presto scoperto che alcuni acidi grassi stimolavano le cellule tumorali mentre altri le uccidevano» spiegano gli autori dello studio. Insomma, un’indagine che conferma la teoria delle ricerche precedenti. Nel 2016, il team di Leuven guidato da Olivier Feron, specializzato in oncologia, aveva scoperto che le cellule in un microambiente acido (acidosi) all’interno dei tumori sostituiscono il glucosio con i lipidi come fonte di energia per moltiplicarsi. In collaborazione con Cyril Corbet della UCLouvain, il Prof. Feron ha dimostrato nel 2020 che queste stesse cellule sono le più aggressive e acquisiscono la capacità di lasciare il tumore originale per generare metastasi. Nel frattempo, Yvan Larondelle, un professore della Facoltà di Bioingegneria dell’UCLouvain, il cui team sta sviluppando fonti di lipidi alimentari migliorate, ha proposto al Prof. Feron di unire le proprie competenze in un progetto di ricerca, guidato dalla dottoranda Emeline Dierge, per valutare il comportamento cellule tumorali in presenza di diversi acidi grassi. Così gli esperti hanno rapidamente identificato che le cellule tumorali acidotiche rispondevano in modi diametralmente opposti a seconda dell’acido grasso che stavano assorbendo e, nel giro di poche settimane, i risultati sono stati impressionanti e sorprendenti. L' acidosi tumorale promuove la progressione della malattia attraverso una stimolazione del metabolismo degli acidi grassi (FA) nelle cellule tumorali. Invece di bloccare l'uso di AF da parte delle cellule cancerose acide, abbiamo esaminato se l'eccessiva captazione di specifici AF potrebbe portare a effetti antitumorali. È stato concluso che n-3 ma anche notevolmente n-6 FA polinsaturi (PUFA) inducono selettivamente ferroptosi nelle cellule tumorali sotto acidosi ambientale. Al superamento della capacità tampone dello stoccaggio dei trigliceridi nelle goccioline lipidiche, la perossidazione dei PUFA n-3 e n-6 ha portato a effetti citotossici in proporzione al numero di doppi legami e ancora di più in presenza di diacilglicerolo aciltransferasi inibitori (DGATi). Quindi, una dieta ricca di PUFA a catena lunga n-3 ha ritardato significativamente la crescita del tumore del topo rispetto a una dieta ricca di FA monoinsaturi, un effetto ulteriormente accentuato dalla somministrazione di DGATI o induttori della ferroptosi. Questi dati indicano i PUFA dietetici come una modalità antitumorale adiuvante selettiva che può integrare efficacemente altri approcci farmacologici.
• I PUFA n-3 e n-6 si accumulano preferenzialmente nelle goccioline lipidiche delle cellule cancerose acide• I LC-PUFA in eccesso subiscono perossidazione e inducono ferroptosi nelle cellule cancerose acide• Gli inibitori DGAT prevengono la formazione di goccioline lipidiche e promuovono la ferroptosi• DGATi migliora gli effetti inibitori della crescita tumorale degli n-3 LC-PUFA dietetici nei topi
Gli acidi grassi essenziali, chiamati così perché l’organismo non è in grado di produrli e devono quindi essere introdotti dall’esterno, con l’alimentazione oppute con il supporto degli integratori. Delegati allo svolgimento di diverse funzioni, l’acido alfa linolenico (ALA) contribuisce a mantenere livelli normali di colesterolo del sangue, l’acido eicosapentaenoico (EPA) è importante per il buon funzionamento del cuore e l’acido docosaesaenoico (DHA) aiuta a mantenere la normale funzione cerebrale. Inoltre, gli effetti positivi sul cervello degli omega sono stati dimostrati da decine di studi internazionali. Questo è possibile perchè gli acidi grassi entrano a far parte delle membrane cellulari, che si mantengono elastiche, e combattono l’invecchiamento mentale, infatti, gli omega 3 influenzano soprattutto la memoria, l’orientamento spazio-temporale, l’attenzione, la fluidità di parola e la velocità di elaborazione dei dati, migliorando sia le performance scolastiche sia quelle lavorative. Hanno poi un’azione antitrombotica, e migliorano il ritmo cardiaco, evitando l’insorgenza di aritmie. L'EPA e il DHA hanno effetti benefici sulla pelle perché costituiscono le membrane cellulari. Conservano l’elasticità cutanea, rendendo la pelle compatta e meno segnata dalle rughe del tempo. In pratica, riparando le membrane cellulari, ne ritardano la comparsa e rimediano ai danni già fatti nel corso degli anni. Inoltre, questi grassi hanno la capacità di diminuire i livelli di colesterolo cattivo (LDL) e di trigliceridi nel sangue, altro fattore di rischio per la salute del cuore, e al tempo stesso aumentano i valori di quello buono (HDL). Importanti per la loro azione antinfiammatoria, contribuiscono a potenziare il sistema immunitario. Fondamentali anche per i bambini. Grazie al Dha favoriscono lo sviluppo del sistema nervoso centrale nei primi anni di vita. Preziosi negli adulti, invece, hanno un effetto protettivo sulle cellule nervose, stimolano memoria e concentrazione.
Buoni e salutari per l’organismo. Il consumo degli acidi grassi riduce anche il rischio di patologie cardiovascolari. Come dimostra un recente studio dell’Universitat Rovira i Virgili (URV) e della Harvard Medical School sui notevoli benefici degli omega 3 per il nostro organismo. Secondo questi ricercatori, il consumo di omega 3, principalmente attraverso il pesce, ma anche negli integratori contenenti questi acidi grassi, contrasta le malattie grazie all’azione che consente di modulare le lipoproteine, le particelle che spostano i lipidi attraverso il sangue. Riducono poi, tra i tanti benefici, i livelli ematici di una proteina, la beta-amiloide, strettamente associata allo sviluppo della malattia di Alzheimer. In sostanza, per quanto riguarda le funzioni biologiche, nell’organismo umano, tra gli effetti protettivi e più rilevanti degli omega 3 ricordiamo sicuramente l’azione antiaggregante piastrinica, o effetto antitrombotico, il controllo del livello plasmatico dei lipidi, soprattutto dei trigliceridi, la riduzione del rischio di problemi cardiovascolare, il controllo della pressione arteriosa mantenendo fluide le membrane delle cellule, e dando elasticità alle pareti arteriose. Per supportare e favorire l’introduzione degli omega 3 sarebbe opportuno consumare dalle 2 alle 3 porzioni settimanali di pesce, in particolare sgombro, merluzzo, pesce spada, tonno, trota, sardina e aringa. Oppure in alternativa di avvalersi del supporto di integratori alimentari. Altra importante fonte di omega 3 sono i semi di lino, valido supporto per sopperire alla carenza di questi preziosi acidi.
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Sovrappeso, affaticamento, malattie infiammatorie e....tanta dipendenza. Semplice o complesso, lo zucchero, è l'unico responsabile di tanti disturbi. Gli effetti collaterali di un consumo eccessivo e prolungato che si deposita intorno al girovita sono molteplici. Per contro, una sua riduzione porterebbe a una lunga serie di benefici a breve termine. In primis l’aumento dell’energia poiché una limitazione del consumo di questa sostanza consente di aumentare i livelli energetici del nostro organismo e di conseguenza anche migliori performance psicofisiche. Tra gli altri effetti positivi di una modifica dello stile alimentare a “ridotto contenuto di zuccheri” anche una maggiore concentrazione, migliore qualità del sonno, regolarità del transito intestinale e dell’apparato digestivo. A beneficiare di un consumo ridotto anche la nostra pelle. Luminosità, texture e idratazione oltre a rafforzare le barriere contro gli attacchi esterni e favorire il microcircolo del derma. Infatti, non tutti sanno che lo zucchero danneggia precocemente la pelle, facilita la formazione di rughe, macchie e di processi infiammatori topici, interferisce inoltre anche con la produzione di collagene (indispensabile per la compattezza e l’elasticità dei tessuti) e determina un aumento della produzione di sebo, ancora più dannosa per chi soffre di acne.
L'amara verità dello ZUCCHERO: tutti i rischi per la nostra salute
Colpevole anche di sbalzi d’umore, ansia, irritabilità e ricorrenti “up and down” mentali. Diversi studi hanno dimostrato che una dieta ricca di zucchero può compromettere l’abilità di imparare e ricordare: è bene ridurli per contrastare questi fenomeni e preservare la lucidità mentale. Inoltre, ridurre in modo drastico il consumo di saccarosio, e quindi, delle sue forme affini, porterebbe poi ad avere un intestino in salute. Gli zuccheri, infatti, hanno la capacità di modificare il microbiota intestinale, alterando la composizione della flora batterica. Disequilibri che non solo rendono la digestione lenta e difficile, ma che indeboliscono il sistema immunitario, aumentando il carico infiammatorio a livello intestinale. Ultimo, ma non per importanza poi, la perdita di peso. Tra i notevoli benefici anche la riduzione di patologie importanti come obesità e sovrappeso. La perdita di peso, infatti, è determinata da uno scarico naturale dei liquidi in eccesso, un effetto drenante dovuto alla minor quantità di acqua legata dalle riserve di glucosio.
Al via con la dieta “sugar detox”, l’alimentazione giusta per disintossicarsi dagli zuccheri. Dalla ritenzione idrica alla formazione delle rughe. I tanti danni provocati da un eccesso di zuccheri interferiscono non solo con la salute (con una infiammazione dei tessuti), ma anche con la nostra estetica. Troppi carboidrati e zucchero raffinato desensibilizzano i sistemi di sazietà favorendone un consumo inconsapevole creando così una sorta di dipendenza. Secondo Robert Lustig, professore di pediatria e membro dell'Institute for Health Policy Studies dell'Università della California, negli Stati Uniti circa il 10% della popolazione è tossicodipendente da zucchero. Dannoso per la nostra salute. Troppi zuccheri portano a un aumento della glicemia e costringono il pancreas a liberare l'insulina facendo entrare il glucosio nelle cellule, in modo tale da bruciarlo e produrre energia. Quello in eccesso poi, viene trasformato in trigliceridi, tra le cause principali di ostruzione delle arterie e di patologie cardiocircolatorie. Una buona parte poi si deposita nel tessuto adiposo, portando all’aumento di peso e nel fegato, contribuendo così all’insulino-resistenza. Collegate all’eccesso di zuccheri anche diverse malattie: dal diabete di tipo 2 all’ipertensione, dall’insufficienza renale all’ovaio policistico, ma anche il sovrappeso, l’osteoporosi, la stanchezza, i disordini del metabolismo dei grassi fino addirittura alle malattie neurodegenerative. Pertanto il consiglio di tanti esperti è quello di depurarsi dagli zuccheri limitando così il rischio di queste patologie.
Dall'INSULINA allo ZUCCHERO nascosto nei cibi moderni
Se la dieta è ricca di alimenti zuccherini, dolci, bevande dolcificate e gassate, succhi di frutta – spiega in un’intervista a Gazzetta Active Luca Colucci, biologo, nutrizionista, – favorirà l’aumento repentino dei livelli di glucosio nel sangue, una produzione continuativa di insulina con danni a lungo termine sulla salute. Questi abusi stimolano in modo eccessivo l’appetito, portano ad affaticamento precoce, promuovono l’aumento di peso, inducono nel tempo insulino – resistenza, una sorta di intolleranza al glucosio. Fare uno scarico graduale degli zuccheri nella dieta, permette di migliorare vari aspetti della salute, prevenire malattie infiammatorie e migliorare la silhouette.
Ridurre la concentrazione di zuccheri nella dieta permette di aumentare i livelli energetici dell’organismo, garantire performance psico-fisiche migliori a lungo termine. Passati i primi giorni di stanchezza e astenia dovuti al cambio del metabolismo che modifica la sua fonte di energia primaria, si hanno migliorie su forza fisica, concentrazione, qualità del sonno, transito intestinale, digestione. L’eccessiva assunzione di zuccheri favorisce infatti la proliferazione di lieviti intestinali che affaticano l’apparato digerente, specialmente il pancreas che, producendo troppa insulina in maniera continuativa, porta a effetti deleteri sulle nostre cellule. È bene quindi evitare di assumere un carico eccessivo di zuccheri dopo i pasti principali per contrastare tutte queste problematiche e ritrovare la salute.
Limitare gli zuccheri nella dieta permette di migliorare la luminosità della pelle, la texture, l’idratazione, alleggerire il microcircolo del derma, rafforzare le barriere naturali contro gli insulti esterni. Si evita in questo modo un processo di glicazione avanzata, cioè la reazione fra uno zucchero tipo fruttosio o glucosio e una proteina, che danneggia precocemente la pelle, facilita la formazione di rughe, macchie e processi infiammatori topici. Carichi eccessivi di zuccheri interferiscono anche con la produzione di collagene, sostanza indispensabile per la compattezza e l’elasticità dei tessuti epiteliali del nostro organismo. Attenzione anche a chi soffre di acne: assumere troppi zuccheri semplici determina un aumento della produzione di sebo nella pelle, ostruendo i pori e provocando punti neri e altre fastidiose imperfezioni.
Troppo zucchero rende inclini a sbalzi d’umore poiché riduce le riserve di vitamina B, e blocca i recettori del cromo, sostanze chimiche naturali che riequilibrano la sfera emotiva. Se si esagera si può sfociare in irritabilità, ansia e ricorrenti “up and down” mentali. Alcuni studi hanno dimostrato che una dieta ricca di fruttosio può compromettere l’abilità di imparare e ricordare: è bene ridurli per contrastare questi fenomeni e mantenere la lucidità mentale. Mitighiamo gli effetti con l’integrazione di omega-3: l’uso di grassi sani come riserva permette di mantenere livelli di energia più stabili e migliorare la concentrazione.
Gli zuccheri sono in grado di modificare il microbiota intestinale, alterando la composizione della flora batterica già nelle 24 ore successive. Questi disequilibri rendono la digestione più difficoltosa e lenta, e col tempo possono indebolire il sistema immunitario, aumentando il carico infiammatorio a livello dell’intestino e degli organi annessi. I batteri intestinali sono avari di zuccheri e un surplus di edulcoranti-dolcificanti crea un ambiente distorto che li porta a cambiamenti nel loro metabolismo e nell’equilibrio delle varie specie presenti. Eliminare o ridurre in modo drastico l’introito di saccarosio e delle sue forme affini, permette di riequilibrare tutto l’ecosistema, evitare tensione addominale, meteorismo e rafforzare le difese immunitarie.
Un altro beneficio che si verifica fin dai primi giorni è quello di sentirsi più sgonfi e leggeri. La perdita di peso è determinata da uno scarico naturale dei liquidi in eccesso, un effetto drenante dovuto alla minor quantità di acqua legata dalle riserve di glucosio. È bene precisare che non bisogna però eliminare completamente gli zuccheri semplici dalla routine alimentare: via libera agli alimenti che lo contengono naturalmente come frutta e ortaggi, evitando invece quelli confezionati e industriali. È possibile consumare a volontà cibi che ospitano fino a 6 grammi di zucchero per 100 grammi, in modo da non compromette la salute e avvicinarsi agli obiettivi di benessere.
Gazzetta Active "Effetti rapidi della riduzione degli zuccheri nella dieta"
La Repubblica "Sugar detox: combattere la dipendenza da zuccheri in 4 mosse"
Fondazione AIRC "Lo zucchero favorisce la crescita dei tumori?"
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Non solo azzurro. Anche tonno, salmone e tutte le varietà di pesce ricche di omega 3. Buoni e salutari per l’organismo e utili nel contrasto di tante patologie. Due porzioni a settimana di cibi ricchi di questi acidi grassi essenziali riducono l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Giunge a questa conclusione lo studio, pubblicato sul Journal of American Medical Association Internal Medicine, condotto dagli scienziati della McMaster University, che hanno esaminato i dati di oltre 190 mila persone provenienti da 58 Paesi per correlare il consumo di pesce alle condizioni di salute. «Abbiamo osservato dei benefici significativi – sostiene Andrew Mente della McMaster University – ma è noto da tempo che gli acidi grassi omega 3 siano positivi per l’organismo». Il team di studiosi ha raccolto i dati relativi a diversi studi precedenti, considerando un totale di 191.558 persone provenienti da tutto il mondo, 51mila delle quali avevano sviluppato disturbi cardiaci. I partecipanti sono stati monitorati per oltre nove anni, in cui sono stati analizzati i rapporti sul consumo di pesce e di altri alimenti. Stando ai dati dell’équipe di ricercatori, le morti improvvise e i tassi di mortalità complessivi erano rispettivamente del 21 e del 18% più bassi tra i consumatori di almeno due porzioni di pesce azzurro ogni settimana. Altro studio recente, quello della Universitat Rovira i Virgili (URV) e della Harvard Medical School che dimostra i notevoli benefici degli omega 3 sul nostro organismo. Secondo questi ricercatori, il consumo di omega 3, principalmente attraverso il pesce, ma anche negli integratori contenenti questi acidi grassi, contrasta le malattie grazie all’azione che consente di modulare le lipoproteine, le particelle che spostano i lipidi attraverso il sangue. Nello studio gli scienziati si sono concentrati soprattutto su tre tipi di acidi grassi omega-3: acido α-linoleico (ALA), acido docosaesaenoico (DHA) e acido eicosapentaenoico (EPA), che si possono trovare nel pesce e in altri alimenti, essenziali per la nostra salute.
Teoria già confermata da una precedente ricerca condotta nel 2018 e pubblicata sulla rivista Diabetes Care dove un gruppo di esperti dall’American Heart Association ha concluso che «le attuali evidenze scientifiche supportano fortemente la raccomandazione che i frutti di mare siano parte integrante di una dieta sana per il cuore». Questi alimenti ad alto contenuto di acidi grassi polinsaturi omega 3 a catena lunga (n-3 LCPUFA) sono fonti benefiche che riducono il rischio di morte per cause cardiovascolari, malattie coronariche e ictus ischemico. «I pesci grassi di acqua fredda come salmone, acciughe, aringhe, sgombri, tonno e sardine hanno i livelli più alti di acidi grassi n-3 a catena lunga, in particolare acido eicosapentaenoico (EPA) e acido docosaesaenoico(DHA)». Inoltre, il consumo del pesce azzurro è fortemente raccomandato anche per prevenire lo sviluppo del diabete di tipo 2. Lo studio prospettico e osservazionale condotto Qibin Qi e colleghi dell’Albert Einstein College of Medicine di New York su un campione di 400mila adulti britannici senza diabete o malattie cardiovascolari ha mostrato che il consumo di pesce riduce del 22% l’incidenza di diabete. Altra importante fonte di omega 3 sono i semi di lino, valido supporto per sopperire alla carenza di questi preziosi acidi.
Una persona su tre muore per malattie cardiovascolari. 17,9 milioni di vittime ogni anno. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), infatti, le malattie cardiovascolari in generale rappresentano la prima causa di morte a livello globale. Fino ad oggi era stato dimostrato che un elevato consumo di acidi grassi omega 3 era associato a livelli più bassi di trigliceridi nel sangue. Tuttavia, era stato anche correlato ad un aumento del colesterolo LDL, cioè colesterolo a bassa densità trasportato dalle lipoproteine, noto anche come colesterolo cattivo. Il colesterolo LDL aumenta il rischio di malattie cardiovascolari perché può accelerare la formazione di aterosclerosi, cioè il processo mediante il quale le arterie si induriscono e perdono la loro elasticità. Per contro, lo studio ha scoperto che un aumento del consumo di colesterolo LDL dai pesci è associato principalmente al colesterolo trasportato dalle particelle più grandi di LDL, che sono meno aterogeniche e non con un aumento del numero totale di particelle di LDL. Questa diminuzione del numero di trigliceridi trasportati da qualsiasi tipo di lipoproteina aiuta a proteggere l'individuo dalle malattie cardiache. «Sulla base di questi dati – evidenzia Victoria Taylor, dietista presso la British Heart Foundation, che non è stata coinvolta nello studio – due porzioni di pesce a settimana sembrerebbero rappresentare la quantità minima di pesce necessaria per ottenere il massimo beneficio dalle proprietà nutritive dell’alimento».
Chi assumeva almeno 175 grammi di pesce a settimana – osservano gli scienziati – era anche associato a un rischio inferiore del 16% di subire un ictus o un infarto. Mangiare pesce può infatti aiutare a combattere le malattie cardiovascolari e le condizioni cliniche associate a disturbi cardiaci o dei vasi sanguigni. Sardine, sgombro, merluzzo, salmone, tonno e tutte le varietà di pesce ricche di omega 3 possono portare a benefici a livello cardiaco, oculare e cerebrale l’acido docosaesaenoico, o DHA, della categoria degli omega 3, in particolare, è fondamentale per la crescita e lo sviluppo dell’organo cerebrale, tanto che costituisce circa il 14% degli acidi grassi nel cervello umano. Salmone e tonno non sono propriamente pesci azzurri ma sono assimilabili alla categoria per via delle proprietà nutritive». - Gli studiosi aggiungono inoltre che i benefici sono stati osservati indipendentemente dalla modalità di conservazione dell’alimento - «Fresco, congelato o in scatola, il pesce è fondamentale per la salute cardiovascolare – precisa Taylor – che sia bianco o grasso, inoltre, il pesce rappresenta un’ottima fonte di proteine ed è un’alternativa preferibile alla carne rossa e lavorata. La dieta […] ricca di verdura, frutta […] e pesce, rappresenta una delle abitudini alimentari più sane, in grado di ridurre il rischio di problemi legati a ipertensione, colesterolo alto e malattie cardiache.
I 3 tipi di acidi grassi omega 3 studiati, acido α-linolenico, DHA e EPA sono presenti nei pesci e in altri alimenti e lo studio ha scoperto che differiscono nella loro associazione con il rischio di patologie cardiovascolari. Altro punto a favore: gli effetti positivi sul cervello. Dimostrati da decine di studi internazionali, gli acidi grassi entrano a far parte delle membrane cellulari, che si mantengono elastiche, e combattono l’invecchiamento mentale, infatti, gli omega 3 influenzano soprattutto la memoria, l’orientamento spazio-temporale, l’attenzione, la fluidità di parola e la velocità di elaborazione dei dati, migliorando sia le performance. Hanno, inoltre, un’azione antitrombotica e migliorano il ritmo cardiaco evitando l’insorgenza di aritmie. Conservano l’elasticità cutanea, rendendo la pelle compatta e meno segnata dalle rughe del tempo. Svolgono un’azione riparatrice delle membrane cellulari, ne ritardano la comparsa e rimediano ai danni già fatti.
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Contro il Covid? Mangiamo meno carboidrati! Un’alimentazione non solo efficace per una rapida riduzione della massa grassa e delle complicanze metaboliche dell'obesità, oltre a fornire un apporto nutrizionale adeguato potrebbe ridurre addirittura i rischi delle complicanze da Covid-19. È quanto mostra un recente studio del San Raffaele sul regime alimentare che riduce in modo drastico i carboidrati aumentando, per contro, le proteine e soprattutto i grassi. Lo scopo principale di questo stile alimentare è costringere l’organismo a utilizzare i grassi come fonte di energia primaria. Al contrario di quanto avviene in presenza di carboidrati, infatti, tutte le cellule ne utilizzano l’energia per svolgere le loro attività. Ma se questi vengono ridotti al minimo o eliminati completamente, cominciano a utilizzare i grassi. Si avvia quindi un processo chiamato chetosi, perché porta alla formazione di molecole chiamate corpi chetonici, questa volta utilizzabili dal cervello. In genere la chetosi si raggiunge dopo un paio di giorni con una quantità giornaliera di carboidrati di circa 20-50 grammi, ma queste quantità possono variare su base individuale. Oggi il successo di una dieta così strutturata, è legato soprattutto alla sua efficacia nel ridurre il peso, ma non si tratta di un regime alimentare semplice da seguire. Difatti, basta sgarrare anche di poco con i carboidrati per bloccare il processo di chetosi e, di conseguenza, indurre l’organismo a utilizzare nuovamente la sua fonte energetica preferita: gli zuccheri.
La continua lotta al coronavirus sta ponendo una seria sfida ai sistemi sanitari di tutto il mondo, con un enorme impatto sulle condizioni di salute e sulla perdita di vite umane. In particolare, l'obesità e le relative comorbidità sono strettamente correlate ai peggiori esiti clinici del Covid. Nonostante l'attuale tasso di mortalità sia del 7,6%, l'emergere di un gran numero di pazienti contagiati in un breve periodo di tempo ha determinato rilevanti difficoltà. Tra i fattori di maggior rischio SARS-CoV-2, numerosi studi, nel corso di questi mesi, hanno identificato una specifica associazione di mortalità con età avanzata e presenza di comorbidità. Alcune di queste patologie sono legate al comportamento dello stile di vita, quindi dovrebbe essere raccomandato di intervenire su questi fattori di rischio per migliorare i risultati in caso di contagio e ridurre l'impatto sulla salute di possibili nuovi focolai futuri. Da qui, la notevole importanza di queste diete per una rapida riduzione di diversi fattori di rischio critici tra cui l'obesità, il diabete di tipo 2 e l'ipertensione, sulla base dei noti effetti dei corpi chetonici su infiammazione, immunità, profilo metabolico, malattia renale cronica e funzione cardiovascolare. Il suggerimento nutrizionale che fornisce questa indagine è quello di ridurre il consumo di cibo spazzatura e preferire alimenti con proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, meglio se con il potenziale di influenzare positivamente il sistema immunitario. Quindi, diciamo “addio” alle abitudini alimentari malsane, ricche di carboidrati.
Ecco il perché della decisione di limitare l’apporto di glucosio nella dieta dei pazienti: «Abbiamo potuto osservare che questo tipo di dieta non è solo accessoria, ma assume una valenza antinfiammatoria quasi simile a quella dei farmaci anti-citochine», spiega a Gazzetta Active il dottor Samir Giuseppe Sukkar, primario di Dietetica e Nutrizione Clinica dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova.
Nel mese di marzo mi sono concentrato su un eventuale supporto nutrizionale dal punto di vista immunomodulatore. In particolare ho considerato una possibile ipotesi di trattamento e mi sono accorto che all’epoca stavano emergendo dati sul fatto che la sindrome da Covid che portava alla morte e al ricovero era la tempesta o sindrome citochinica. Questa evidenza era emersa in uno studio pubblicato su Lancet alla fine di febbraio. Ho così voluto vedere che cosa scateni la tempesta citochinica. A provocarla è l’iperattivazione dei macrofagi M1, cellule infiammatorie che si trovano nell’alveolo polmonare allo stato di quiescenza e che si attivano nel momento in cui arriva un virus. Questo stato di attivazione porta ad una cascata di citochine. La cosa interessante è che andando a verificare dal punto di vista metabolico perché accade questo si nota l’effetto Warburg, una caratteristica di determinate cellule il cui metabolismo è quasi esclusivamente glicolitico: utilizzano esclusivamente lo zucchero. Sì. La tempesta citochinica porta all’attivazione di macrofagi M1 il cui metabolismo è esclusivamente glicolitico: utilizzano solo il glucosio per produrre energia. Quindi se si riduce il glucosio come fonte energetica primaria del paziente riduciamo anche il nutrimento per gli M1. Di conseguenza una dieta chetogenica, apportando una quantità di glucosio inferiore a 30 grammi al giorno, porta ad una minore disponibilità di nutrienti per i macrofagi M1, li affama. In questo modo si ferma l’iperattivazione dei macrofagi. Non solo. Fornire una quantità elevata di grassi rispetto agli zuccheri facilita anche il processo di guarigione. Questo perché i macrofagi M2, macrofagi spazzini, sono cellule voraci di grassi, che utilizzano come fonte energetica. Quindi con la chetogenica da un lato affamiamo i macrofagi M1 e dall’altro favoriamo l’azione positiva degli M2. Se poi la dieta chetogenica è ricca anche di acidi grassi omega 3 è ancora meglio perché questi riducono l’infiammazione, spegnendo il processo infiammatorio. Di fatto questa dieta è fortemente coadiuvante della guarigione del Covid-19 e ha avuto un effetto su 38 pazienti comparati a 76 pazienti che non avevano seguito questo regime alimentare. Abbiamo avuto una riduzione significativa della mortalità per Covid e del numero di pazienti ricoverati in terapia intensiva. Tutto questo ha un grande rilievo dal punto di vista terapeutico perché la dieta così non è più solo accessoria, ma assume una valenza antinfiammatoria quasi simile a quella dei farmaci anti-citochine. Quindi non è solo una terapia di supporto come l’assunzione di vitamina D o vitamina C.
I CARBOIDRATI FANNO BENE O MALE?
L'obesità rappresenta uno dei fattori prognostici riconosciuti per la necessità di terapia intensiva e ad alto rischio di morte durante l'infezione da SARS-CoV-2. Nello specifico, lo stato di obesità limita la ventilazione interrompendo l'escursione del diaframma, altera le risposte immunitarie all'infezione virale, determina un'infiammazione cronica di basso grado e peggiora la tolleranza al glucosio e lo stress ossidativo con effetti negativi sulla funzione cardiovascolare. È importante, quindi, sottolineare che i pazienti obesi sperimentano una sindrome Covid-19 più grave, poiché l'obesità è caratterizzata da un equilibrio emostatico alterato con aumento della coagulazione e fibrinolisi difettosa che si traduce in uno stato pro-trombotico. Inoltre, la coesistenza di obesità e steatosi epatica metabolica (MAFLD) determina un aumento del rischio di circa 6 volte di un quadro clinico negativo. In particolare, un recente rapporto ha mostrato che il tessuto adiposo esprime livelli molto elevati di trascrizioni per ACE2, un enzima attaccato alla superficie esterna dei pneumociti, che viene utilizzato dai coronavirus per entrare e infettare le cellule, sollevando la questione se il tessuto adiposo possa rappresentare un serbatoio di SARS-CoV-2 e un sito strategico per amplificare la cascata di citochine innescata dall'infezione virale. I pericoli di questa correlazione vengono messi in evidenza dal professor Massimiliano Caprio, responsabile dell’Unità Endocrinologia cardiovascolare dell’IRRCS San Raffaelec di Roma, coautore di un articolo pubblicato dalla rivista Journal of Translational Medicine:
L'obesità e le sue comorbidità sono strettamente legate alla prognosi più grave del Covid-19, e un aspetto poco considerato nell’affrontare l’emergenza è che una corretta consulenza nutrizionale costituisce una priorità per affrontare la pandemia di Covid-19, al fine di ridurre il rischio di infezione e le relative complicanze. Possono avere un ruolo importante nella modulazione dell'immunità innata e di quella adattativa, determinando effetti benefici sull'infiammazione cronica di basso grado, potendo prevenire il rischio di tempesta citochinica del Covid-19. Inoltre – prosegue il prof. Caprio - le diete […] potrebbero essere protettive durante l'infezione da Sars-COV2 grazie agli effetti antinfiammatori e immunomodulanti dei corpi chetonici.
Ecco come la PASTA potrebbe influenzare la nostra salute
È ben noto che il rilascio aberrante di citochine e chemochine pro-infiammatorie, indotto dall'infezione da SARS-CoV-2, è centrale per gli esiti fatali della sindrome Covid-19. Una grave progressione del Covid è determinata da una risposta tardiva all'interferone gamma con uno stato infiammatorio prolungato e una conta delle cellule Treg, NK e CD4 + e CD8 + più bassa. È ampiamente documentato, inoltre, che l'iperglicemia può peggiorare la risposta infiammatoria. Livelli elevati di glucosio amplificano la produzione di citochine nei monociti attraverso un aumento dei ROS mitocondriali. È quindi probabile che le popolazioni di cellule immunitarie disregolate rappresenti un importante fattore di rischio e determini il peggioramento della risposta infiammatoria durante l'infezione da SARS-CoV2. Quella avvallata nella ricerca è una terapia adiuvante per affrontare l'infezione mediante un cambiamento nello stato metabolico dell'ospite da un glicolitico dipendente dai carboidrati a un dipendente dai grassi stato chetogenico, mirato ad alterare la replicazione virale. Tale spostamento metabolico provoca una maggiore resistenza allo stress mitocondriale, un miglioramento delle difese antiossidanti, un aumento dell'autofagia e della riparazione del DNA e una diminuzione della secrezione di insulina. Insomma, un approccio funzionale che rimanda a uno stile di vita salutare e importante per tenere alla larga una lunga serie di malattie, tra queste anche il Covid poiché valida nel migliorare la risposta immunologica dell’infezione da SARS-CoV2.
Journal of Translational Medicine "The dark side of the spoon - glucose, ketones and COVID-19: a possible role for ketogenic diet?"
AGI "La dieta chetogenica può ridurre i rischi di complicanze nel Covid-19"
Gazzetta Active "La dieta chetogenica è un’arma contro il Covid? Uno studio sostiene che può ridurre la mortalità"
San Raffaele "Obesità-COVID-19: la dieta chetogenica aiuta a ridurre i rischi da Sars-Covid2"
Medical Xpress "Ketogenic diets alter gut microbiome in humans, mice"
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Infiammazione? Lo stile alimentare che aiuta la prevenzione di tante patologie
Parola d'ordine: low (no) carb. I grassi non fanno male! Una premessa doverosa dopo decenni in cui hanno cercato di convincerci della nocività di questi alimenti. Nel frattempo, negli anni ‘50, cibi ricchi di zuccheri erano alla ribalta degli scaffali di ogni supermercato portando, di conseguenza, all’epidemia dell’obesità. Un’alimentazione senza carboidrati è una dieta che limita i carboidrati, presenti soprattutto in alimenti zuccherati, pasta, pane, riso, patate, legumi e pizza. Numerose evidenze scientifiche dimostrano che le diete a basso contenuto di carboidrati possono contribuire alla perdita di peso oltre a migliorare i marcatori di salute. Uno stile alimentare che, per certi versi, richiama, da lontano, la dieta chetogenica o LCHF (low carb high fat), seppur con importanti differenze. Gli studi dimostrano che, oltre agli altri benefici, una dieta a basso contenuto di carboidrati può facilitare la perdita di peso e il controllo della glicemia. Altri studi dimostrano che non c’è motivo di eliminare i grassi naturali dalla nostra alimentazione. Anzi, in uno stile alimentare privo di carboidrati (o quasi) i grassi diventano i nostri alleati. Per avvalersi questo sostegno basta ridurre al minimo l’assunzione di zuccheri e amidi e assicurarsi il giusto apporto di proteine. Con l’eliminazione (o la drastica riduzione) di queste sostanze dannose, i livelli di zucchero nel sangue tendono a stabilizzarsi e, di conseguenza, si abbassano anche i livelli degli ormoni che immagazzinano l’insulina. Questo processo facilita l’aumento della combustione dei grassi e contribuisce al senso di sazietà, riducendo così naturalmente l’assunzione di cibo e facilitando anche la perdita di peso. Inoltre, una dieta a basso contenuto di carboidrati può portare a bruciare più calorie di altre diete.
Come già detto poi, le diete senza carboidrati contribuiscono alla riduzione o alla normalizzazione dei livelli di zucchero nel sangue, e così facendo, contrastano anche il diabete di tipo 2. Quindi, ridurre o rinunciare ai carboidrati insulinici, potrebbe aiutare il controllare non solo la glicemia, ma risultare particolarmente utile per le persone con diabete. Inoltre, uno studio recente condotto per 6 mesi su 49 adulti obesi con diabete di tipo 2 ha rilevato che chi ha seguito una dieta low carb ha avuto riduzioni significativamente maggiori di emoglobina glicata, rispetto al gruppo di controllo. Infatti, come osserva l’American Diabetes Association, la riduzione dei carboidrati, a qualsiasi livello, è probabilmente un efficace strumento per il controllo dello zucchero nel sangue. In pratica, ridurre l’assunzione di carboidrati può prevenire picchi di zucchero nel sangue e quindi aiutare a prevenire le complicazioni del diabete. Tuttavia, i benefici di questo stile alimentare non finiscono qui. Infatti, diminuire l’assunzione di carboidrati può migliorare la salute del cuore. In particolare, le diete senza carboidrati hanno dimostrato di diminuire i livelli di trigliceridi nel sangue, causa principale di rischio malattie cardiache. Secondo quanto dimostra un’indagine condotta su 29 uomini in sovrappeso, la riduzione dell’assunzione di carboidrati al 10% del totale delle calorie giornaliere per 12 settimane, ha diminuito i livelli di trigliceridi del 39% rispetto ai livelli iniziali. Altri studi suggeriscono che le diete a basso contenuto di carboidrati possono anche aumentare i livelli di colesterolo HDL (il cosiddetto colesterolo buono), valido supporto nella protezione contro le malattie cardiache. Dulcis in fundo, un basso livello di carboidrati si dimostra un prezioso alleato del nostro intestino. Contribuisce, infatti, a risolvere i problemi dell’intestino irritabile, spesso alleviandone i sintomi come gonfiore, crampi, dolore addominale, gas, diarrea o stipsi. Funzionale poi anche in caso di cattiva digestione, reflusso gastrico e altri fastidi digestivi. Tra i notevoli vantaggi e benefici per il benessere dell’organismo:
Grassi o Zuccheri? “Ai più importanti bivi della vita non c’è segnaletica” sosteneva Ernest Hemingway, ma con le informazioni giuste è possibile non prendere la strada sbagliata. Dalla via dei grassi a quella dei zuccheri, una spiegazione esaustiva viene fornita da Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti:
«Per comprendere l’importanza dei grassi per l’organismo è fondamentale capire l’uso che ne fa il nostro corpo. Per molti di noi il grasso è visto come un substrato energetico (utilizzato per creare energia) e niente più, invece le sue funzioni sono essenziali anche per altri motivi. Distinguiamo intanto i tre differenti tipi di grassi che il nostro corpo assimila con l’alimentazione o produce in base alle proprie esigenze: trigliceridi, fosfolipidi e colesterolo - si legge nel capito “La via dei grassi” -. Quando i carboidrati sono ingeriti, non importa che siano di natura semplice o complessa, essi saranno comunque trasformati in glucosio per poi venire assimilati dai villi intestinali e da qui, riversati nel flusso sanguigno. Il nostro sistema arterioso si occupa di trasportare il glucosio alle cellule che ne hanno bisogno. Difatti come abbiamo già detto, l’unico utilizzo del glucosio da parte del nostro corpo è di tipo energetico, ovvero esso è utilizzato dalle cellule per produrre gli Atp (con la glicolisi ed in seguito con i mitocondri). Le uniche cellule che usano esclusivamente il glucosio come carburante (le altre usano soprattutto i grassi) sono le cellule nervose del cervello (i neuroni), le cellule muscolari della fibra bianca (fibrocellule) ed i globuli rossi (che non possiedono mitocondri). Cosa succede quando il glucosio è presente in quantità eccessive nel sangue? Il nostro corpo, tramite il pancreas, produce uno speciale ormone per eliminare il glucosio in eccesso, evitando il raggiungimento del coma diabetico: l’insulina. Ma esistono alcuni carrier proteici (proteine di trasporto) che si occupano di trasportare il glucosio nelle cellule, sono i glut» conclude l’autore nel capitolo “La via degli zuccheri”.
Ormai sono diversi gli studi che cominciano a suggerire che se mangiato senza carboidrati, il grasso, non contribuisce all’aumento di peso. Al contrario di quanto riscontrato invece per lo zucchero dove dozzine di indagini dimostrano che se consumato da solo induce, ugualmente e in modo significativo, a un’inevitabile sovrappeso. Sullo stesso filone la tesi presentata nel libro di Aaron Carroll, professore di pediatria alla Indiana University School of Medicine, “The Bad Food Bible: How and Why to Eat Sinfully” (La bibbia del cibo malvagio: come e perché mangiare peccaminosamente). «C’è una cosa che sappiamo a proposito dei grassi - si legge nel libro di Carroll - Il consumo di grassi non provoca aumento di peso. Al contrario, potrebbe piuttosto aiutare a perdere qualche chilo». Insomma, un chiaro appello per riportare a tavola tutti quegli alimenti banditi dalla dieta nel corso degli anni Novanta. Dal burroso avocado, all’appetitoso salmone passando per le saporite noccioline. Le motivazioni per includere nuovamente nella nostra dieta questi alimenti vengono fornite e confermate da recenti ricerche che dimostrano come le persone che hanno ridotto i grassi non solo non perdono peso, ma non riducono nemmeno il rischio di malattie. Per contro, le persone che consumano più grassi, ma diminuiscono drasticamente o eliminano completamente carboidrati e zuccheri, registrano una riduzione sia del peso corporeo sia del pericolo di patologie.
Secondo una review di diverse ricerche pubblicata sulla rivista The Lancet, gli scienziati hanno messo a confronto oltre 150.000 persone in 18 stati, con diversi tipi di alimentazione per indagare le associazioni del consumo di queste sostanze in relazione al rischio di insorgenza di diverse patologie. Le persone che seguivano diete a basso tenore di grassi avevano più probabilità di morire per cause diverse. Senza tralasciare poi il rischio di morire per malattie cardiovascolari, infarto, ictus e insufficienza cardiaca. Per contro, le persone con diete a basso tenore di carboidrati avevano un rischio significativamente minore di incorrere in queste conseguenze. Insomma, una maggiore assunzione di carboidrati è stata associata a un aumento del rischio di mortalità. A seguito degli importanti risultati ottenuti da queste indagini «andrebbero riconsiderate le linee guida dietetiche globali» hanno concluso gli autori dello studio. Ma cosa succede quando nella nostra dieta includiamo solo cibi a basso tenore di grassi? Molti alimenti pronti al consumo nella categoria del “low-fat” sono ricchi di zuccheri e carboidrati. Per avere una conferma di questo basterebbe prendere ad esempio i cereali comuni, quelli in barrette o lo yogurt e dare un’occhiata alla tabella nutrizionale. Compariranno tutti valori ad alto tasso di zuccheri e carboidrati, nonostante siano alimenti a basso contenuto di grassi. Quindi, mentre questi prodotti a basso contenuto di grassi sono venduti come cibi per “perdere peso”, la realtà è molto diversa da quella narrata negli spot pubblicitari. Questi prodotti difatti incidono negativamente più di altri sull’aumentare di peso. Quindi, tirando le somme, nel carrello della spesa è preferibile un prodotto ricco di grassi, ma povero in carboidrati.
Il Messaggero "Dieta chetogenica, può avere effetti benefici nelle persone che soffrono di asma"
The Italian Times "Dieta chetogenica: cos'è, come funziona ..."
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Oltre 463 milioni di persone (1 su 11) convivono con il diabete. 3 milioni solo in Italia, ma un milione e mezzo non sa di averlo! E le previsioni non sono per niente ottimistiche. Si prevedono, infatti, che il numero di persone affette da questa patologia aumenterà, entro i prossimi dieci anni, a 578 milioni. Ancora oggi, un adulto su due rimane non diagnosticato. Nel 2019, il diabete è stato la causa di 4,2 milioni di morti. Senza tralasciare le conseguenze. Infatti, le lesioni cutanee, portatrici di infezioni anche croniche, possono aggravarsi fino a determinare l'amputazione dell'arto (1 su 5 in Italia). «È importante il ruolo di questa giornata nella sensibilizzazione sul diabete, una patologia in crescita che richiede nuovi approcci terapeutici» commenta all’Adnkronos Giuseppe Seghi Recli, Presidente di Molteni. Inoltre «La comparsa di ulcere da piede diabetico è spia di una condizione clinica particolarmente grave che richiede un inquadramento completo e la definizione di uno specifico percorso di cura» aggiunge nell'intervista all'Adskronos il professor Luigi Uccioli, Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma.
DIABETE: lo stile di vita sostiene prevenzione e remissione
Al via con il World Diabetes Day, #WDD2020! La Giornata mondiale del diabete (WDD) viene istituita nel 1991 dalla federazione internazionale del diabete con lo scopo (IDF) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in risposta alla crescente sfida alla salute posta dal diabete. La Giornata Mondiale del Diabete è diventata la Giornata ufficiale delle nazioni Unite con l’approvazione della risoluzione 61/225. Si celebra il 14 novembre di ogni anno, in occasione del compleanno di Sir Frederick Banting che ha scoperto l’insulina insieme a Charles Best nel 1922. La campagna di sensibilizzazione richiama l’attenzione su questioni di fondamentale importanza. Il diabete di tipo 2 è la forma più diffusa, riguarda oltre il 90% dei casi, ed è una patologia cronica caratterizzata da un eccesso di zuccheri nel sangue, iperglicemia, che può causare frequenti complicanze cardiovascolari e renali, precoci e spesso fatali, come lo scompenso cardiaco e l’insufficienza renale. «Il progetto nasce proprio dall’esigenza di rispondere ad un bisogno importante di conoscenza di molti soggetti affetti da diabete di tipo 2 – spiega all’Adnkronos Agostino Consoli, presidente eletto della Sid –. Molte persone con diabete non sono fino in fondo consapevoli della gravità di questa malattia». La campagna di comunicazione si fa portavoce di un messaggio educativo estremamente importante: «il diabete – precisa Consoli - è una malattia cronica ed è fondamentale che i pazienti si prendano a cuore la propria patologia».
Parola chiave: prevenzione! Una soluzione che si è trasformata in un problema in era Covid, con gli ospedali saturi e le terapie intensive al collasso. Da qui l’importanza di prevenire questa patologia per evitare le eventuali complicanze. Oggi più che mai, soprattutto in piena emergenza sanitaria. Infatti, lo scompenso cardiaco è una delle complicanze più precoci nei soggetti con diabete di tipo 2 e tra le prime cause di ospedalizzazione nel nostro Paese, associata purtroppo a un elevato rischio di mortalità a 5 anni dalla diagnosi. Inoltre, circa il 40% dei pazienti diabetici sviluppa nefropatia che quando si manifesta è spesso in una fase troppo avanzata per poter intervenire. «Queste complicanze impattano notevolmente sulla qualità di vita dei pazienti – evidenzia in un’intervista all’Aknkronos Paolo Di Bartolo, presidente Amd – e la prevenzione rappresenta uno strumento fondamentale per contrastarle. La sfida di oggi, infatti, non è la cura della malattia conclamata, ma una sua corretta gestione per prevenire tempestivamente le complicanze nei numerosissimi pazienti che presentano almeno un fattore di rischio, come l’ipertensione, l’abitudine al fumo o dislipidemia. Il controllo medico diventa quindi parte integrante della terapia e la collaborazione dei pazienti diabetici nel richiedere una consulenza costante risulta importantissima».
DIABETE: ecco come mangiare per stare meglio
Un tema delicato quello del diabete, ma soprattutto una malattia da non trascurare. «Il diabete di tipo 2 è una patologia metabolica caratterizzata da glicemia elevata in un contesto di insulino-resistenza ed insulino-deficienza relativa e rappresenta circa il 90% dei casi di diabete. Questo viene inizialmente trattato con l’aumento dell’esercizio fisico e con modifiche nella dieta» spiega Christian Orlando, biologo e nutrizionista. «Fino a un secolo fa – continua l’esperto - l’alimentazione con un ridotto contenuto di carboidrati (massimo 20/25 gr al giorno) rappresentava uno standard per la cura del diabete tipo 1 e tipo 2, in quanto la restrizione di carboidrati produce spesso un rapido e notevole miglioramento clinico. Poi, la scoperta dell’insulina nel 1920 ha permesso il controllo dell’iperglicemia in persone diabetiche consentendo ai pazienti di mangiare una quantità maggiore di carboidrati senza però considerare gli effetti collaterali dovuti alla notevole quantità di insulina somministrata». Il biologo cita anche una relazione dell’ADA ( American Diabetes Association) del 2019, secondo cui «le diete a basso contenuto di carboidrati hanno dimostrato un miglioramento della glicata e la minor quantità di antidiabetici orali somministrati nei pazienti con diabete tipo 2». «Nelle persone con diabete di tipo 2 all’esordio, alcuni studi hanno inoltre dimostrato che tale alimentazione porta ad un miglioramento della funzione delle cellule beta del pancreas secernenti insulina e una riduzione dell’insulino-resistenza con miglioramento del compenso glicemico» conclude Orlando.
Il 43,9% dei soggetti deceduti per Covid avevano il diabete. Il report del 20 marzo, dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui pazienti deceduti in Italia, conferma la probabilità di maggiore mortalità in presenza di diabete. Mentre, il 48,6% presentava 3 o più patologie croniche. Secondo il Current Diabetes Review «il diabete di tipo 2 può «aumentare l’incidenza delle malattie infettive e delle comorbilità correlate». E anche se questi non hanno maggiore probabilità di essere contagiati, rischiano sicuramente più degli altri di sviluppare gravi complicanze, una volta contratto il virus. È la conclusione di un équipe di ricercatori dell’Università di Padova. La ricerca, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, dimostra come i pazienti diabetici, soggetti a un aggravamento del quadro clinico in presenza di qualsiasi malattia acuta, nel caso di infezione da SARS-CoV2 hanno un rischio di prognosi peggiore della patologia, rispetto a quella degli altri soggetti infetti non diabetici. L’interconnessione tra Covid e diabete è dovuto all’enzima attraverso cui il virus entra nelle cellule delle vie respiratorie è lo stesso espresso nelle cellule del pancreas e del fegato, e il paziente portatore di entrambe le malattie presenta indici coagulativi, marcatori infiammatori e proteina C reattiva con più alti livelli nel sangue rispetto ai soggetti positivi al Coronavirus, ma senza diabete. Inoltre, le “abituali” complicanze causate dal diabete come neuropatie, retinopatie, arteriopatie e nefropatie, oltre a una maggiore predisposizione a contrarre patologie batteriche e virali durante la infezione Covid 19 si riacutizzano, peggiorando la già critica situazione clinica.
«Alti livelli di zucchero nel sangue per un lungo periodo di tempo possono effettivamente deprimere il sistema immunitario, quindi non risponde più rapidamente al virus quando entra nel corpo e ha più tempo per replicarsi, scendere ai polmoni e causare i problemi legati alla respirazione che possono portare alla necessità di cure ospedaliere» spiega Amir Khan, affermato specialista ed esperto nella patologia del diabete di tipo 1 e 2. L’esperto fa poi riferimento ai dati diffusi dalla Cina che mostrano, nei primi 44.672 casi positivi, le persone che avevano malattie cardiovascolari, precedenti infarti o ictus, avevano un tasso di mortalità più alto (10,5%). «In Cina, dove la maggior parte dei casi si è verificata finora, le persone con diabete avevano tassi molto più alti di complicanze gravi e morte rispetto alle persone senza diabete» spiega l’American Diabetes Association. Tuttavia, a peggiorare il quadro clinico, come evidenziato nel report dell’ISS, contribuiscono anche alcuni farmaci ad uso comune. Gli Ace inibitori, molecole con effetti antipertensivi che agiscono sulla funzionalità cardiaca ostacolando l'insorgenza della insufficienza renale, influenzano negativamente l’evoluzione dell’infezione.
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Riduce di dieci anni l’aspettativa di vita. Considerata una malattia vera e propria, l’obesità e altri disordini metabolici sono diventati le epidemie sanitarie del XXI secolo. Si legge nel primo punto del position paper, il documento redatto da un’équipe di esperti guidati dal professor Michele Carruba, direttore del Centro di Studio e Ricerca sull’Obesità dell’Università Statale di Milano in collaborazione con la Società Italiana Obesità (SIO), la Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità (SICOB), l’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI) e l’Associazione Amici Obesi Onlus. Tra gli aspetti meritevoli di nota, il documento evidenzia anche l’educazione alimentare e l’attività fisica. Il nostro Paese registra decine di migliaia di morti causate da questa patologia o dalle sue conseguenze. In Italia, ogni anno muoiono 57.000 persone per malattie legate all’obesità. Questi drammatici numeri corrispondo a una media di circa 1.000 morti a settimana o, ancora peggio, una persona ogni 10 minuti. Con un incremento del 10% negli ultimi 5 anni. Il quadro non migliora nel resto del mondo, dove ci sono più di un miliardo di adulti in soprappeso e di questi, 300 milioni sono considerati obesi. Colpiti anche i più piccini: sono ben 22 milioni i bambini sotto i 5 anni in sovrappeso.
Le vere cause dell'obesità
Definita “malattia” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità già dagli anni Sessanta. Una patologia epidemica che in casi potrebbe essere mortale e si caratterizza con l’aumento significativo della massa grassa e, successivamente, si manifesta sul piano organico con serie conseguenze in ogni organo e apparato. L'eccesso di peso e in particolare il grasso intra-addominale, è associato ad una serie di fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, tra cui: ipertensione, diabete di tipo 2, cancro, malattie renali e malattie epatiche. Il primo segnale di questa patologia è la circonferenza vita: dovrebbe essere inferiore agli 88 cm per le donne e a 102 cm per gli uomini. Il secondo, le numerose malattie correlate: l’88% dei casi di diabete è legato all’obesità, come il 55% dei casi di ipertensione, il 35% dei casi di cardiopatia ischemica e il 35% dei tumori. Inoltre, il fattore determinante è lo stile di vita condotto dai soggetti. Quindi, dall’alimentazione sana ed equilibrata all’attività fisica frequente. E aumentare il movimento, riducendo così la vita sedentaria, riduce il rischio di mortalità di circa tre volte.
Da non sottovalutare, inoltre, le conseguenze psicologiche: dal 20 al 40% di persone affette da obesità soffre di un disturbo del comportamento alimentare. La maggior parte poi convivono con episodi di ansia e depressione legati allo svolgimento della attività di routine. Tra i fattori di rischio, notevole aumento dei casi di cancro di cui, mezzo milione l’anno sono riconducibili all’indice di massa corporea (BMI): i chili di troppo sarebbero implicati nello sviluppo di varie tipologie di tumore tra cui all’esofago, colon-retto, pancreas, cistifellea, seno, endometrio e ovaie. Il grasso in eccesso, soprattutto quello addominale, produce sostanze che provocano infiammazioni dei vasi sanguigni che portano alle più gravi patologie cardiache. Dall’ipertensione al colesterolo. Tra gli altri pericoli del sovrappeso anche ictus e malattie cardiache. Altra correlazione è quella con l’asma allergico. La probabilità di svilupparla raddoppia in caso di obesità. Nel caso specifico, i tessuti adiposi producono mediatori che influenzano l’infiammazione e ostruiscono le vie respiratorie.
Obesità e ipertensione arteriosa
Tra i soggetti a rischio, anche i diabetici. Infatti, quasi il 90% di chi soffre di diabete di tipo 2 è in sovrappeso. Lo zucchero, nei soggetti insulino-resistente, non riesce a raggiungere le cellule e rimane in eccesso nel sangue. Da non trascurare poi, la maggiore pressione su articolazioni e cartilagini che, sottoposte a uno sforzo superiore, sono più soggette all’usura. E ancora un aumento del 25% delle probabilità di incorrere in depressione, lo dimostra uno studio della Rush University Medical Center di Chicago. Così anche per le donne incinte in sovrappeso e ai rischi connessi agli interventi chirurgici oltre che a tutte le procedure operatorie. Da non dimenticare poi la steatosi epatica, causata dall’eccessivo accumulo di grasso nel fegato e, il fegato grasso, è tipico delle persone con chili in eccesso. Ricordiamo che, nella peggiore delle ipotesi, la statosi potrebbe degenerare in cirrosi danneggiando irreparabilmente il fegato. Tra gli altri fastidi correlati all’obesità anche le apnee notturne dovuti al grasso in eccesso intorno al collo che ostacola la respirazione. In ultimo, ma non meno importante, secondo quanto scoperto da un team di ricercatori dell’Università di Cambridge, pubblicata sulla rivista scientifica The Journal of Neurobiology of Aging: il cervello delle persone in soprappeso ha le stesse caratteristiche di quello di un altro soggetto più anziano di dieci anni.
(Fonte: Il Sole 24Ore)
A complicare un quadro già crititico di suo, lo scenario attuale causato dell'epidemia in corso. Il 75% dei pazienti positivi al Covid-19 in terapia intensiva è in sovrappeso. Secondo alcuni ricercatori inglesi del Public Health England, contrarre il Coronavirus in condizioni di obesità aumenterebbe il rischio di complicanze. Difatti, le persone in sovrappeso sarebbero maggiormente esposte per via del maggiore numero di adipociti presenti nel loro corpo, con la funzione di “serbatoio virale” per la malattia. In sostanza, il peso eccessivo potrebbe determinare difficoltà respiratorie e alterare la risposta immunitaria e peggiorare irrimediabilemente la il quadro clinico.
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Fanpage "L’obesità può aggravare l’infezione da coronavirus nei giovani"
La Stampa "Scatta l’allarme obesità: è la regina di ogni malattia eppure la sottovalutiamo"
Agi "Gli obesi sono più a rischio Coronavirus"
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OK Benessere e Salute "Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono""Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono"
Società Italiana Obesità (SIO)
Società Italiana di chirurgia dell'Obesità e delle Malattia Metaboliche (S.I.C.OB.)
Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)