SOS COVID-19: allerta per i pazienti oncologici. Sono proprio le persone con patologie pregresse, oltre agli anziani, a rischiare di più. La conferma arriva da uno studio sul Coronavirus e sui malati di cancro in Cina. I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista Lancet Oncology, confermano un aumento del rischio di complicanze. Secondo lo studio, approvato dal comitato etico del First Affiliated Hospital dell'Università medica di Guangzhou, infatti, i pazienti con cancro sarebbero più suscettibili alle infezioni rispetto agli individui senza a causa del loro stato immunosoppressivo dovuto ai trattamenti antitumorali (come la chemioterapia). Pertanto, questi pazienti potrebbero essere ad aumentato rischio di COVID-19 e avere una quadro clinico peggiore degli altri.
Anche l’Airc si è interrogata sui possibili rischi e ha chiesto a tre esperti di fare il punto sui rischi che corrono e sui suggerimenti da dare a chi è in cura per un tumore. «Alcune categorie di persone – gli anziani, gli immunodepressi, le persone con molte patologie concomitanti, i pazienti con grave deterioramento fisico – sono esposte a un rischio più elevato perché l’eventuale infezione causa con maggiore frequenza complicanze gravi» spiega Michele Micella, direttore del Dipartimento di oncologia dell’Università di Verona.
Sulla gravità dell’emergenza sanitaria interviene anche Francesco Perrone direttore dell'Unità sperimentazioni cliniche dell'Istituto nazionale tumori di Napoli: «Il virus Covid-19, responsabile dell’attuale emergenza, è diverso dai virus influenzali, sia perché appartiene a un’altra famiglia di virus, sia perché è nuovo per gli esseri umani. Questo significa che il nostro sistema immunitario è impreparato a reagire a tale infezione rispetto all’influenza stagionale che, oltretutto, non provoca polmoniti tanto frequentemente quanto l’infezione da Coronavirus».
«I pazienti oncologici di per sé rappresentano una popolazione più esposta al rischio di infezione e di eventuali complicanze, ma va ovviamente valutato anche il tipo di patologia tumorale, la condizione generale della persona e la terapia a cui è sottoposta». È questo l’allarme che lancia Giovanni Maga, direttore del laboratorio di Virologia molecolare presso l'Istituto di genetica molecolare del CNR di Pavia. «Per esempio – continua l’esperto -, le terapie immunosoppressive (che riducono l’efficienza del sistema immunitario) espongono a un maggiore rischio di contrarre qualunque infezione».
Figura The Lancet Oncology: Tipologie pazienti (A) e rischi di sviluppare complicanze (B) ICU = unità di terapia intensiva.
Precisa poi Maga sul pericolo di contagio: «Il rischio per un paziente oncologico di infettarsi non vale solo per il Covid-19, ma per tutte le malattie infettive. Anche in un paziente che non ha una riduzione di efficienza del sistema immunitario, una eventuale infezione può avere un decorso più difficoltoso o grave sulla base del grado e del tipo di tumore che lo affligge, proprio a causa di una condizione di salute già fragile e non ottimale. Verosimilmente, maggiore è la gravità del tumore sottostante e maggiore sarà il rischio di andare incontro a un decorso dell’infezione da Covid-19 più grave rispetto a una persona sana».
«L’andamento clinico della malattia può essere peggiore nei pazienti più anziani e in quelli affetti da importanti malattie croniche o debilitanti, incluse le malattie oncologiche. Per quanto riguarda i malati di tumore, non sappiamo se il fatto stesso di essere malati esponga a un rischio più alto di contrarre l’infezione rispetto a soggetti non ammalati di tumore. Tuttavia, è presumibile che sia così per i pazienti che, a causa del tumore, sono sottoposti a trattamenti come la chemioterapia che possono indurre immunosoppressione.
Inoltre, anche in assenza di studi scientifici sulle probabilità di contrarre il virus durante il trattamento di immunoterapia o immunosoppressione e di dati certi sulla possibilità della chemioterapia di incidere in maniera negativa sul quadro clinico dell’infezione, nei soggetti contagiati «È ragionevole pensare che – conclude Perrone -, in presenza di immunosoppressione da chemioterapia, ci possano essere più complicanze e che il loro andamento clinico possa essere peggiore».
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Per approfondimenti: Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro e The Lancet Oncology
Il sonno disordinato, quello sbagliato. Tra le cattive abitudini degli italiani (ma non solo), c'è proprio quella di tirare fino a tardi o, per gli amanti della notte, fino al mattino. Infatti, andare a dormire tardi, incide negativamente sulla nostra salute. Dall'umore alla lucidità mentale, dall'energia alle performance. Il sonno è indispensabile e quando scarseggia ne paghiamo le conseguenze e se, nel breve periodo, riguardano soprattutto benessere fisico e psichico, nel lungo periodo, danneggiano anche il cuore. Ebbene sì, dormire poco o male ci rende vulnerabili e maggiormente predisposti e soggetti a ictus e infarti. E non è finita qui. Tra le conseguenze negative, della carenza di sonno, possiamo annoverare il diabete di tipo 2, l'obesità, poichè quando si dorme meno si tende solitamente a mangiare di più e si bruciano le calorie con maggiore difficoltà, la sindrome metabolica e la perdita dell'elasticità cutanea. Già teorizzato lo scorso anno da ricercatori americani dell’Università del Colorado di Boulder. Gli studiosi avevano determinato che chi dorme meno di 7 ore a notte presenta livelli inferiori di tre microRNA nel sangue, si tratta di piccole molecole che regolano e giocano un ruolo importante nel consentire il corretto funzionamento dei vasi sanguigni. La conferma a questa teoria, arriva dal nuovo studio, pubblicato su Journal of the American College of Cardiology (JACC) che dimostra come il sonno irregolare sia dannoso per il cuore e per i vasi.
Per insonnia non s'intende «solo un disturbo di salute, ma contribuisce anche in modo indipendente al rischio di malattie infettive e infiammatorie inclusa la depressione, così come la mortalità […] Per le concentrazioni circolanti d’interleuchina (IL)-6, ad esempio, ci sono due picchi, alle ore 19,00 e di nuovo alle ore 5,00, e questi picchi sembrano essere guidati da processi circadiani. […] quando sono imposti disturbi del sonno a questo ritmo circadiano, l’aumento notturno di IL-6 viene ritardato, […] la privazione totale del sonno notturno l’aumento di IL-6 di circa la metà. […] l’aumento notturno del fattore di necrosi tumorale TNF sembra essere guidato principalmente da fattori circadiani. […] vi è evidenza di un sorprendente aumento notturno della capacità dei monociti di rispondere alla sfida […] aggiunge l’idea che il sonno notturno favorisce la difesa immunitaria in una sfida microbica. […] prolattina. […] ormoni neuroendocrini sono noti per migliorare la proliferazione e la differenziazione delle cellule T e per promuovere l’attività delle citochine di tipo 1. […] perdita di sonno aumenta progressivamente oltre 4 notti, vi è evidenza di un aumento cumulativo della proteina C-reattiva (CRP) […]» si legge nel libro di Adriano Panzironi, Vivere 120 anni: le ricerche. Lo studio, infatti, conferma la correlazione tra le concentrazioni di interleuchine e le fasi circadiane e quindi, di conseguenza il bilanciamento Th1 e Th2. «Ad esempio - aggiunge - l’interleuchina IL6 ha due picchi alle ore 19,00 e di nuovo alle ore 5,00».
La melatonina è una molecola naturale antichissima, infatti, la sua evoluzione risale a 3 miliardi di anni fa. É prodotta dalla ghiandola pineale (epifisi), allocata nell’encefalo, a forma di pigna (di 5/9 millimetri di altezza) e presente in qualsiasi organismo (animale o vegetale). La sua principale funzione è quella di regolare il ritmo circadiano, laddove l’alternarsi del giorno e della notte inducono variazioni dei parametri vitali. Vediamo ora come avviene questo processo: la ghiandola pineale è sincronizzata con i ritmi circadiani, modificandosi in base alle variazioni di luminosità del giorno e della notte o al cambio di stagione. Il precursore della melatonina è il triptofano (un aminoacido essenziale, d’assumere per via alimentare), trasformato in serotonina per opera dell’enzima idrossindolo-metil-transferasi (Homt), presente nella ghiandola pineale. La sua secrezione inizia con l’oscurità (livello iniziale da 5 picogrammi/ml), aumentando da 20 a 30 picogrammi/ml fino alle ore 20; superando i 30 picogrammi/ml nella notte. Il picco di 60/70 picogrammi/ml è raggiunto dalle 2 alle 3 del mattino. I livelli di melatonina tornano poi a scendere fino alle 7 del mattino. La sua funzione principale è quella di regolare la presenza degli altri ormoni (cortisolo, Gh, testosterone, etc.) rendendo possibile il fenomeno della riparazione tessutale del nostro corpo. La melatonina accompagna il nostro sonno nella fase Rem (quello profondo), inibisce il cortisolo e stimola la produzione dell’ormone del Gh e del testosterone. Senza tale azione il nostro corpo perderebbe la sua funzione di riparazione, compresa quella cellullare e del Dna che subisce 10.000 insulti al giorno, da parte dei “radicali liberi”. Tali complessi meccanismi sono stati oggetto di studio da parte di molti ricercatori, tra i quali ricordiamo il dottor Pierpaoli che esamina gli effetti della melatonina da oltre 30 anni.
Non solo per il sonno. Difatti, le funzioni della melatonina sono diverse, alcune di queste vengono elencate da Adriano Panzironi in Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti. Potente antiossidante con azione di pulizia nei confronti dei radicali liberi, (anche più efficace delle vitamine C, E e del Beta-carotene). «La sua azione protettiva è rivolta alle membrane cellulari, alle lipoproteine Ldl (contro l’ossidazione), alle cellule dell’endotelio arterioso, ai neuroni celebrali (contro l’ischemia, dovuta a stress o alcool). Inoltre, è utilizzata per alleviare i disturbi dovuti al cambio di fuso orario (sindrome da jet lag) migliorando l’adattabilità dei propri ritmi biologici all’ora locale». Utilizzata anche per migliorare i sintomi della menopausa. Difatti, se associata al progesterone, inibisce l’ovulazione. Diversi studi hanno confermato che determinati livelli di melatonina, nel flusso sanguigno, soprattutto nelle ore notturne, diminuiscono le probabilità d’infarto. «Tale effetto è dovuto alla sua azione vasodilatatrice (contrasta i radicali liberi che inibiscono l’ossido nitrico) ed antiaggregante piastrinica». Contribuisce alla riduzione di colesterolo, aumentando il metabolismo dei grassi.
Altresì, rafforza il sistema immunitario, innescando un processo inibitorio del cortisolo. Difatti, «durante il picco delle 2-3 di notte, è stato riscontrato un aumento significativo delle cellule del sistema immunitario. Risulta efficace contro i microbi, i virus e le cellule neoplastiche. - Alcuni ricercatori dell’Ospedale Oncologico di Milano hanno dimostrato l’attività inibitoria della melatonina, sulla crescita delle cellule tumorali del cancro alla prostata. Nell’Università di New Orleans è stata riscontrata un’azione inibitoria anche verso altri tipi di neoplasie, quali il cancro ai polmoni, all’utero ed alle mammelle. La melatonina prolungherebbe anche la sopravvivenza dei malati terminali (migliorando nel contempo la qualità della vita). Difatti da esperienze riportate dal professor Paolo Lissoni responsabile della divisione Oncologica dell’Ospedale di Monza, l’utilizzo della melatonina ha aumentato del 16% le regressioni tumorali (di solito incurabili) su tumori gastrointestinali, polmonari e nei mesoteliomi. - Somministrata durante la chemio e la radioterapia, ha ridotto gli effetti collaterali, di solito devastanti. E, per dovere di cronaca, va detto che il professor Di Bella, per primo indagò sull’azione antitumorale della melatonina ed infatti la inserì nel suo protocollo di cura».
Tuttavia, gli anni passano per tutti e con l'avanzare dell'età diminuisce la produzione di melatonina. Vediamo come. «La ghiandola pineale - spiega Adriano Panzironi - con il passare degli anni tende a calcificarsi, causando già a 45 anni, circa il 50% di minore produzione di melatonina. Il calo raggiunge addirittura l’80% superati i 70 anni di età. Un altro nemico giurato dell’ormone melatonina è il cortisolo (chiamato 'ormone dello stress'). Solo quando il cortisolo cala nel sangue a livelli basali, la ghiandola pineale può secernere la melatonina. Lo stress, i pensieri ricorrenti prima di dormire, impediscono di attivare la melatonina e dormire sonni profondi. Un ulteriore nemico della ghiandola pineale è la luce. Difatti quando dormiamo davanti al televisore, o semplicemente con delle luci in camera da letto, non attiviamo la melatonina, disertando l’appuntamento con un sonno ristoratore (si consiglia di coprire anche le luci a led, ad esempio quelle delle radiosveglie). Altri inibitori della melatonina sono l’alcool, il fumo, il caffè».
Come rimediare? Iniziamo subito a correggere le cattive abitudini e a recuperare le ore di sonno perse. Ogni adulto dovrebbe dormire circa 7-9 ore a notte. Ma se il numero di ore riposate è inferiore, correte ai ripari: iniziate a ridurre la quantità di caffeina, e quindi, degli alimenti che la contengono, nell'arco della giornata, limitate l'esposizione a smartphone, pc e tablet, evitate l'utilizzo dei 'nemici del riposo' almeno un'ora prima di andare a dormire, preferire pasti leggeri così da evitare i fastidiosi episodi di indigestione. Dulcis in fundo, scegliamo la giusta integrazione per regolarizzare e facilitare la fasi del sonno.
Coronavirus o influenza stagionale? È questa la simil influenza che sta interessando l'intera popolazione. Secondo quanto riportato nel Manuale MSD, il Coronavirus della sindrome respiratoria acuta grave viene trasmesso da persona a persona tramite stretto contatto personale. Si pensa che sia trasmesso più facilmente dalle goccioline respiratorie emesse quando una persona infetta tossisce o starnutisce. La diagnosi della sindrome respiratoria acuta grave viene fatta clinicamente e il trattamento è di supporto. Il coordinamento di pratiche per un controllo rapido e rigido delle infezioni ha aiutato a controllare rapidamente l'epidemia che scoppiò nel 2002. Sebbene non siano stati segnalati nuovi casi dal 2004, non deve essere considerata debellata perché il virus causale ha una riserva animale dalla quale potrebbe teoricamente riemergere.
La prima lampante differenza tra l’influenza e il coronavirus è che la prima ha un vaccino e il secondo no. Perché «l’influenza è conosciuta da cento anni, il coronavirus da due mesi quindi parzialmente», spiega il virologo Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova e presidente della Società italiana di terapia anti-infettiva (Sita). «E in Italia il coronavirus è presente da almeno quattro settimane». La conseguenza più ovvia è che gli scienziati come lui, in questi giorni, leggono - perché hanno gli strumenti - i dati di Wuhan, epicentro della malattia in Cina, per capire le caratteristiche del Covid-19.
La principale differenza con l’influenza è che quando siamo di fronte al Coronavirus le difficoltà respiratorie si manifestano «subito, nei primi giorni». Rispetto all’influenza il coronavirus, spiega Bassetti, provoca più facilmente complicanze a carico del sistema respiratorio come «polmoniti gravi e polmoniti interstiziali». Sempre Wuhan dà le prime risposte: «il numero di vittime lì sta progressivamente dimunuendo - continua il virologo - perché i medici stanno imparando a conoscere meglio il virus, stanno imparando come devono ventilare i pazienti» per superare la crisi respiratoria.
In base alle informazioni finora disponibili, l’influenza e il coronavirus hanno un’altra cosa in comune: «entrambi i virus possono essere trasmessi anche in fase pre-sintomatica» spiega Bassetti, cioè nel periodo di incubazione del virus quando non si sono ancora manifestati i sintomi. Le vie di trasmissione sono note: il contatto stretto con una persona malata, si legge nelle FAQ del Ministero della Salute. La via primaria sono le goccioline del respiro delle persone infette trasmesse con saliva, tosse, starnuti, e contatti diretti personali: in primis le mani non lavate che poi toccano bocca, naso e occhi. In rari casi il contagio può avvenire attraverso contaminazione delle feci. Quello che ancora non sappiamo è se il coronavirus, come l’influenza, perderà aggressività con il caldo e le temperature elevate. Su questo non vi è certezza, spiega Bassetti, e non ve ne può essere visto che il virus circola, o almeno è stato tracciato, da pochi mesi. Non è detto insomma che il coronavirus, come l’influenza, sia stagionale.
Si legge nelle FAQ del ministero che i sintomi di influenza e coronavirus sono simili: «le persone con il virus Covid19, l'influenza o il raffreddore, tipicamente sviluppano sintomi respiratori come febbre, tosse e naso che cola». Abbiamo appena superato il picco dell’influenza stagionale, in questi giorni di forte preoccupazione chi ha mal di gola, raffreddore o sintomi influenzali deve richiedere il tampone per coronavirus? «No - risponde Bassetti - se non si è stati a contatto con uno dei due focolai dell’epidemia in Italia (nel Lodigiano e nel Padovano ndr), al momento non ha senso fare il tampone». Allo stesso modo, spiega Bassetti, se un medico ha un paziente con polmonite da pneumococco, non farà il tampone per coronavirus perché sa già qual è la causa. Nel caso di sospetto coronavirus, inoltre, è necessario effettuare esami di laboratorio con il tampone per confermare la diagnosi.
Una differenza tra il numero di contagiati da influenza e quello da coronavirus non si può fare, non solo perché nel primo caso chi vuole si può vaccinare e nel secondo no, non solo perché il coronavirus è presente nel nostro Paese «da circa quattro settimane» stima Bassetti e l’altro è ben conosciuto ma anche perché «In Italia in questo momento siamo più proattivi, abbiamo cambiato i metodi di rilevamento e stiamo cercando il coronavirus, stiamo facendo migliaia di tamponi e quindi il numero di contagiati sta salendo: non sono sicuro che i colleghi francesi o tedeschi, ad esempio in Baviera c’è stato un cluster di coronavirus, abbiano fatto la stessa cosa» osserva Bassetti.
Come l’influenza anche il coronavirus può colpire in modo più grave le stesse categorie di soggetti vulnerabili: «persone con malattie croniche, gli anziani, gli immunodepressi, i cardiopatici, i diabetici. Ma nell’85% dei casi la malattia colpisce in maniera blanda, chiarisce Bassetti, solo un 10% dei casi è grave» ma se si interviene in modo tempestivo ci sono buone possibilità di guarigione. Al coronavirus dobbiamo abituarci proprio come all’influenza, in un certo senso entrerà nella nostra quotidianità. Si parla di mesi non di settimane, nella speranza che arrivi presto un vaccino. «Il coronavirus sarà inserito nel work-up diagnostico delle polmoniti», spiega Bassetti «cioè quando un medico avrà davanti una persona con la polmonite, farà anche il controllo per coronavirus».
Spesso in questi giorni nei dibattiti, si fa molta confusione tra tasso di letalità e tasso di mortalità. Il dottor Bassetti spiega bene la differenza: «Il tasso di letalità è il rapporto tra numero di infettati e morti, il tasso di mortalità riguarda l’intera popolazione quindi anche i non contagiati». L’indice di letalità fuori dalla Cina è tra lo 0,4 e 0,8 per cento, calcola Bassetti.
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Fonte: Il Sole 24 Ore
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La vitamina D svolge un’azione modulante nei confronti dell’infiammazione e di rinforzo del sistema immunitario, agisce in realtà come un ormone che regola vari organi e sistemi e l'integrazione diventa di particolare importanza. Dal diabete all'infarto, dall'Alzheimer all'asma passando poi alla sclerosi multipla, quando diversi tipi di malattie sono associate alla carenza di Vitamina D. Questo è quanto riportato in una ricerca della Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro. Fondamentale, quindi, oltre a fissare il calcio nelle ossa anche a prevenire l’osteoporosi negli anziani e il rachitismo nei bambini.
“In studi di laboratorio la vitamina D ha dimostrato di svolgere attività potenzialmente in grado di prevenire o rallentare lo sviluppo del cancro, infatti, frena la crescita delle cellule, ne favorisce la differenziazione e la morte programmata (apoptosi), e riduce la formazione di nuovi vasi (angiogenesi)”, spiega l’AIRC nel documento. Da non sottovalutare poi il fattore stagionale. Ebbene si, perché se in estate, la vitamina D viene prodotta dalla pelle quando esposta alla luce solare, in inverno, questo processo non avviene ed è quindi necessario seguire una dieta a maggior contenuto di vitamina D (ad esempio aumentando il consumo di alimenti come olio di fegato di merluzzo o il tuorlo d’uovo). E nel caso di un’eventuale carenza di vitamina D, la stessa, andrebbe assunta per mezzo di integratori soprattutto quando è dimostrata la carenza nel sangue.
“La vitamina D – spiega in un approfondimento l’Humanitas Research Hospital – è una vitamina liposolubile, viene quindi accumulata nel fegato e si presenta sotto due forme: l’ergocalciferolo, che viene assunto con il cibo, e il colecalciferolo, che viene sintetizzato dal nostro organismo. La vitamina D è scarsamente presente negli alimenti (alcuni pesci grassi, latte e derivati, uova, fegato e verdure verdi). La vitamina D viene in grande parte accumulata dal nostro organismo attraverso l’esposizione ai raggi solari e va integrata in situazioni particolari”.
Secondo quanto riportato, ad esempio, in un documento pubblicato sul British Journal of Clinical Pharmacology: “Nonostante tutte le controversie che ruotano intorno alla vitamina D, il suo ruolo essenziale nella salute dell’osso è noto da oltre un secolo e, generalmente, quando si riscontra uno stato di ipovitaminosi D si interviene somministrando il colecalciferolo o altri precursori della vitamina D”, spiega Andrea Giustina, professore ordinario di Endocrinologia al San Raffaele di Milano e presidente Gioseg (Glucocorticoid Induced Osteoporosis Skeletal Endocrinology Group). “Trattandosi di un ormone – continua l’esperto -, e non di una vitamina come erroneamente si crede è fondamentale quindi accertarne il deficit, definire la gravità della carenza nel singolo individuo. Questo ci permette di intervenire in forma personalizzata”. La vitamina D “è un ormone strategico per la resistenza dell’osso in quanto un osso non correttamente mineralizzato è un osso poco resistente. La carenza di vitamina D determina appunto una ridotta mineralizzazione ossea e quindi la predisposizione a sviluppare fratture scheletriche” conclude Andrea Giustina.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
“La carenza di vitamina D – continuano gli esperti dell’Humanitas Research Hospital – incide in modo negativo sulla calcificazione delle ossa con effetti che vanno dal rachitismo per i bambini alle deformazioni ossee di varia natura e alla osteomalacia, che si presenta quando la struttura ossea esternamente è integra ma all’interno delle ossa si registra un contenuto minerale insufficiente. La mancanza di vitamina D rende inoltre i denti più deboli e vulnerabili alle carie”. “Inoltre, la vitamina D, viene ‘dispersa’ anche a causa di comportamenti poco sani come l’abuso di alcol e il consumo di sostanze stupefacenti. Anche, l’uso di certi farmaci può influire sulla quantità di vitamina D custodita dal nostro organismo” concludono i ricercatori Humanitas .
Vediamo ora i principali segnali di deficit da vitamina D. Ecco alcuni sintomi indicativi di questa carenza:
1) Eccessiva sudorazione: soprattutto alla testa e alle mani, è uno dei principali sintomi di deficit di vitamina D.
2) Depressione, stanchezza, debolezza: oggetto di una ricerca del 2006 per valutare gli effetti della vitamina D sulla salute mentale. Dallo studio è emerso che coloro che avevano bassi livelli di vitamina D erano più inclini a manifestare depressione, poiché, la serotonina, conosciuta come “ormone del buonumore”, aumenta con l’esposizione alla luce solare.
3) Problemi intestinali: in caso di patologie intestinali che danneggiano l’assorbimento dei grassi, è molto probabile una carenza di vitamina D. I principali disturbi intestinali che danneggiano l’assorbimento dei grassi sono morbo di Crohn e celiachia.
4) Sovrappeso: un aumento del peso corporeo, determina una maggiore necessità di vitamina D rispetto al fabbisogno di un normopeso, pertanto in caso di sovrappeso le probabilità di carenza sono più elevate.
5) Dolori alle ossa: dipendono spesso dalla carenza di vitamina D.
6) Età avanzata: l’avanzare dell’età determina una minore produzione di vitamina D, che pertanto andrebbe integrata in altro modo.
7) Pelle scura: gli individui con la pelle scura tendono ad assorbire minore quantità di vitamina D, aumentando di rischi di carenza.
Infine, la vitamina D è di estrema importanza per rafforzare il sistema immunitario contro virus e problematiche stagionali come riportato di recente in questo video su YouTube dal dott. De Mari.
Sono oltre mille al giorno i casi di tumore in Italia e il 40% può essere prevenuto con uno stile di vita corretto e diagnosticato tempestivamente, prima, cioè, che si manifesti a livello clinico. Questi sono i dati presentati dall'Associazione Italiana Registri Tumori (Airtum). Nel 2019, in Italia, i tumori gastrointestinali hanno colpito circa 89.400 persone di cui 49.000 colon-retto. La diminuzione maggiore, nello specifico, 2.800 negli ultimi 5 anni (2014-2019), rispetto agli anni precedenti, si registra soprattutto nel cancro del colon-retto grazie al fondamentale ruolo della prevenzione. Ancora dati alla mano, un'altra ricerca, riportata nel libro di Adriano Panzironi, Vivere 120 anni: le ricerche, dimostra che «il cancro colorettale è la terza causa principale di morte per cancro negli Stati Uniti, con circa 143.000 nuovi casi diagnosticati e 52.000 decessi registrati ogni anno. Sebbene l'eziologia del cancro al colon sporadico rimanga in gran parte indeterminata, la dieta e altri fattori di rischio modificabili giocano indubbiamente un ruolo significativo».
«Cerchiamo di chiarire ulteriormente la relazione tra carico glicemico (GL) e tumore del colon in uno studio caso-controllo incidentale basato sulla popolazione del Kentucky, caratterizzato da un'alta incidenza di cancro del colon-retto. L’elevato GL provoca un aumento dei livelli circolanti d’insulina e fattori di crescita simili all'insulina (IGF). È stata proposta l'ipotesi dell'iperinsulinemia-cancro del colon, che implica che una dieta ricca di energia e carboidrati porta all'insulino resistenza, promuovendo così la carcinogenesi del colon. Diversi studi caso-controllo hanno riportato un'associazione significativa tra aumento del rischio di tumore del colon-retto, alto indice glicemico (GI) e GL dietetico. Un'alta dieta GL è stata ipotizzata per aumentare il rischio di cancro al colon. In effetti,il nostro studio ha rivelato un aumento del 61% nel rischio di cancro al colon confrontando il più alto rispetto al quartile più basso di GL dietetico tra i partecipanti. Il rischio di sviluppare il cancro del colon-retto aumenta con l'età, con gli uomini a più alto rischio rispetto alle donne. È interessante notare che abbiamo riscontrato un aumento duplice del rischio di cancro associato a una dieta GL elevata nei partecipanti più anziani, ma solo un aumento modesto e non significativo del rischio nei partecipanti più giovani» spiega la ricerca.
Tra i principali alleati in questa lotta, i flavonoidi. Infatti, mangiare frutta e verdura è fondamentale. Già dimostrato negli studi condotti nell'ultimo ventennio, i ricercatori hanno scoperto di recente, in che modo, questi composti naturali di frutta e verdura, intervengono nella prevenzione del cancro. Ed è proprio l’acido 2,4,6-triidrossibenzoico, uno dei composti prodotti quando il corpo metabolizza o scompone i flavonoidi, che inibisce la crescita delle cellule tumorali in condizioni specifiche. Quindi, per prevenirlo forse basterà ridurre drasticamente nella dieta i carboidrati, cioè zuccheri e amidi. Da non trascurare poi, il fattore ereditario. Sappiamo bene, infatti, che il tumore al colon può avere una predisposizione genetica: può insorgere con maggiore frequenza in chi ha consanguinei con lo stesso tumore. Ma perché il tumore insorge in alcuni soggetti geneticamente predisposti e non in altri? Qual è la concausa non genetica? Qui i ricercatori si dividono: alcuni davano la colpa al microbioma dell'intestino, cioè la popolazione di batteri che lo colonizza; altri allo stile di vita e, in particolare, all'alimentazione. Bene, hanno ragione entrambi, la continua interazione fra genetica e ambiente viene confermata da Alberto Martin, immunologo dell'Università di Toronto, in Canada, sulla rivista scientifica Cell.
Almeno, questo è ciò succede nei topi, mammiferi onnivori come l'uomo. E se gli studi di Martin saranno confermati nell'uomo, chi teme il tumore al colon avrà finalmente a disposizione non una, ma due strategie per prevenirlo: ridurre la quota di carboidrati nell'alimentazione (zucchero, amidi, eccetera...) e selezionare accuratamente i batteri che vivono nel suo intestino. È noto che il tumore del colon è spesso associato a due mutazioni: la mutazione del gene APC che, nella sua forma non mutata, agisce come freno allo sviluppo anomalo delle cellule; e la mutazione del gene MSH2, che invece è un manutentore, cioè ripara i danni al materiale genetico. Di solito, però, la mutazione di un gene riparatore predispone a un maggior rischio per tutti i tumori: in questo caso invece la mutazione predispone all'aumento del solo tumore del colon e questo a Martin sembrava incomprensibile.
Un fattore, invece, che favorisce l’insorgenza del cancro del colon-retto è dovuto allo squilibrio nel microbiota intestinale, meglio conosciuto come disbiosi. «Tra i fattori di rischio spiccano familiarità, età e alcune patologie infiammatorie intestinali croniche - spiega in un'intervista al Corriere della Sera, Armando Santoro, direttore dell’Humanitas Cancer Center di Milano e direttore scientifico dell’Accademia Nazionale di medicina -. La maggior parte dei tumori deriva dalla trasformazione in senso maligno di polipi intestinali. I polipi in genere non provocano nessun sintomo e rimangono per anni o decenni sulle pareti intestinali senza che ce ne si accorga. Talvolta possono dare perdite di sangue nelle feci che meritano un approfondimento diagnostico con la colonscopia. Non tutti i polipi, però, sono a rischio di malignità. Lo sono solo quelli definiti adenomatosi . Sedentarietà, eccessivo consumo di grassi animali, sovrappeso e obesità, fumo e abuso di alcolici sono tutti fattori associati a un aumentato rischio di ammalarsi. La familiarità resta comunque un fattore importante che deve indurre a fare controlli endoscopici anche prima dei 45-50 anni».
Sempre nell'intervista, l'esperto fornisce alcuni suggerimenti per prevenirlo. «Le regole sono: aumentare frutta e verdura, ridurre pane e cereali raffinati, patate, carne rossa, dolci e zucchero. E poi attività fisica regolare e stop a sigarette e alcol. Fondamentale è lo screening. La ricerca di sangue occulto nelle feci è consigliata a tutti dopo i 45 anni. La positività al test non indica di per sé la presenza certa di un tumore, perché può anche essere spia di altri problemi (per esempio emorroidi), però è un segnale che va approfondito. La raccomandazione è ricorrere alla colonscopia, esame che permette sia di individuare e rimuovere eventuali lesioni pretumorali, sia di evidenziare lesioni tumorali che vengono diagnosticate in modo corretto attraverso la successiva biopsia. In alcuni casi si può ricorrere alla cosiddetta colonscopia virtuale, basata sull’utilizzo della Tac. Si tratta di una tecnica di studio non invasiva che però non consente la rimozione di eventuali lesioni durante la sua esecuzione».
È qui che entrano in gioco i batteri e i carboidrati. Per individuare le loro responsabilità Martin ha usato topi predisposti al tumore perchè portatori delle stesse mutazioni che affliggono l'uomo. Li ha prima trattati con alte dosi di un cocktail di antibiotici (ampicillina, metronidazolo, neomicina e vancomicina) fin dalla gravidanza, riducendo così di 10 mila volte i batteri presenti nel loro colon. E già con questo intervento il ricercatore aveva ottenuto due risultati: il numero dei polipi, che di solito precorrono l'insorgere del tumore, si era ridotto di 2-6 volte, e i polipi stessi, osservati al microscopio, erano più benigni del solito. Il metronidazolo in particolare era l'antibiotico che più influiva sul numero dei polipi senza alterare troppo l'abbondanza del microbiota, a riprova che non tutti i batteri contribuiscono in ugual misura allo sviluppo del tumore del colon. Ma altri ricercatori avevano notato che lo sviluppo dei polipi nei topi non avviene dalla nascita, ma tra la terza e la sesta settimana di vita, quando vengono svezzati e passano all'alimentazione adulta. Questi studi hanno consentito a Martin di concentrare l'attenzione sulla dieta. Altri studi avevano messo i carboidrati sul banco degli imputati: uno in particolare, pubblicato a novembre del 2012 da un altro giovane ricercatore, Jeffrey Meyerhardt del Dana Farber Cancer Institute di Boston, Massachusetts, aveva dimostrato che il consumo di carboidrati influenza il rischio di ricadute nei pazienti con tumore al colon avanzato.
Per verificare l'ipotesi, Martin ha diviso i topi in due gruppi: a uno ha dato la solita dieta nella quale il 58% delle calorie era fornito da carboidrati; nella dieta dell'altro gruppo la quota calorica fornita dai caroidrati non superava il 7% del totale. La dieta con pochi carboidrati ha ridotto il numero di polipi in modo analogo a quanto avevano fatto gli antibiotici, e anch'essa ha agito sul microbiota: pur non alterandone l'abbondanza, come gli antibiotici, ne ha cambiato la composizione riducendo la presenza dei batteri che metabolizzano i carboidrati e produttori di acido butirrico, come i Firmicutes e i Clostridia. E pare che il brutto ceffo di questa storia sia proprio lui, il butirrato: quando i ricercatori hanno somministrato questo acido grasso ai topi trattati con antibiotico, sono aumentati sia la proliferazione cellulare sia i tumori nel piccolo intestino. Lo studio sembra insomma dimostrare che il cancerogeno sia il butirrato, metabolita prodotto dai batteri nalla digestione dei carboidrati, e che proprio lui induca l'abnorme proliferazione delle cellule nei topi geneticamente predisposti al tumore del colon. Tanto che Martin conclude: «Il nostro studio suggerisce che sia riducendo i carboidrati della dieta, sia cambiando la composizione della comunità batterica intestinale si potrebbe ottenere una riduzione del rischio di tumore al colon in chi è ereditariamente predisposto a questo tumore».
Fonte: Focus
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Alla trasmissione Elisir in onda su Rai 3 domenica 11 novembre si parla di ricerca sul cancro e prevenzione. Tra le risposte date per la prevenzione contro il cancro, il medico in studio suggerisce l’aspirina. Rabbrividisco!Ebbene, in primo luogo vorrei sottolineare che l’aspirina non è un integratore. Mentre l’acido salicilico è un composto naturale, presente in piante come i salicilati (ad es. il salice bianco), l’acido acetilsalicilico è un prodotto di sintesi che non esiste in natura. Ne possiede il brevetto la Bayer…Ti chiederai cosa c’entra chi possiede il brevetto dell’aspirina: tra breve tutto ti sarà chiaro. Dunque, l’aspirina è un farmaco e i rischi connessi alla sua assunzione sono molto pericolosi e troppo spesso sottovalutati. Cari dottoroni che andate a fare bella mostra a “Elisir”, non sarebbe meglio ricordare i rischi e gli effetti collaterali connessi all’assunzione anche di minime quantità di aspirina? Sono ben 50 gli effetti indesiderati dell’aspirina, anche a bassi dosaggi, spesso irreversibili. Si va dalla distruzione di alcuni neuroni, per cui si verifica la perdita dell’udito / acufene, all’ulcera gastrica; e poi ancora:
- sindrome di Reye (danno encefalico da acetilsalicilico),- emorragie intestinali,- danni gastroinestinali,- infiammazione delle mucose;- si aggravano i disturbi per gli asmatici;- ictus, attacco cardiaco,- emorragia cerebrale,- emorragie,- mortalità per influenza,- Morbo di Crohn,- Helicobacter Pylori,- Linfoma di Hodgkin’s, solo per citare i principali effetti collaterali.
Adesso rispondo alla domanda: cosa c’entra la Bayer? Lo studio secondo il quale l’aspirina avrebbe effetti protettivi contro il cancro è stato condotto dal professor Peter Rothwell presso l’Unità di ricerca sulla prevenzione dell’ictus dell’Università di Oxford. Secondo lo studio, prendendo un’aspirina al giorno si può ridurre il rischio di cancro entro tre anni dall’inizio della terapia. Solo due anni prima, lo stesso professor Rothwell ha pubblicato uno studio in cui suggeriva che i risultati si sarebbero visti a distanza di 10 anni. Veri e propri miracoli anticipati di 7 anni! Eppure nel 2007 lo stesso professor Rothwell ha pubblicato uno studio in cui l’aspirina è stata una delle principali cause di ictus negli anziani. Il professor Rothwell, insieme ad alcuni suoi colleghi, il Dr. Chan e il Dr. Moyer, responsabili della diffusione di notizie e studi taroccati circa l’aspirina, sono nel libro paga di alcune aziende farmaceutiche che hanno interesse a vendere agenti antipiastrinici: AstraZeneca, Bayer, Boehringer Ingelheim, Sanofi-BMS e Servier. Questo conferma ancora una volta che il cancro è un business e le case farmaceutiche fanno di tutto e di più per guadagnarci! Nel frattempo noi cosumatori paghiamo 2 volte: di tasca e di salute.
Detto questo, l’aspirina può prevenire i tumori? NO! Questo è un consiglio orribile! Per questo la Bayer & company e i medici-ricercatori compiacenti meriterebbero una mega denuncia! Nel 2004 il Journal of National Cancer Institute ha pubblicato un’approfondita indagine sugli effetti a lungo termine dell’aspirina, condotta presso l’ospedale di Boston. Ebbene, allora si è scoperto che l’uso prolungato può innescare lo sviluppo del cancro. Sulla base dei dati raccolti dai reparti infermieristici, a partire dal 1980, il gruppo di studio di Boston ha scoperto che gli utenti regolari di aspirina da due o più compresse a settimana avevano il 58 per cento di probabilità di sviluppare il cancro al pancreas. Coloro che assumevano più di 14 aspirine a settimana avevano l’86 per cento di probabilità di sviluppare il cancro al pancreas. “I nostri risultati non supportano un effetto protettivo degli analgesici (aspirina) per il rischio di cancro al pancreas”, ha scritto il dottor Schernhammer. “Piuttosto, l’aspirina sembra aumentare il rischio di cancro al pancreas, dopo lunghi periodi di utilizzo.” Sulla base delle prove raccolte dall’ospedale di Boston, l’aspirina sembra essere un promotore del cancro. Esistono delle alternative? Un’alternativa efficace è oggi rappresentata da alcuni bioflavonidi in grado di mantere la fluidità del sangue e ridurre le infiammazioni senza i rischi connessi all’aspirina: le OPC. Ti invito a leggere gli effetti dell’aspirina naturale da corteccia di pino e semi d’uva.
Fonte: ComeMigliorare.com
La medicina ufficiale riconosce l’importanza delle vitamine nella ricerca di cure contro l’epidemia dell’HIV e dell’AIDS. In tutto il mondo, sempre più gruppi di ricerca stanno seguendo la ricerca scientifica e naturopatica che è al centro del lavoro di formazione dell’Alleanza dr Rath per la Salute. Il numero di pubblicazioni scientifiche sull’importanza dei micronutrienti nella lotta contro le malattie comuni più diffuse è in rapida crescita. Nel novembre del 2013, la rivista medica americana Journal of the American Medical Association (JAMA) ha pubblicato uno studio che prova come nei soggetti sieropositivi, i micronutrienti inibiscono la progressione dell’infezione e riducono il rischio di decesso per AIDS. La rivista ” Journal of the American Medical Association” non è una rivista qualunque. Si colloca bensì tra gli organi più rinomati ed importanti del mondo medico. Uno studio pubblicato su "Journal of the American Medical Association ” forma l’opinione in tutto il mondo. I medici e gli scienziati responsabili di questo studio – compresi centri rinomati come l’Università di Harvard, l’Università di Miami e l’Università di Johns Hopkins – non sono sospettati di corteggiare la ricerca naturopatica. Il riconoscimento dell’importanza dei micronutrienti nel rafforzamento del sistema immunitario e nella lotta contro la sindrome da immunodeficienza AIDS, non è una coincidenza. Indica invece che questi risultati scientifici non possono più essere ignorati. Mentre la lobby farmaceutica continua a combattere le vitamine attraverso la medicina, i media e la politica a causa della concorrenza al business farmaceutico multimiliardario, i più saggi della classe medica stanno già prendendo le distanze da queste posizioni insostenibili.
Il dr Rath è stato un pioniere. La pubblicazione sulla rivista Journal of the American Medical Association è particolarmente esplosiva anche per il fatto che tali risultati non sono affatto nuovi. Il ruolo dei micronutrienti nella lotta contro l’epidemia dell’AIDS è stato per anni al centro della ricerca della Fondazione per la Salute Dr.Rath in Sud Africa. I risultati degli studi condotti su quasi un migliaio di persone infette da AIDS erano stati molto incoraggianti. I micronutrienti erano in grado di migliorare notevolmente tutti i sintomi tipici dell’infezione AIDS. Questi risultati straordinari sono già stati riportati su Rath International. Data l’importanza globale di questi risultati, si è voluto pubblicarli il 6 maggio 2005 sul quotidiano più influente, il New York Times. Essendo New York la sede dell’ONU, c’era l’intenzione di fare in modo che i governi di tutto il mondo venissero a conoscenza di questa svolta medica. Successivamente sono stati documentati i risultati sul Commonwealth Health Ministers Yearbook 2007?, l’annuario dei ministri della sanità del Commonwealth britannico che è stato inoltrato a più di cento governi. L’importanza di questi risultati era naturalmente evidente anche alle corporazioni farmaceutiche che avevano individuato nell’epidemia dell’AIDS uno dei mercati più redditizi. Esse hanno commercializzato i loro preparati chemio altamente tossici a milioni di persone affette da sindrome di immunodeficienza, pur sapendo che il sistema immunitario stesso sarebbe stato il primo ad essere distrutto. Per mascherare la frode, hanno distribuito queste sostanze tossiche “chemio” sotto forma di compresse colorate e hanno dato loro il promettente nome di farmaci “Antiretrovirali (ARVs)”. Il business delle sostanze altamente tossiche ARVs è stato fino ad oggi un business multimiliardario. Lo status quo vuole invertire la marcia del tempo Non c’è da stupirsi che i lobbisti dell’industria farmaceutica siano ricorsi ai media e a internet per impedire la svolta della ricerca sui micronutrienti nella lotta contro la sindrome da immunodeficienza AIDS. Vi invito a leggere ancora la pagina Wikipedia sul Dr.Rath e a riconoscere con quale impudenza i fatti sono stati capovolti. E se siete dell’opinione che Wikipedia sia dopo tutto un’enciclopedia online indipendente e “democratica”, allora dovreste riflettere leggendo il sito.
Anche riviste specializzate come Der Spiegel si sono lasciate usare da una copertura unilaterale: sotto il titolo “Tragedia a Città del Capo”, la lotta naturale contro l’epidemia dell’AIDS è stata vilipesa da slogan come “con pillole e opuscoli contro il cancro e i virus”. La risposta del dr Rath all’allora editore del Der Spiegel, Stefan Aust, è documentata qui. Dopo questa campagna diffamatoria contro il lavoro del dr Rath e del suo gruppo di ricerca, ai pionieri della strategia priva di effetti collaterali, efficace e a basso costo contro l’AIDS, risulterà chiara l’importanza della pubblicazione sul quotidiano medico americano del novembre 2013. Significa semplicemente che avevano ragione! Tutte le volte! Milioni di vite avrebbero potuto essere salvate, se le scoperte non fossero state combattute dai media e dai politici, ma fossero state sostenute. L’unico “rimprovero” che puo’ essere fatto è che l’approccio all’AIDS con i micronutrienti avveniva troppo anni prima del tempo.
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Controllare l'infiammazione fa guarire meglio. Lo dimostra nuovamente una ricerca pubblicata su Medical Hypotheses, che individua il recettore proinfiammatorio per l'insulina a livello cerebrale come co-artefice di una peggior prognosi in caso di trauma cranico. In poche parole, se sei infiammato e hai più insulina del dovuto in circolo (le due cose sono per altro spesso correlate), le tue ferite si ripareranno più lentamente, con un maggior rischio di non guarire affatto. Controllare l'apporto di zuccheri (compresi i dolcificanti artificiali), modulandolo ad esempio con l'aggiunta di qualche proteina (carne, uova, noci...) e fibra (cereali integrali al posto di quelli raffinati), riducendo la propria infiammazione generale, è uno strumento potente per aiutare tutti quei processi anche minori di cicatrizzazione e di guarigione.
Non si tratta solo del trauma cranico, ma anche ad esempio della anche piccola ferita chirurgica, del tatuaggio fatto da poco e di qualsiasi processo di guarigione che sia in corso (dall'influenza, alla cistite, all'afta orale). Con poche semplici attenzioni, quali evitare per qualche giorno di assumere quei cibi che creano infiammazione nel singolo (a questo scopo, eseguendo un test come RecAller Program è possibile individuare a quali alimenti si sia sensibili) o anche abbinare carboidrati e proteine, si possono ottenere grossi risultati in termini di velocizzazione della guarigione e miglioramento del risultato. Avere questo tipo di attenzione nel lungo periodo, anche in maniera più delicata, limitandosi ad esempio a un giorno solo di astinenza settimanale dai cibi che più creano infiammazione, significa invece avere un minimo di riparo e una possibilità in più di essere pronti a reagire a qualsiasi tipo di avversità con slancio, prontezza e vigore. Ridurre la propria infiammazione, anche attraverso il controllo degli zuccheri nel sangue significa quindi sì stare meglio, ma anche guarire meglio e vivere meglio, per lasciare più tempo alle cose che lo meritano.
Fonte: Eurosalus