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A confermare le recenti teorie sul rapporto tra coronavirus e la “vitamina del sole” questa volta è una ricerca tutta italiana. Studiata da un gruppo di ricercatori del Policlinico San Matteo la correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19. L’indagine condotta nel corso della prima ondata della pandemia su 129 pazienti ricoverati, di cui 34 hanno perso la vita durante la degenza ospedaliera, ha cercato di individuare la prevalenza dell’ipovitaminosi D, ponendola in correlazione con gli esiti clinici e i marker di gravità della malattia. E anche in questo studio, i ricercatori hanno riscontrato livelli molto bassi di vitamina D nelle persone ricoverate in gravi condizioni, anche se tali livelli non sono risultati associabili a variabili di esito, probabilmente anche in considerazione della criticità del quadro clinico di molti pazienti al momento dell’arrivo in ospedale. La ricerca, approvata dal Comitato etico, ha fotografato, al momento del ricovero, Un fattore, tra gli altri, non trascurabile ovvero la prevalenza della carenza vitaminica che, al di là dell’infezione da SARS-CoV-2 è fondamentale per il benessere del nostro organismo, e quindi, per la nostra salute. Inoltre, è stata anche riscontrata l’associazione tra lo stato della vitamina e gli esiti clinici come polmonite grave, ricovero in reparti di terapia intensiva, seguita poi dalle relative complicazione che hanno portato, in alcuni casi, persino alla morte, oltre a marcatori biochimici di gravità della malattia (come, ad esempio, conta dei linfociti, proteina C-reattiva).

L'importanza della vitamina D - intervista di Adriano Panzironi

Insomma, quello presentato da ricercatori italiani, e pubblicato sulla prestigiosa rivista "Clinical Nutrition", è un lavoro scrupoloso effettuato su un campione più ampio che porta la firma di Riccardo Caccialanza e del suo team. «I livelli sierici di vitamina D sono stati valutati a 48 ore dal ricovero ospedaliero e il 54,3% ne era gravemente carente» spiega in un'intervista al Giorno Riccardo Caccialanza, direttore dell'Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo, che ha firmato il lavoro. «Tuttavia – precisa nell’intervista -, se l’adeguatezza della vitamina D possa prevenire l’infezione da Covid 19 o influenzare gli esiti clinici deve essere ancora valutato rispettivamente da studi di popolazione e studi di intervento dimensionati e progettati, che potrebbero essere molto rilevanti considerato l’andamento della pandemia a livello globale». Tuttavia, il ruolo della vitamina D nel rafforzare le difese immunitarie è assodato da tempo. Difatti «c’è un’importante metanalisi pubblicata sul British Medical Journal nel 2017 che sostiene che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa avevano meno infezioni respiratorie» spiega a Gazzetta Act!ve Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente dell'European Society of Endocrinology.

Italiani più carenti degli scandinavi

L’esperto, già lo scorso marzo, in una lettera al British Medical Journal aveva evidenziato come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria, favorendo anche il rischio di malattie autoimmuni. In quel periodo, era soprattutto il Nord Italia ad essere alle prese con la maggior parte di persone con il Covid e a far schizzare il bilancio dei contagi, catapultando il nostro Paese in cima alla classifica mondiale. Ma perché, nella prima come nella seconda ondata, sono le regioni settentrionali quelle con la peggiore letalità? Tra le varie ipotesi, ad oggi, l’unica confermata: soprattutto al Nord e nei mesi invernali, viene meno l’esposizione al sole, ovvero il mezzo primario per sintetizzare questa preziosa vitamina.

Il 20 marzo abbiamo pubblicato la lettera sul British Medical Journal – si legge nell’intervista a Gazzetta Act!ve - era allora il momento in cui l’Italia sembrava il Paese più colpito, cosa che si è rivelata vera anche nel prosieguo. Si era cercato di capire perché da noi la situazione fosse così drammatica soprattutto dal punto di vista della mortalità. In realtà ancora oggi non abbiamo una spiegazione del tutto convincente. Ma da studi epidemiologici emerge che nella popolazione italiana si hanno bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno, per esempio, i Paesi scandinavi, tanto che questa situazione è nota come paradosso scandinavo: quei Paesi che non conoscono una grande esposizione alla luce solare, fonte principale di vitamina D, la addizionano ai cibi. E così i loro livelli sono in media il doppio di quelli degli abitanti di Paesi del Sud Europa come Spagna, Grecia e, appunto, Italia.

Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D

Dal calcio alle fratture, i fattori critici


Inoltre, è scientificamente dimostrato che gli italiani hanno livelli di vitamina D più bassi di quelli degli scandinavi: «Loro hanno sopperito alla mancanza del sole con integrazioni, noi no» evidenzia presidente della Società Europea di Endocrinologia. La spiegazione è nel cambiamento delle abitudini degli italiani. Al contrario di quanto accadeva circa mezzo secolo fa, la persone trascorrono un tempo irrisorio all’aria aperta. Poi, l’arrivo del lockdown a dare il colpo di grazia a questo stile di vita che prevedeva sporadiche esposizioni ai raggi UV. In pratica, la carenza di questo nutriente sembrerebbe proprio un fattore predisponente per ammalarsi di Covid. Numerose evidenze scientifiche suggeriscono che i pazienti con Covid-19 hanno livelli di vitamina D più bassi rispetto alla popolazione generale. L’esperto, in un recente studio dell’Ospedale San Raffaele, ha evidenziato che nei pazienti ospedalizzati per Covid-19 con fratture vertebrali sembrerebbero aumentare il rischio di complicanze. Fondamentale per l’assorbimento del calcio, appare evidente il collegamento tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio, e quindi, di vitamina D e Covid-19. «Ritengo che ci sia un nesso tra vitamina D, calcio, fragilità ossea, vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Queste fratture indicano una fragilità sistemica dell’organismo. Già nella precedente infezione da Sars era emersa una elevata prevalenza di ipocalcemia. Al San Raffaele abbiamo visto come moltissimi malati ricoverati con il Covid abbiano valori di calcio molto bassi. E il calcio basso aumenta la percentuale di rischio di ricovero per Covid» conclude Giustina. E poi consiglia a tutta di esporsi al sole, almeno mezzora al giorno e di fornire al nostro organismo, con l’alimentazione e l’integrazione, la quantità necessaria di vitamina D per stare bene.

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Per approfondimenti:

Il Giorno "Nesso tra Covid e vitamina D": eccezionale scoperta a Pavia"

Gazzetta Act!ve "Covid-19, carenze di vitamina D associate all’infezione: “Forse per questo l’Italia è così colpita

Napoli Today "Vitamina D e prevenzione del Covid-19, qual è la connessione: risponde l’esperto"

Corriere di Arezzo "Arezzo, il medico Pier Luigi Rossi guarito dal Covid: "Come l'ho preso e come mi sono difeso con vitamina D e dieta mirata"

Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"

The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"

ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"

Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"

ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"

Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"

Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"

Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"

Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"

Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"

Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"

JAMA Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"

Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"

AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"

Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"

Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"

Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"

Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"

LEGGI ANCHE: Dalla vitamina D al Covid: una lunga storia tra mito e scienza

Il sole contro il Covid: la vitamina D ci rende più forti e meno vulnerabili

Regno Unito: contro il Covid, vitamina D a oltre 2 milioni di persone

Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti

Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D

SOS ipovitaminosi. Il 60% dei bambini con carenza di vitamina D

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Pubblicato in Informazione Salute

Sono 230 mila le persone affette dal morbo di Parkinson in Italia. Tra questi, sono soprattutto le persone con età media superiore ai 60 anni. Come sappiamo, il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa, che determina la morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina (un neurotrasmettitore responsabile di numerose funzioni cerebrali). Lunga e silenziosa. Oltre alle conseguenze neurologiche, una forte escalation dell'incidenza del morbo di Parkinson. Secondo alcuni ricercatori spagnoli, l’infezione da coronavirus potrebbe innescare il morbo di Parkinson, proprio come già accaduto in Spagna. Lancia l’allarme il Journal of Parkinson’s Disease dove emerge la paura di alcuni ricercatori dell’autorevole istituto australiano di neuroscienza e salute mentale, Florey Institute of Neuroscience and Mental Health, che temono che i sintomi neurologici indotti dall’infezione di Sars-Cov-2 possano essere solo le prime fasi di un processo infiammatorio del cervello dalle conseguenze ben più gravi. Lo studio, condotto da Kevin Barnham teme una storia già vista circa un secolo fa, quando, dopo la pandemia di influenza Spagnola, l’incidenza di malattia di Parkinson aumentò fino a tre volte. Dalle encefaliti alla perdita di olfatto e gusto. I dati finora raccolti sui sintomi neurologici correlati all’infezione di Sars-Cov-2, sostengono gli autori dell’articolo, suggeriscono che le premesse ci sono tutte e che il rischio sia reale.

Insomma, secondo lo studio, l'infiammazione neurale subita da molte persone positive al Covid-19 potrebbe essere un fattore chiave di rischio di contrarre il Parkinson's. I ricercatori evidenziano come la malattia degenerativa rischia con probabilità di rappresentare la «terza ondata della pandemia di Covid-19 e stimano che in tre persone su quattro con il Covid-19 si riscontrano sintomi neurologici. Sostengono inoltre gli esperti, che i sintomi stessi, che vanno da encefalite a perdita dell'olfatto, sono probabilmente riportati per difetto. Questo potrebbe includere test di olfatto e vista e scansioni cerebrali per identificare sintomi motori. Gli esperti non hanno ancora compreso fino in fondo le modalità usate da Sars-CoV-2 per raggiungere il cervello, ma «è acclarato il fatto che questo si verifichi e può causare danni alle cellule cerebrali innescando un potenziale processo neurodegenerativo» spiega all’Adnkronos il professor Kevin Barnham, del Florey Institute. Tra i principali segnali, proprio la perdita dell'olfatto potrebbe essere un nuovo modo per rilevare il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson, dato che si presenta nel 90% delle persone che hanno contratto il coronavirus e si trovano ancora nella prima fase e che si manifesta circa un decennio prima dei sintomi motori. Attualmente, per diagnosticare la malattia si presta particolare attenzione ai sintomi motori. Tuttavia, «se si aspetta fino a questa fase della malattia di Parkinson per diagnosticare e curare, si perde l'opportunità di adottare terapie neuroprotettive con l'effetto desiderato» sottolineano gli esperti.

Una battaglia che inizia a tavola

Si celebra il 28 novembre, la XII edizione della Giornata Nazionale Parkinson per offrire a tutti informazioni preziose e puntuali su questa malattia così complessa ed eterogenea.

«Nella malattia di Parkinson – evidenzia Christian Orlando, biologo - l'importanza dell’alimentazione è ormai nota a tutti. In presenza di malattie croniche un’alimentazione corretta diventa condizione fondamentale per il benessere dell’individuo e influisce positivamente sull’efficacia della terapia farmacologica e sullo stato di salute generale». Inoltre, «un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati insulinici ha un enorme potenziale nella prevenzione e nella gestione delle patologie neurodegenerative come il Parkinson. Gli studi clinici che esplorano l’effetto dei cambiamenti dietetici a livello neuronale sono pochi e lontani tra loro, ma esiste già un’enorme quantità di materiale scientifico che dettaglia come le diete ad alto contenuto di zucchero mettono a repentaglio la salute del cervello e quanto invece, al contrario, le diete a basso contenuto di carboidrati supportano la salute del cervello. Infatti nella patologia del Parkinson la funzione mitocondriale indebolita si suppone sia coinvolta nella morte dei neuroni che forniscono la dopamina. I ricercatori ipotizzano che i corpi chetonici, utilizzati come fonte energetica in caso di ridotto apporto di carboidrati, possono proteggere i mitocondri e sostenere la loro funzione» conclude l’esperto.

Una diversa risposta all’infiammazione di alcune cellule non neuronali, le microgliali rispetto alle astrocitarie, è quanto dimostrato da un nuovo studio, tutto italiano, sul morbo di Parkinson, la ricerca sperimentale pubblicata sulla rivista Neuropathology and Applied Neurobiology è stata condotta da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, in collaborazione con il Dipartimento di Biotecnologia e Scienze della vita dell’Università dell’Insubria. Una novità che forse potrebbe meglio orientare l’approccio terapeutico alla malattia. I test comportamentali, infatti, convergono nell’indicare l’influenza dello stato infiammatorio su fenomeni patologici a livello cerebrale. Inoltre, l’indagine dimostra in due modelli sperimentali distinti che l’infiammazione sistemica contribuisce in maniera determinante ad aggravare il danno cerebrale indotto dall’alfa-sinucleina, la proteina che in forma aggregata svolge un ruolo patologico nel morbo di Parkinson.

Gli effetti sulle cellule neuronali


«Il ruolo dell’infiammazione nelle malattie neuro-degenerative è stato evidenziato in diversi contesti sperimentali e clinici – spiega in un’intervista al Fatto Quotidiano Gianluigi Forloni, capo del Dipartimento di Neuroscienze del Mario Negri e coordinatore dello studio -. Questo studio ha il merito di indicare un possibile meccanismo biologico alla base dell’interazione tra infiammazione sistemica e neuro-degenerazione. I nostri risultati indicano in maniera precisa un nesso tra infiammazione e la neurotossicità indotta dalla proteina alfa-sinucleina che si accumula a livello intracellulare nei cosiddetti corpi di Lewy nel morbo di Parkinson e nelle demenze associate. L’induzione a livello sperimentale di uno stato infiammatorio cronico, non solo aggrava la tossicità neuronale indotta dall’applicazione intracerebrale di alfa-sinucleina, ma amplifica anche il quadro patologico che caratterizza topi transgenici modello di Parkinson». «L’azione sinergica tra alfa-sinucleina e infiammazione – secondo Pietro La Vitola, ricercatore del Mario Negri e primo autore della pubblicazione – produce un danno delle cellule nervose, ma ha un effetto differenziato sulle popolazioni cellulari non neuronali. Infatti, alcune (le cellule microgliali) mostrano un’attivazione amplificata, mentre altre (le cellule astrocitarie) risultano meno coinvolte nel processo infiammatorio o addirittura danneggiate. Questo risultato evidenzia come interventi più specifici sui diversi tipi cellulari, piuttosto che l’utilizzo di anti-infiammatori generici, possano rappresentare una nuova e promettente strategia terapeutica per il morbo di Parkinson». «Nel complesso – conclude Forloni – i nostri risultati devono trovare conferma a livello clinico, ma possono spiegare alcune evidenze già emerse nell’uomo e soprattutto orientare in maniera più mirata l’approccio terapeutico al morbo di Parkinson».

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Per approfondimenti:

Il Messaggero "Il Covid può portare al Parkinson, studio australiano: Sarà la terza ondata della pandemia"

Libero "Coronavirus e Parkinson, la correlazione col morbo: "Questa sarà la vera terza ondata della pandemia"

Il Fatto Quitidiano "Parkinson, “un nesso tra infiammazione e la neurotossicità”. Lo studio dell’istituto Mario Negri"

Wired "A causa di Covid-19 potremmo vedere un'ondata di Parkinson"

PubMed "Peripheral inflammation exacerbates α-synuclein toxicity and neuropathology in Parkinson's models"

Biomedicalcue "Parkinson: scoperta la coppia molecolare che frena il morbo"

LEGGI ANCHE: Infiammazione? Lo stile alimentare che aiuta la prevenzione di tante patologie

Rush University: la cannella per arrestare la progressione del morbo di Parkinson

Studi: la curcuma può curare Parkinson e Alzheimer ma la medicina non studia prodotti a basso costo...

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Continua a far parlare di se. Non solo un ormone fondamentale per mantenere il nostro organismo in perfetta salute, ma anche una valida strategia di prevenzione dal Covid. Al centro dei riflettori c’è ancora la vitamina D. Ormai consolidato il suo ruolo nella protezione delle ossa e nel rinforzo fornito al sistema immunitario, questo nutriente è molto importante per le sue innumerevoli capacità. Tra queste, riduce il rischio di cancro, protegge dal diabete, dalle malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni. Circa l’80% viene prodotta dalla nostra pelle grazie ai raggi UVB, mentre la parte residua viene introdotta con l’alimentazione. Tanto discussa, soprattutto negli ultimi mesi, a seguito dei recenti studi circa una sua correlazione ed eventuale efficacia nel contrasto dell’infezione da SARS-CoV-2. Primo tra tutti, lo studio condotto da due ricercatori dell’Università di Torino sulla necessità di adeguati livelli di questa vitamina, soprattutto negli anziani. Questo perché, nell’indagine condotta dagli esperti, ma non solo, la carenza di questa vitamina viene associata a un aumento delle infezioni, da qui le complicanze riscontrate nei soggetti positivi al coronavirus con un deficit di questo nutriente.

Vitamina D


A far luce sulla vicenda, interviene il dottor Giuseppe Russo, medico di base presso l’ASL Napoli 1 che in un’intervista a Napoli Today spiega l’importanza della vitamina del “sole”.

«Quella che comunemente chiamiamo "vitamina D", in realtà appartiene ben poco al gruppo delle vitamine, bensì, per struttura chimica (steroidea) e per funzione, è un pro-ormone. I pro-ormoni non sono altro che dei precursori della sintesi degli ormoni». «1/3 del nostro fabbisogno giornaliero di vitamina D – continua l’esperto nell’intervista - proviene dagli alimenti (pesce azzurro, tuorlo d’uovo, latte e formaggio), la restante parte si forma nella pelle attraverso l’esposizione ai raggi solari, e viene immagazzinata nel fegato e nel tessuto adiposo. Gli effetti sono molteplici e svariati. Quelli più noti riguardano la crescita ossea, l’allattamento e la gravidanza. Tuttavia molti studi hanno evidenziato che una sua carenza è spesso associata a diversi tipi di malattie, quali diabete, infarto, morbo di Alzheimer, allergie, sclerosi multipla, obesità e riduzione del tono dell’umore». Poi, evidenzia ancora Russo, la sua possibile correlazione tra Covid.19 e ipovitaminosi D: «L’integrazione della vitamina D, anche in dosi generose, nel contagio da COVID 19, è giustificata dalla sua azione di modulazione del processo infiammatorio e di regolazione del sistema immunitario. Un suo uso preventivo, però, per essere efficace, non può prescindere da un corretto e puntuale dosaggio della sua concentrazione nel sangue».

L’integrazione per aumentare le nostre difese


Un dibattito che va avanti dall’inizio della pandemia e sembra essere in dirittura d’arrivo. Insomma, il rapporto tra Covid e vitamina D continua a far discutere gli esperti e nel frattempo aumentano le tesi a favore. «L’integrazione di questa vitamina, in presenza dell'infezione da SARS-CoV-2, è dovuta alla sua azione di modulazione del processo infiammatorio e di regolazione del sistema immunitario» precisa nell’intervista. E poi raccomanda: «Se vi è carenza, può essere integrata a qualsiasi età». Nel dubbio, il governo inglese ha deciso di seguire l’esempio della Scozia e somministrare la vitamina D alle fasce più rischio, nel rispetto delle linee guida stabilite dal National Institute for Health and Care Excellence e dalla Public Health. In attesa del vaccino, quindi, saranno così rafforzate le difese immunitarie di anziani e persone con gravi patologie che hanno manifestato questa carenza. Nel mare magnum di evidenze scientifiche che hanno conquistato le prime pagine di riviste e quotidiani c’è anche una testimonianza importante. Quella che Pier Luigi Rossi, specializzato in Scienza dell'Alimentazione, racconta in un’intervista al Corriere di Arezzo.

L'importanza della vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

 

«Con questa malattia non si dorme, si suda e si ha una sensazione di caldo continuo. Il virus entra con il respiro nei polmoni e poi tramite il sangue si diffonde in tutti gli organi, compreso il cervello dove attacca i neuroni provocando appunto insensibilità ai sapori e agli odori. Si localizza molto anche nell'intestino, provocando vari disturbi dalla diarrea alla stipsi. C'è un collegamento diretto tra il microbiota polmonare e quello intestinale. E mantenendo sano e attivo quello intestinale, rendiamo più reattivo anche quello polmonare, ovvero capace a reagire ai vari batteri e virus». Una battaglia contro il Covid che il dottor Rossi ha combattuto e vinto grazie anche a un corretto stile di vita e alimentare. «Io non ho fatto terapia farmacologica – spiega l’esperto - né terapia per controllare la febbre che per fortuna solo una volta mi è salita a 38. Ha applicato tutte le norme anti contagio e tanto riposo in casa. Ho fatto ossigeno terapia con semplici esercizi di inspirazione ed espirazione. Per fortuna ho un parco e mi sono esposto a lungo ai raggi del sole per aumentare la vitamina D, aiutata anche con l'inserimento di 8/10 gocce al giorno di questa vitamina. E poi ho praticato un'alimentazione studiata apposta per superare gli attacchi all'organismo da parte del Covid».

Dopo aver superato la malattia, poiché in ognuno di noi, non muta il virus, ma cambia la reazione nell’organismo in base alle difese immunitarie, consiglia a tutti di fare la massima attenzione senza abbassare mai la guardia! Difatti, le evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia. Infatti, tra le sue principali capacità emerge proprio quella che contribuisce a rafforzare il sistema immunitario e a proteggere dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre di virus. A questo interessante dilemma, infatti, fanno eco altre indagini condotte in questi mesi, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza.

Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D

 Considerazioni epidemiologiche

  • L’Italia è uno dei Paesi Europei (insieme a Spagna e Grecia) con maggiore prevalenza di ipovitaminosi D. Nel Nord Europa la prevalenza è minore per l’antica consuetudine di addizionare cibi di largo consumo con Vitamina D.
  • In Italia, è stato dimostrato che il 76% delle donne anziane presentano marcate carenza di vitamina D, senza peraltro significative differenze regionali.
  • La ridotta incidenza di COVID-19 nei bambini potrebbe essere attribuita alla minore prevalenza di ipovitaminosi D conseguente alle campagne di prevenzione del rachitismo attivate in tutto il mondo dalla fine dell’Ottocento.
  • La distribuzione geografica della pandemia sembra potersi individuare maggiormente nei Paesi situati al di sopra del tropico del cancro, con relativa salvaguardia di quelli subtropicali.
  • Una dieta ricca di Vitamina D è risultata in grado di attenuare i sintomi della polmonite interstiziale in modelli murini.
  • La carenza di vitamina D è stata correlata con la severità della polmonite interstiziale sperimentalmente indotta.

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Per approfondimenti:

Napoli Today "Vitamina D e prevenzione del Covid-19, qual è la connessione: risponde l’esperto"

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Mentre il Regno Unito ha disposto la distribuzione di vitamina D a tutta la popolazione, nel resto del mondo parallelamente, sono in corso una trentina di studi volti a indagare l’incidenza dell’ipovitaminosi D sul Covid e l’importanza di questo prezioso nutriente nel trattamento dell’infezione stessa. Per vitamina D si intende una sostanza che non può essere prodotta dall'organismo, e quindi, deve essere assunta dall'esterno e agisce a distanza sul piano metabolico. Ciononostante il nostro organismo produce vitamina D tramite i raggi solari che irradiano la cute. Una piccola parte poi, seppur insufficiente, può essere assunta con gli alimenti. Tuttavia, l’unica fonte quindi è il sole che una volta entrato tramite la pelle, viene accumulata nel nostro tessuto adiposo e poi viene immagazzinata e rilasciata lentamente durante l’anno, soprattutto in inverno. I suoi importanti effetti a livello immunitario era confermati già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. Dopo l’appello lanciato da un gruppo di scienziati inglesi al governo di Londra, riportato sul The Guardian anche nel nostro Paese è stata approfondita questa correlazione: Maria Cristina Gauzzi e Laura Fantuzzi del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto superiore di sanità hanno ribadito, in linea con gli altri colleghi, che adeguati livelli di vitamina D al momento dell'infezione da coronavirus potrebbero favorire l’azione protettiva dell’interferone di tipo I (uno tra i più potenti mediatori della risposta antivirale dell’organismo) e rinforzare l'immunità innata. Adesso, invece, nel Regno Unito è in corso una vasta sperimentazione clinica sul rapporto “Covid/vitamina D”, che coinvolge oltre 5 mila persone.

Sulla distribuzione del virus nelle regioni italiane emerge una nuova tesi. «Ho avuto l’intuizione di andare a vedere con qualche sistema possibile se le diverse regioni italiane differivano in quanto a radiazioni solari per poi quantificarle e correlare i dati clinici del Covid per trovare una corrispondenza» spiega in un’intervista a Il Giornale Giancarlo Isaia, autore di una recente indagine sugli effetti della vitamina D e su una sua correlazione con il Covid. nel maggio scorso, Isaia, insieme al collega Enzo Medico, docente dell’Università di Torino, avevano parlato dei notevoli benefici della vitamina D come alleata nel contrasto alla pandemia. Lo studio dei ricercatori mostrava come molti pazienti ricoverati per Covid presentavano gravi carenze di vitamina D. «Ho chiesto aiuto per farlo ai fisici dell’Arpa (l’Agenzia Regionale per la protezione Ambientale) – continua l’esperto - in particolare il dottor Henri Diémoz che ha estrapolato questi dati da alcuni di satelliti chiamati Themis che girano intorno alla terra mandando dati meteorologici. Per essere sicuri che fossero precisi, sono stati confrontati con quelli a terra per vedere se coincidevano ed è venuta fuori una correlazione perfetta. Confortati da questo, abbiamo preso tutti questi dati delle radiazioni ultraviolette e le abbiamo correlate con i morti, con il numero degli infetti e degli infetti per tampone. Il risultato è stata un correlazione molto alta, l’83% circa che ci confermava che dove i raggi ultravioletti erano più bassi, ad esempio Lombardia e Piemonte, c’era maggiore incidenza del virus e dei decessi». «Per questo, abbiamo realisticamente ipotizzato che quelli che sono stati più al sole e che quindi hanno accumulato più vitamina D da spendere nei mesi invernali, sono stati in qualche modo protetti» conclude Isaia. Ovviamente per uno studio più accurato sono state considerate anche tutta una serie di altre variabili come l’età media della popolazione coinvolta, l’incidenza di malattie cardiovascolari e di diabete, ma nonostante queste variabili fossero significative, il fattore predominante rimaneva sempre quello dei raggi ultravioletti che occupava circa l’80% della statistica di tutte le variabili. Questo spiegherebbe anche perché nella prima ondata della pandemia siano state, seppur in parte, “risparmiate” le zone del sud del mondo dove c’è stato un tasso di incidenza di scarso del coronavirus.

Il virus, disattivato dai raggi ultravioletti

Gli effetti della vitamina D sono noti da tempo, per questo, nel Regno Unito è partita la somministrazione ad ampio raggio come trattamento e come forma di prevenzione al Covid. «L’enorme letteratura scientifica sui benefici del sole – evidenzia l’esperto nell’intervista a Il Giornale - , ha inciso in termini culturali da sempre sui paesi del nord, che hanno visto delle vere e proprio migrazioni di massa verso l’Italia o in Spagna. Forti di questo retaggio da sempre hanno ritenuto opportuno, e maggiormente ora, fornire la vitamina D a tutta la popolazione». Giancarlo Isaia poi spiega l’influenza del sole, e quindi, dei raggi ultravioletti sul Covid: «Esiste uno studio che dice che il virus viene inattivato dai raggi ultravioletti. Quindi fa bene alla pandemia per due motivi: il primo perché inattiva il virus direttamente sulle superfici, quindi questo può spiegare il fatto che durante l’estate c’è stato il crollo della mortalità, il secondo è l’aspetto della vitamina D. La nostra ipotesi è questa: durante l’inverno nella prima ondata gennaio/maggio, si sono protetti di più quelli che avevano preso e immagazzinato nel semestre precedente più sole e quindi vitamina D, mentre invece in estate ne hanno beneficiato un po’ tutti perché chi più chi meno sono andati al mare o sono stati all’aria aperta. Dopo le vacanze i morti sono ricominciati a salire, un po’ meno rispetto a gennaio perché abbiamo ancora vitamina D immagazzinata nella cute, però se non facciamo niente i morti continueranno ad aumentare e questo voglio dirlo forte e molto chiaramente». L’esperto suggerisce, inoltre, di promuovere la somministrazione di vitamina D a tutti i pazienti più a rischio e di prendere anche in considerazione il valido supporto fornito dagli integratori alimentari che sono consigliati anche ai bambini: «Assolutamente sì – raccomanda Isaia -, anche se dovremo maggiormente pensare alla fascia di popolazione anziana perché è in quella che si concentrano di più i morti. Se guardiamo le tabelle del Ministero della Sanità possiamo vedere che nella fascia 70/90 anni, l’incidenza è dell’85%. Secondo me se anche in Italia si distribuisse, soprattutto agli anziani sarebbe una cosa molto importante».

AL'importanza della vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

 

«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni». Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo. 

Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D

Le evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia. Infatti, tra le sue principali capacità: rafforza il sistema immunitario e protegge dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre di virus. A questo interessante dilemma fanno eco altre indagini condotte in questi mesi, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza:

  • In una review pubblicata pochi mesi fa su Nutriens, si evidenziava la capacità dell’integrazione della vitamina D di incidere sul rischio di sviluppare infezioni da COVID-19. A differenza delle altre, la vitamina D non deve essere necessariamente assunta con l’alimentazione, perché viene prodotta dal nostro organismo grazie a un meccanismo che si attiva con l’esposizione ai raggi del sole. Tuttavia, è importante integrarla nella dieta, soprattutto in alcune condizioni particolari, come la gravidanza o nello sviluppo.
  • Uno studio norvegese condotto a marzo su 15 mila persone ha mostrato laddove vi era un consumo abituale dell'olio di fegato di merluzzo, fonte di vitamina D, c’erano anche i meno esposti al virus e coloro che l'avevano contratto avevano sviluppato una forma più lieve della malattia. «A mio parere, è chiaro che la vitamina D potrebbe non solo proteggere dalla gravità della malattia, ma potrebbe anche proteggere contro le infezioni» sottolinea il dottor Gareth Davies. «L'arricchimento alimentare - continua - avrebbe bisogno di un'attenta pianificazione per essere implementato in modo efficace, in particolare perché le persone ora stanno assumendo integratori».
  • Un recente studio condotto dall’Università della Cantabria a Santander in Spagna e pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism ha sottolineato un’interessante correlazione tra le persone positive al coronavirus, ricoverate in ospedale, con una carenza di vitamina D. L’indagine che si è sviluppata nel corso della prima ondata, ha dimostrato che otto persone su dieci avevano un’ipovitaminosi D. Inoltre, il quantitativo di vitamina D presente nell’organismo era inversamente proporzionale alla gravità di infiammazione e alle relative complicanze ovvero, minore era il livello di questo nutriente e maggiore era la criticità della diagnosi
  • Un altro studio spagnolo ha evidenziato la carenza di vitamina D come fattore di rischio del Covid, mostrando come oltre l’80% dei pazienti ricoverati per il virus presentasse una carenza di vitamina D. La ricerca condotta dall'équipe di scienziati guidati da José Hernàndez e pubblicata recentemente sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, ha sottolineato che nell’82,2% dei pazienti ricoverati in un ospedale spagnolo sono stati riscontrati scarsi livelli di vitamina D. «Se il ruolo protettivo della vitamina D fosse confermato un approccio preventivo potrebbe essere curare la carenza di questa vitamina, specialmente negli individui più suscettibili come gli anziani, i pazienti con altre malattie quali il diabete e il personale sanitario specie nei presidi di lunga degenza» precisa il professor Hernández.
  • Altra indagine che era arrivata a conclusioni simili è quella condotta dall’Università di Chicago e pubblicata sul Journal of American Medical Association Network Open dove le persone con scarsi livelli di vitamina D potrebbero avere fino al 60% di probabilità in più di contrarre il coronavirus. «La vitamina D svolge un ruolo importante nel sistema immunitario», spiega il professor Meltzer. «Saranno necessari test clinici per dimostrare questi risultati – precisa l’esperto -, ma secondo i nostri dati la vitamina D, pur non rappresentando una garanzia come protezione dal coronavirus, sembra essere collegata a una minore probabilità di infezione in forma grave».
  • Ultima, ma non per importanza, una teoria comune proposta anche in studi meno recenti. Un team di ricerca britannico composto da scienziati del The Queen Elizabeth Hospital Foundation Trust e dell’Università dell’East Anglia avevano trovato un’associazione tra tasso di decessi superiore per COVID-19 e popolazioni con vitamina D carente.

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Per approfondimenti:

Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"

The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"

ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"

Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"

ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"

Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"

Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"

Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"

Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"

Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"

Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"

JAMA Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"

Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"

AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"

Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"

Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"

Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"

Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"

LEGGI ANCHE: Regno Unito: contro il Covid, vitamina D a oltre 2 milioni di persone

Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti

Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D

SOS ipovitaminosi. Il 60% dei bambini con carenza di vitamina D

Cuore e vitamina D: riduce il rischio di infarto e le complicanze future

Dal sovrappeso all'obesità: Vitamina D, nemica dei chili di troppo

Calcio, magnesio e vitamina D: i principali nemici dell'osteoporosi

Sport e vitamina D: riduce il rischio di fratture ed aumenta la tonicità muscolare

Pubblicato in Informazione Salute

La risposta alla pandemia? Confermato e poi contestato il ruolo dell’acido ascorbico nel trattamento del coronavirus. Nel corso degli ultimi mesi, sono state avanzate diverse tesi su questo prezioso nutriente, somministrato ad alte dosi ai pazienti ospedalizzati. Sull’efficacia della vitamina C nel contrasto al Covid provano a far luce un gruppo di ricercatori dell’Università di Augusta. Attualmente, sono in corso almeno una trentina di studi clinici attraverso cui gli esperti stanno valutando gli effetti della somministrazione di vitamina C – anche in combinazione con altri farmaci – nel trattamento dell’infezione da Sars-Cov-2. E nonostante le ricerche non abbiano ancora fornito risultati necessari a ribaltare tutte le tesi contrarie, le prime osservazioni suggerirebbero un fondamentale aiuto, soprattutto in alcuni pazienti. Secondo gli studiosi che esplorano da tempo gli effetti della vitamina C sull’invecchiamento questi, potrebbero dipendere da diversi fattori, in particolare dai livelli di trasportatori di vitamina C presenti in ciascuno di noi. «Esistono diverse variabili, sulle quali ci sono poche informazioni e da cui può dipendere l’efficacia della somministrazione di vitamina. Queste comprendono l’età, la razza, il sesso, e soprattutto i livelli di espressione dei trasportatori di vitamina C e il polimorfismo» spiegano in uno studio pubblicato sulla rivista Aging and Disease .

In tal senso, gli studiosi raccomandano di non trascurare questi importanti fattori per valutare l’effettiva efficacia nel trattamento di Covid-19 per esaminare il beneficio della vitamina C anche in altre condizioni. «Con l’aumento esponenziale del tasso di infezione da coronavirus e della mortalità – precisano nello studio -, ricercatori, medici e agenzie governative di tutto il mondo si stanno concentrando sul riposizionamento di farmaci con profili di sicurezza noti, tra cui la vitamina C. Il trattamento con vitamina C è riconosciuto per il suo effetto benefico nel prevenire/neutralizzare la risposta infiammatoria, ridurre lo stress ossidativo e stimolare gli interferoni e altre citochine antivirali», peculiarità che rendono la vitamina C importante nella terapia di contrasto al virus. Inoltre, «sarà interessante comprendere se la vitamina C potrà essere specificamente efficace nel trattamento di pazienti Covid-19 che sono più anziani, hanno malattie pregresse o appartengono a popolazioni afroamericane. C’è inoltre un’urgente necessità di indagare sulla relazione diretta tra i livelli sierici/plasmatici di vitamina C nel tasso di infezione da COVID-19 e nella gravità della malattia» concludono i ricercatori.

Dal trattamento agli altri fattori

In tal senso appare evidente il ruolo benefico della vitamina C come antiossidante e antinfiammatorio che ha portato l’intera comunità scientifica a indagare sull’efficacia e sugli effetti di alte dosi di vitamina C nel trattamento e nella riduzione delle complicanze relative a una serie di infezioni virali, tra cui quella provocata dal nuovo coronavirus Sars-Cov-2. La sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus 2 (SARS-CoV-2) si è diffusa in tutto il mondo a un ritmo esponenziale, portando a milioni di persone che sviluppano la malattia associata chiamata COVID-19. A causa della natura nuova e dell’assenza di immunità negli esseri umani, c'è stato uno sforzo globale collettivo per trovare trattamenti efficaci contro il virus. Questo ha portato la comunità scientifica a riutilizzare farmaci approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) con profili di sicurezza noti. Tra i molti farmaci possibili, la vitamina C è stata nella rosa dei possibili interventi a causa del suo ruolo benefico come potenziatore immunitario e delle sue intrinseche proprietà antiossidanti. Al centro della discussione: la funzione intracellulare e le proprietà intrinseche della vitamina C. Questa ricerca fornisce, inoltre, una revisione completa dell’indagine pubblicata relativa alle differenze nell'espressione del trasportatore della vitamina C in diverse condizioni fisiopatologiche. Infine, è stata esaminata l'efficacia della somministrazione di vitamina C nel trattamento delle infezioni virali e delle condizioni potenzialmente letali. Nel complesso, lo studia mira a presentare le informazioni esistenti circa la misura in cui la vitamina C potrebbe essere un trattamento efficace per COVID-19 e le relative spiegazioni sul motivo per cui potrebbe funzionare, ancor più in alcuni individui.

VITAMINA C, un concentrato di proprietà e benefici

La pandemia globale del coronavirus in corso, nota anche come COVID-19, ha avuto un impatto significativo sulla salute mondiale. La terapia endovenosa ad alte dosi di vitamina C è nella rosa dei potenziali regimi farmacologici testati per l'efficacia nel trattamento del COVID-19. Diversi ricercatori e medici hanno ipotizzato che l'uso di acido ascorbico potrebbe ridurre l'infezione da SARS-CoV-2 attraverso la capacità degli integratori di aumentare la risposta immunitaria insieme alla diminuzione della gravità della risposta infiammatoria mediata dal virus. Numerosi studi supportano la scoperta che una dose elevata di vitamina aiuta a rafforzare il sistema immunitario.

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Nella figura il meccanismo schematico in cui una IA di vitamina C potrebbe modulare funzioni specifiche dei neutrofili (ROS e TNFα, mediata da IL-1β), inibendo le vie coinvolte nella formazione della trappola extracellulare dei neutrofili (NETosis) e riducendo la produzione incontrollabile di citochine infiammatorie nell'alveolare spazio. Potenziali effetti sulla riduzione della produzione di citochine sono stati ipotizzati anche nei linfociti e nei macrofagi. ROS, specie reattive dell'ossigeno; NFkB, fattore di trascrizione nucleare kappa B; ┴, stimolo di inibizione; freccia tratteggiata, effetto o produzione ridotti.

La vitamina C, nota anche come acido ascorbico, è una delle vitamine essenziali necessarie alle specie di mammiferi per sopravvivere e prosperare. Attraverso l'evoluzione, la specie homo sapiens ha perso la capacità di sintetizzare la vitamina C a causa dell'inattivazione del gene della gluconolattone ossidasi. Tuttavia, frutta e verdura come fragole, arance e broccoli sono ricchi di vitamina C e prontamente disponibili per il consumo umano. Bassi livelli di vitamina C potrebbero causare una miriade di problemi, con carenze prolungate portando persino allo scorbuto, una malattia spesso associata ai marinai nell'800 (a causa della mancanza di frutta e verdura fresca) in mare. Sintomi come gengive sanguinanti, cicatrizzazione anomala delle ferite e febbre sono comunemente associati alla malattia e possono essere attribuiti all'incapacità di alcuni enzimi di funzionare correttamente, specialmente quelli coinvolti nella sintesi del collagene. Inoltre, è stato notato da studi precedenti che i pazienti affetti da varie condizioni fisiopatologiche quali diabete, COPD, ipertensione cronica e virale sepsi indotta, sono diminuiti i livelli di siero e plasma vitamina C. Ciò ha portato a studi sull'uso della somministrazione endovenosa di vitamina C per il trattamento di pazienti affetti da malattie gravi e croniche nonché infezioni virali come COVID-19.

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Per approfondimenti:

Aging & Disease "Low level of Vitamin C and dysregulation of Vitamin C transporter might be involved in the severity of COVID-19 Infection"

Fanpage "L’efficacia della vitamina C come cura per Covid dipende da più fattori"

Sanders JM, Monogue ML, Jodlowski TZ, Cutrell JB (2020) "Pharmacologic treatments for coronavirus disease 2019 (COVID-19): a review

Shanmugaraj B, Siriwattananon K, Wangkanont K, Phoolcharoen W (2020) "Perspectives on monoclonal antibody therapy as potential therapeutic intervention for Coronavirus disease-19 (COVID-19)"

Qin X, Liu J, Du Y, Li Y, Zheng L, Chen G, et al. (2019) "Different doses of vitamin C supplementation enhances the Th1 immune response to early Plasmodium yoelii 17XL infection in BALB/c mice"

Bozonet SM, Carr AC, Pullar JM, Vissers M (2015) "Enhanced human neutrophil vitamin C status, chemotaxis and oxidant generation following dietary supplementation with vitamin C-rich SunGold kiwifruit"

Frontiers in Immunology “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19

PubMed "Evolution and the need for ascorbic acid"

MDPI "Vitamin C and Immune Function"

Il Messaggero "Covid, influenza stagionale e coronavirus: come distinguere i sintomi in caso di febbre"

Centro meteo italiano "Coronavirus, influenza stagionale e raffreddore, come distinguerli: i sintomi e le caratteristiche"

Corriere della Sera "Coronavirus, come incide la dieta sulla forza del sistema immunitario"

Salute Prevenzione "Nella guerra contro i Virus la scienza si dimentica sempre del Sistema Immunitario"

Philippe Lagarde "Libro d'oro della prevenzione: difendere la salute con gli integratori alimentari e le vitamine"

Sapere "I sistemi di difesa dell'organismo"

Corriere del Mezzogiorno "Coronavirus, come difendersi a tavola"

Il fatto alimentare "Coronavirus: dieta e trattamenti terapeutici naturali proposti da docenti di medicina"

LEGGI ANCHE: Storia della vitamina C: dalla prevenzione del raffreddore al trattamento del Covid

Vitamina C: rafforza il sistema immunitario e combatte virus e malanni di stagione

L'importanza del sistema immunitario, potente alleato nella guerra contro il virus

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A lungo discusso tra gli esperti del settore è proprio il ruolo della vitamina D sul sistema immunitario. Inoltre, diversi studi hanno suggerito che una carenza di questo nutriente rende più vulnerabili al coronavirus. Sul modello della Scozia, anche il governo inglese ha deciso di somministrare vitamina D per 4 mesi a oltre 2 milioni di persone, e soprattutto a quelle più vulnerabili, anziani e obesi come prevenzione contro il Covid. In particolare le persone di etnia nera, poiché i livelli di melanina nella pelle sono inversamente proporzionali ai livelli di vitamina D creati, ovvero a un situazione che peggiora in luoghi con meno luce solare: per questo le persone di colore nel Regno Unito possono essere più vulnerabili e quindi potenzialmente a rischio di contrarre il Covid e sviluppare una forma più seria della malattia. «Il Nice e il Public Health England hanno ricevuto richiesta formale di produrre delle raccomandazioni sulla vitamina D per prevenire e trattare il coronavirus dal segretario di stato per la salute, Matt Hancock» spiega al Guardian il portavoce del National Institute for Health and Care Excellenece (Nice). Definita dal governo come un’operazione “a basso costo, a rischio zero e potenzialmente altamente efficace”, evidenziando in particolare uno studio spagnolo che ha coinvolto 76 pazienti con Covid-19: a 50 di loro è stata somministrata una dose elevata di calcifediolo, una forma attivata di vitamina D. Difatti, la metà di quelli a cui non era stata somministrata aveva necessitato del ricovero in terapia intensiva, a fronte di una sola persona che l’aveva ricevuta, ma che era stata poi dimessa senza ulteriori complicanze.

«Aggiungete vitamina D al cibo per aiutare nella lotta al coronavirus». È l’appello lanciato da un gruppo di scienziati inglesi al governo di Londra. La richiesta, riportata sul The Guardian , ha riaperto la discussione sul possibile ruolo della vitamina D nella lotta alla pandemia. Così, un gruppo di scienziati guidati dal professor Gareth Davies ha acceso i riflettori su un aspetto molto importante: circa la metà della popolazione inglese presenta una carenza di vitamina D e, a loro dire, questo basso livello potrebbe rendere le persone più vulnerabili al Covid. E quindi non solo sottoposti al rischio di essere contagiati, ma a questo si associa anche quello di sviluppare sintomi più gravi e di conseguenza, un quadro clinico peggiore. Una teoria che anche altri studiosi stanno approfondendo. Una lista che si allunga sempre più quella dei lavori scientifici che, ad oggi, prefigurano un ruolo importante della vitamina D nella lotta contro il Covid-19. Anche nel nostro Paese è stata approfondita questa correlazione: Maria Cristina Gauzzi e Laura Fantuzzi del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto superiore di sanità hanno ribadito, in linea con i gli altri colleghi, che adeguati livelli di vitamina D al momento dell'infezione da coronavirus potrebbero favorire l’azione protettiva dell’interferone di tipo I (uno tra i più potenti mediatori della risposta antivirale dell’organismo) e rinforzare l'immunità innata. Adesso, invece, nel Regno Unito è in corso una vasta sperimentazione clinica sul rapporto “Covid/vitamina D”, che coinvolge oltre 5 mila persone.

Tutte le tesi portano alla vitamina D

Le evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia. Infatti, tra le sue principali capacità: rafforza il sistema immunitario e protegge dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre di virus. A questo interessante dilemma fanno eco altre indagini condotte in questi mesi, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza: in una review pubblicata pochi mesi fa su Nutriens, in particolare, si sosteneva come l’integrazione della vitamina D possa incidere sul rischio di sviluppare infezioni da COVID-19. A differenza delle altre, la vitamina D non deve essere necessariamente assunta con l’alimentazione, perché viene prodotta dal nostro organismo grazie a un meccanismo che si attiva con l’esposizione ai raggi del sole. Tuttavia, è importante integrarla nella dieta, soprattutto in alcune condizioni particolari, come la gravidanza o nello sviluppo. Tra i primi ad avvalorare la tesi, lo studio norvegese condotto a marzo su 15 mila persone ha mostrato laddove vi era un consumo abituale dell'olio di fegato di merluzzo, fonte di vitamina D, c’erano anche i meno esposti al virus e coloro che l'avevano contratto avevano sviluppato una forma più lieve della malattia. «A mio parere, è chiaro che la vitamina D potrebbe non solo proteggere dalla gravità della malattia, ma potrebbe anche proteggere contro le infezioni» sottolinea il dottor Gareth Davies. «L'arricchimento alimentare - continua - avrebbe bisogno di un'attenta pianificazione per essere implementato in modo efficace, in particolare perché le persone ora stanno assumendo integratori. Scegliere gli alimenti giusti da fortificare dovrebbe essere fatto con attenzione».

L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

Nella stessa direzione va anche un recente studio condotto dall’Università della Cantabria a Santander in Spagna e pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Nella ricerca è stata sottolineata un’interessante correlazione tra le persone positive al coronavirus e ricoverate in ospedale con una carenza di vitamina D. L’indagine che si è sviluppata nel corso della prima ondata, ha dimostrato che otto persone su dieci avevano un’ipovitaminosi D. Inoltre, il quantitativo di vitamina D presente nell’organismo era inversamente proporzionale alla gravità di infiammazione e alle relative complicanze ovvero, minore era il livello di questo nutriente e maggiore era la criticità della diagnosi. Anche un altro studio spagnolo aveva evidenziato la carenza di vitamina D come fattore di rischio del Covid, evidenziando come oltre l’80% dei pazienti ricoverati per il virus presentasse una carenza di vitamina D. La ricerca condotta dall'équipe di scienziati guidati da José Hernàndez e pubblicata recentemente sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, ha evidenziato che nell’82,2% dei pazienti ricoverati in un ospedale spagnolo sono stati riscontrati scarsi livelli di vitamina D. «Se il ruolo protettivo della vitamina D fosse confermato un approccio preventivo potrebbe essere curare la carenza di questa vitamina, specialmente negli individui più suscettibili come gli anziani, i pazienti con altre malattie quali il diabete e il personale sanitario specie nei presidi di lunga degenza» precisa il professor Hernández.

Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D

Altra indagine che era arrivata a conclusioni simili è quella condotta dall’Università di Chicago e pubblicata sul Journal of American Medical Association Network Open dove le persone con scarsi livelli di vitamina D potrebbero avere fino al 60% di probabilità in più di contrarre il coronavirus. «La vitamina D svolge un ruolo importante nel sistema immunitario», spiega il professor Meltzer. «Saranno necessari test clinici per dimostrare questi risultati – precisa l’esperto -, ma secondo i nostri dati la vitamina D, pur non rappresentando una garanzia come protezione dal coronavirus, sembra essere collegata a una minore probabilità di infezione in forma grave». Una teoria comune proposta anche in Italia, dove nel maggio scorso, Giancarlo Isaia e Enzo Medico, due docenti dell’Università di Torino, avevano parlato dei notevoli benefici della vitamina D come alleata nel contrasto alla pandemia. Lo studio dei ricercatori mostrava come molti pazienti ricoverati per Covid presentavano gravi carenze di vitamina D. Inoltre, studi precedenti, in particolare quello di un team di ricerca britannico composto da scienziati del The Queen Elizabeth Hospital Foundation Trust e dell’Università dell’East Anglia avevano trovato un’associazione tra tasso di decessi superiore per COVID-19 e popolazioni con vitamina D carente.

L'importanza della "D" per la risposta immunitaria

Per questo è importante ricorrere al supporto di integratori alimentari per ovviare a questo deficit vitaminico. «La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni». Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo.

RIPRODUZIONE RISERVATA LIFE 120 © Copyright A.R.

 

Per approfondimenti:

The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"

ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"

Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"

ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"

Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"

Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"

Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"

Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"

Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"

Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"

JAMA Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"

Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"

AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"

Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"

Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"

Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"

Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"

LEGGI ANCHE: Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti

Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D

SOS ipovitaminosi. Il 60% dei bambini con carenza di vitamina D

Cuore e vitamina D: riduce il rischio di infarto e le complicanze future

Dal sovrappeso all'obesità: Vitamina D, nemica dei chili di troppo

Calcio, magnesio e vitamina D: i principali nemici dell'osteoporosi

Sport e vitamina D: riduce il rischio di fratture ed aumenta la tonicità muscolare

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Oltre 463 milioni di persone (1 su 11) convivono con il diabete. 3 milioni solo in Italia, ma un milione e mezzo non sa di averlo! E le previsioni non sono per niente ottimistiche. Si prevedono, infatti, che il numero di persone affette da questa patologia aumenterà, entro i prossimi dieci anni, a 578 milioni. Ancora oggi, un adulto su due rimane non diagnosticato. Nel 2019, il diabete è stato la causa di 4,2 milioni di morti. Senza tralasciare le conseguenze. Infatti, le lesioni cutanee, portatrici di infezioni anche croniche, possono aggravarsi fino a determinare l'amputazione dell'arto (1 su 5 in Italia). «È importante il ruolo di questa giornata nella sensibilizzazione sul diabete, una patologia in crescita che richiede nuovi approcci terapeutici» commenta all’Adnkronos Giuseppe Seghi Recli, Presidente di Molteni. Inoltre «La comparsa di ulcere da piede diabetico è spia di una condizione clinica particolarmente grave che richiede un inquadramento completo e la definizione di uno specifico percorso di cura» aggiunge nell'intervista all'Adskronos il professor Luigi Uccioli, Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma. 

DIABETE: lo stile di vita sostiene prevenzione e remissione

Al via con il World Diabetes Day#WDD2020! La Giornata mondiale del diabete (WDD) viene istituita nel 1991 dalla federazione internazionale del diabete con lo scopo (IDF) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in risposta alla crescente sfida alla salute posta dal diabete. La Giornata Mondiale del Diabete è diventata la Giornata ufficiale delle nazioni Unite con l’approvazione della risoluzione 61/225. Si celebra il 14 novembre di ogni anno, in occasione del compleanno di Sir Frederick Banting che ha scoperto l’insulina insieme a Charles Best nel 1922. La campagna di sensibilizzazione richiama l’attenzione su questioni di fondamentale importanza. Il diabete di tipo 2 è la forma più diffusa, riguarda oltre il 90% dei casi, ed è una patologia cronica caratterizzata da un eccesso di zuccheri nel sangue, iperglicemia, che può causare frequenti complicanze cardiovascolari e renali, precoci e spesso fatali, come lo scompenso cardiaco e l’insufficienza renale. «Il progetto nasce proprio dall’esigenza di rispondere ad un bisogno importante di conoscenza di molti soggetti affetti da diabete di tipo 2 – spiega all’Adnkronos Agostino Consoli, presidente eletto della Sid –. Molte persone con diabete non sono fino in fondo consapevoli della gravità di questa malattia». La campagna di comunicazione si fa portavoce di un messaggio educativo estremamente importante: «il diabete – precisa Consoli - è una malattia cronica ed è fondamentale che i pazienti si prendano a cuore la propria patologia».

Alimentazione: tra cura e prevenzione

Parola chiave: prevenzione! Una soluzione che si è trasformata in un problema in era Covid, con gli ospedali saturi e le terapie intensive al collasso. Da qui l’importanza di prevenire questa patologia per evitare le eventuali complicanze. Oggi più che mai, soprattutto in piena emergenza sanitaria. Infatti, lo scompenso cardiaco è una delle complicanze più precoci nei soggetti con diabete di tipo 2 e tra le prime cause di ospedalizzazione nel nostro Paese, associata purtroppo a un elevato rischio di mortalità a 5 anni dalla diagnosi. Inoltre, circa il 40% dei pazienti diabetici sviluppa nefropatia che quando si manifesta è spesso in una fase troppo avanzata per poter intervenire. «Queste complicanze impattano notevolmente sulla qualità di vita dei pazienti – evidenzia in un’intervista all’Aknkronos Paolo Di Bartolo, presidente Amd – e la prevenzione rappresenta uno strumento fondamentale per contrastarle. La sfida di oggi, infatti, non è la cura della malattia conclamata, ma una sua corretta gestione per prevenire tempestivamente le complicanze nei numerosissimi pazienti che presentano almeno un fattore di rischio, come l’ipertensione, l’abitudine al fumo o dislipidemia. Il controllo medico diventa quindi parte integrante della terapia e la collaborazione dei pazienti diabetici nel richiedere una consulenza costante risulta importantissima».

DIABETE: ecco come mangiare per stare meglio

Un tema delicato quello del diabete, ma soprattutto una malattia da non trascurare. «Il diabete di tipo 2 è una patologia metabolica caratterizzata da glicemia elevata in un contesto di insulino-resistenza ed insulino-deficienza relativa e rappresenta circa il 90% dei casi di diabete. Questo viene inizialmente trattato con l’aumento dell’esercizio fisico e con modifiche nella dieta» spiega Christian Orlando, biologo e nutrizionista. «Fino a un secolo fa – continua l’esperto - l’alimentazione con un ridotto contenuto di carboidrati (massimo 20/25 gr al giorno) rappresentava uno standard per la cura del diabete tipo 1 e tipo 2, in quanto la restrizione di carboidrati produce spesso un rapido e notevole miglioramento clinico. Poi, la scoperta dell’insulina nel 1920 ha permesso il controllo dell’iperglicemia in persone diabetiche consentendo ai pazienti di mangiare una quantità maggiore di carboidrati senza però considerare gli effetti collaterali dovuti alla notevole quantità di insulina somministrata». Il biologo cita anche una relazione dell’ADA ( American Diabetes Association) del 2019, secondo cui «le diete a basso contenuto di carboidrati hanno dimostrato un miglioramento della glicata e la minor quantità di antidiabetici orali somministrati nei pazienti con diabete tipo 2». «Nelle persone con diabete di tipo 2 all’esordio, alcuni studi hanno inoltre dimostrato che tale alimentazione porta ad un miglioramento della funzione delle cellule beta del pancreas secernenti insulina e una riduzione dell’insulino-resistenza con miglioramento del compenso glicemico» conclude Orlando.

Lo zucchero ci rende più vulnerabili ai virus

Il 43,9% dei soggetti deceduti per Covid avevano il diabete. Il report del 20 marzo, dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui pazienti deceduti in Italia, conferma la probabilità di maggiore mortalità in presenza di diabete. Mentre, il 48,6% presentava 3 o più patologie croniche. Secondo il Current Diabetes Review «il diabete di tipo 2 può «aumentare l’incidenza delle malattie infettive e delle comorbilità correlate». E anche se questi non hanno maggiore probabilità di essere contagiati, rischiano sicuramente più degli altri di sviluppare gravi complicanze, una volta contratto il virus. È la conclusione di un équipe di ricercatori dell’Università di Padova. La ricerca, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, dimostra come i pazienti diabetici, soggetti a un aggravamento del quadro clinico in presenza di qualsiasi malattia acuta, nel caso di infezione da SARS-CoV2 hanno un rischio di prognosi peggiore della patologia, rispetto a quella degli altri soggetti infetti non diabetici. L’interconnessione tra Covid e diabete è dovuto all’enzima attraverso cui il virus entra nelle cellule delle vie respiratorie è lo stesso espresso nelle cellule del pancreas e del fegato, e il paziente portatore di entrambe le malattie presenta indici coagulativi, marcatori infiammatori e proteina C reattiva con più alti livelli nel sangue rispetto ai soggetti positivi al Coronavirus, ma senza diabete. Inoltre, le “abituali” complicanze causate dal diabete come neuropatie, retinopatie, arteriopatie e nefropatie, oltre a una maggiore predisposizione a contrarre patologie batteriche e virali durante la infezione Covid 19 si riacutizzano, peggiorando la già critica situazione clinica.

«Alti livelli di zucchero nel sangue per un lungo periodo di tempo possono effettivamente deprimere il sistema immunitario, quindi non risponde più rapidamente al virus quando entra nel corpo e ha più tempo per replicarsi, scendere ai polmoni e causare i problemi legati alla respirazione che possono portare alla necessità di cure ospedaliere» spiega Amir Khan, affermato specialista ed esperto nella patologia del diabete di tipo 1 e 2. L’esperto fa poi riferimento ai dati diffusi dalla Cina che mostrano, nei primi 44.672 casi positivi, le persone che avevano malattie cardiovascolari, precedenti infarti o ictus, avevano un tasso di mortalità più alto  (10,5%). «In Cina, dove la maggior parte dei casi si è verificata finora, le persone con diabete avevano tassi molto più alti di complicanze gravi e morte rispetto alle persone senza diabete» spiega l’American Diabetes AssociationTuttavia, a peggiorare il quadro clinico, come evidenziato nel report dell’ISS, contribuiscono anche alcuni farmaci ad uso comune. Gli Ace inibitori, molecole con effetti antipertensivi che agiscono sulla funzionalità cardiaca ostacolando l'insorgenza della insufficienza renale, influenzano negativamente l’evoluzione dell’infezione.

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Per approfondimenti:

Adnkronos "Diabete in era Covid, più disagi in passaggio da pediatra a specialista"

Adnkronos "Settimana del Diabete: a novembre consulti gratis in 40 centri italiani"

Adnkronos "Molteni per la Giornata Mondiale del Diabete"

 Libero "Coronavirus, Melania Rizzoli: Perché chi soffre di diabete rischia più degli altri malati"

Giornale di Sicilia "Coronavirus: il diabete è un fattore di rischio"

Ok Benessere e Salute "Coronavirus: chi ha il diabete rischia di più di contrarre l’infezione?"

Blitz Quotidiano "Coronavirus, diabete fattore di rischio? Lo dice uno studio cinese"

Centro Meteo Italiano "Coronavirus, i sintomi più gravi potrebbero colpire chi soffre di diabete | Le parole dell’esperto"

Focus Tech "Covid-19 potrebbe causare sintomi peggiori sulle persone con diabete"

Tuo Benessere "CORONAVIRUS E DIABETE: C’È CORRELAZIONE?"

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Tutta l’amara verità sullo zucchero: dai rischi per la salute alla dipendenza

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La vitamina C (o acido ascorbico) svolge un ruolo importante nel normale funzionamento del sistema immunitario e il suo utilizzo nella prevenzione e nella cura delle infezioni ha attirato l'interesse di medici e ricercatori per quasi un secolo. Numerosi sono gli articoli pubblicati sull’argomento, sebbene sia noto che una carenza di vitamina C dovuta a un basso apporto nutritivo porti a una maggiore suscettibilità alle infezioni. Inoltre, come tutti sanno, un apporto maggiore di vitamina C, per contro, potenzia il sistema immunitario e l'uso degli integratori è considerato un rimedio, soprattutto invernale, per prevenire le malattie infettive. Oltre all’influenza c’è di più. Difatti, a peggiorare lo scenario, anche la rapida diffusione mondiale della SARS-CoV2 e la conseguente emergenza pandemica riconosciuta dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) richiede urgentemente uno sforzo globale per identificare tutto ciò che può curare i sintomi e ridurre i decessi. 46.509.232 milioni di contagiati e oltre 1.200.361 di morti nel mondo, numero in costante aumento. E anche se attualmente, nessuna terapia antivirale specifica è stata approvata per la cura del Covid-19, è importante proteggersi e prevenire questo virus con tutti i mezzi a disposizione.

VITAMINA C, un concentrato di proprietà e benefici

Tuttavia, è anche vero che una dieta equilibrata capace di soddisfare l'assunzione giornaliera di vitamina C influisce positivamente sul sistema immunitario e contribuisce, di conseguenza, alla riduzione della suscettibilità alle infezioni. Lo studio “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19”, pubblicato su Frontiers in Immunology, rivista ufficiale dell’International Union of Immunological Societies (IUIS), nasce con lo scopo di riassumere il ruolo immunologico della vitamina C, analizzando i suoi potenziali effetti se utilizzata come integratore alimentare, sui meccanismi coinvolti durante le infezioni virali respiratorie oltre a evidenziare gli effetti di questo prezioso nutriente nel trattamento della sepsi grave e delle condizioni di ARDS (Sindrome da distress respiratorio acuto). L’indagine mette in luce anche l’alto rischio che nelle categorie come obesi, diabetici, cardiopatici, anziani, etc…, l'integrazione con vitamina C potrebbe ridurre i marcatori dell'infiammazione, quindi di conseguenza la suscettibilità all’infezione e l'eventuale sviluppo della malattia stessa. Inoltre, in queste categorie di persone un'integrazione di vitamina C potrebbe modulare l'infiammazione, con potenziali effetti positivi sulla risposta immunitaria alle infezioni. Tuttavia, anche se l'impatto di un'assunzione orale maggiore di vitamina C sulla durata del raffreddore e sulla prevenzione o il trattamento della polmonite è ancora in discussione, dall'altra parte appare ormai confermata quella che prima era solo un'ipotesi: l'infusione di vitamina C nel trattamento per COVID-19 sui pazienti ricoverati in ospedale tra cui anziani o con importanti patologie. In sostanza, riassumendo gli studi più rilevanti dalla prevenzione e cura delle comuni patologie respiratorie all'uso della vitamina C in condizioni di malattia critica, con l'obiettivo di chiarirne la potenziale applicazione durante un'infezione acuta da SARS-CoV2, un'integrazione di vitamina C potrebbe modulare l'infiammazione, con potenziali effetti positivi sulla risposta immunitaria alle infezioni.

La ricerca tra integrazione e prevenzione

Il comune raffreddore è una delle infezioni virali delle alte vie respiratorie (URTI) più diffuse, caratterizzata da tosse, stanchezza, febbre, mal di gola e dolori muscolari, che persistono per un periodo che va da pochi giorni a non più di 3 settimane. Con "raffreddore comune" si fa generalemente riferimento a una sindrome aspecifica causata da diversi virus, sebbene il rinovirus sia il patogeno coinvolto più frequentemente, essendo presente nel 30-50% dei malati. Le evidenze scientifiche secondo cui un apporto molto elevato di vitamina C potrebbe portare a una minore suscettibilità alle infezioni delle vie respiratorie ha origine dalle teorie di Linus Pauling pubblicate negli anni Settanta. Secondo Pauling, un'assunzione giornaliera di vitamina C di 1.000 mg può ridurre l'incidenza del raffreddore di circa il 45% e l'assunzione giornaliera ottimale di vitamina C per vivere in modo sano e prevenire le malattie dovrebbe essere di almeno 2,3 g. Il COVID-19 è una nuova forma di polmonite virale riconosciuta a livello mondiale, causata dall'infezione da SARS-CoV2. La sintomatologia spesso inizia entro 2 settimane dal contagio e comprende principalmente febbre, affaticamento, tosse e mancanza di respiro. Le attuali conoscenze suggeriscono che mentre la maggior parte dei soggetti infetti (80% -90%) mostra sintomi lievi o può essere asintomatica, circa il 5% può sviluppare polmonite, ARDS e disfunzione multiorgano che porta alla morte. Premesso questo è indiscutibile che uno stato nutrizionale ottimale riduca efficacemente l'infiammazione e lo stress ossidativo, migliorando la regolazione del sistema immunitario. Inoltre, un'integrazione di vitamina C potrebbe essere efficace per migliorare lo stato di salute dei pazienti considerati ad alto rischio di infezioni virali, ovvero delle categorie già citate.

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Nella figura il meccanismo schematico in cui una IA di vitamina C potrebbe modulare funzioni specifiche dei neutrofili (ROS e TNFα, mediata da IL-1β), inibendo le vie coinvolte nella formazione della trappola extracellulare dei neutrofili (NETosis) e riducendo la produzione incontrollabile di citochine infiammatorie nell'alveolare spazio. Potenziali effetti sulla riduzione della produzione di citochine sono stati ipotizzati anche nei linfociti e nei macrofagi. ROS, specie reattive dell'ossigeno; NFkB, fattore di trascrizione nucleare kappa B; ┴, stimolo di inibizione; freccia tratteggiata, effetto o produzione ridotti.

Ma non è tutto. Infatti, un'integrazione di vitamina C potrebbe modulare l'infiammazione, con potenziali effetti positivi sulla risposta immunitaria alle infezioni. Soprattutto in casi particolari. Tra questi, la sepsi, una disfunzione d'organo pericolosa per la vita causata da una ridotta risposta dell'ospite all'infezione, caratterizzata da un drammatico fallimento del sistema circolatorio, metabolico e immunitario e riconosciuta come la causa principale di morte per infezione: i pazienti che sviluppano shock settico possono avere tassi di mortalità fino al 50%. In queste condizioni cliniche la letteratura mostra che alte dosi di vitamina C per infusione endovenosa possono ridurre la produzione di citochine infiammatorie connesse e potenzialmente migliorare i risultati importanti quali la durata del tempo di ventilazione meccanica e mortalità. Ciò è di particolare importanza poiché la sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) è una delle condizioni gravi più frequenti registrate nei pazienti COVID-19. L'ARDS è una sindrome grave e, in alcuni casi fatale, caratterizzata da una forte risposta infiammatoria con massiccio danno alveolare e insufficienza multiorgano, che richiede un trattamento in unità di terapia intensiva (ICU). Gli autori dell'indagine hanno poi riportato una percentuale di casi di ARDS di circa il 15% tra i pazienti ospedalizzati con infezione da SARS-CoV2.

Preziosa nella cura delle infezioni

La vitamina C è un nutriente essenziale che deve essere assunto attraverso l'alimentazione poiché gli esseri umani non sono in grado di sintetizzarlo. Il nostro corpo, nel corso del tempo, ha così sviluppato un efficace sistema di adattamento che mantiene le riserve organiche di vitamina C e ne previene la carenza dovuta a un basso apporto alimentare. Questi adattamenti includono una maggiore capacità di assorbimento e riciclaggio della vitamina C rispetto ad altre specie animali (ad esempio capre e rettili), che normalmente sono in grado di produrla. Negli esseri umani, al contrario, il muscolo scheletrico rappresenta il principale contenitore di vitamina C. L'omeostasi della vitamina C è finemente regolata da almeno quattro meccanismi: assorbimento intestinale, trasporto ai tessuti, riassorbimento renale ed escrezione di urina, regolati principalmente da una famiglia di proteine denominate trasportatori di vitamina C dipendenti dal sodio (SVCT). Oltre a un'ampia gamma di percorsi biochimici in cui è coinvolta la vitamina C, partecipa anche alla risposta del sistema immunitario innato e adattativo.

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Per approfondimenti:

Frontiers in Immunology “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19

PubMed "Evolution and the need for ascorbic acid"

MDPI "Vitamin C and Immune Function"

Il Messaggero "Covid, influenza stagionale e coronavirus: come distinguere i sintomi in caso di febbre"

Centro meteo italiano "Coronavirus, influenza stagionale e raffreddore, come distinguerli: i sintomi e le caratteristiche"

Corriere della Sera "Coronavirus, come incide la dieta sulla forza del sistema immunitario"

Salute Prevenzione "Nella guerra contro i Virus la scienza si dimentica sempre del Sistema Immunitario"

Philippe Lagarde "Libro d'oro della prevenzione: difendere la salute con gli integratori alimentari e le vitamine"

Sapere "I sistemi di difesa dell'organismo"

Corriere del Mezzogiorno "Coronavirus, come difendersi a tavola"

Il fatto alimentare "Coronavirus: dieta e trattamenti terapeutici naturali proposti da docenti di medicina"

LEGGI ANCHE: Vitamina C: rafforza il sistema immunitario e combatte virus e malanni di stagione

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Mercoledì, 28 Ottobre 2020 18:00

Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti

8 pazienti su 10 ricoverati per Covid con carenza di vitamina D. Lo dimostra indica lo studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism e condotto in Spagna, dal gruppo di José Hernández, dell'Università della Cantabria a Santander. Difatti, questo prezioso nutriente è fondamentale per il corretto funzionamento del sistema immunitario, prima linea di difesa nel contrasto agli agenti esterni. Un dato rilevante, anche se riferito a un solo ospedale spagnolo, a conferma dei precedenti studi epidemiologici secondo cui la carenza di vitamina D è più diffusa in quei Paesi dove il coronavirus ha mostrato una carica virale maggiore, provocando di conseguenza più vittime. L’équipe di ricercatori ha riscontrato che oltre 8 pazienti su 10 ricoverati per Covid nell'ospedale spagnolo durante la prima ondata di contagi erano carenti di vitamina D. Tra questi, sono soprattutto uomini ovvero, quelli con una mortalità maggiore rispetto alle donne. Inoltre, dall’indagine condotta è emerso che, più marcata era la carenza vitaminica, maggiori erano i marcatori infiammatori legati a grave infezione nel sangue dei pazienti.

In sostanza, «se il ruolo protettivo della vitamina D contro la sindrome Covid 19 fosse confermato dal trial clinico attualmente in corso in Gran Bretagna – evidenzia Hernández -, un approccio preventivo contro questo virus potrebbe essere quello di sopperire all’ipovitaminosi D, in particolare per le persone più a rischio come anziani, pazienti con altre patologie come il diabete ed il personale sanitario nei presidi di lunga degenza, ovvero tutte le popolazioni più a rischio di ammalarsi di COVID-19 in forma grave e con complicanze». A sostenere la tesi che le persone con bassi livelli di vitamina D potrebbero essere più vulnerabili al coronavirus, anche lo studio pubblicato sul Journal of American Medical Association Network Open e condotto dagli esperti dell'Università di Chicago che hanno esaminato la relazione tra i livelli di vitamina D e la maggiore probabilità di contrarre COVID-19 . «La vitamina D svolge un ruolo importante nel sistema immunitario, assicurando la salute delle cellule T e dei macrofagi, che combattono le infezioni» spiega David Meltzer dell'Università di Chicago. L’esperto sottolinea che anche indagini precedenti avevano già evidenziato un legame tra livelli più bassi di vitamina D e tassi più elevati di malattie respiratorie, come asma, tubercolosi o infezioni virali capaci di compromettere la regolare attività polmonare. «Secondo i nostri dati, tuttavia - continua lo scienziato -, la vitamina D, […] sembra essere collegata a una minore probabilità di infezione in forma grave». L'équipe di ricercatori ha sottolineato che chi era carente aveva un rischio 1,77 volte superiore rispetto a chi aveva livelli adeguati.

Uno scudo naturale contro il contagio

Da sempre tra i principali fattori di rischio. Tra le diverse patologie associate a una maggiore esposizione al Covid, viene allocata sin dall’esordio di questa pandemia, anche l’ipovitaminosi D. Ora, un altro studio, sembrerebbe confermare l’aiuto offerto contro la SARS-CoV-2 da livelli adeguati di questa vitamina. Pertanto, come evidenziato dagli scienziati «è stato riscontrato che il trattamento con vitamina D riduce l'incidenza di infezioni virali delle vie respiratorie, specialmente nei pazienti con carenza di vitamina D». Inoltre, studi precedenti, in particolare quello di un team di ricerca britannico composto da scienziati del The Queen Elizabeth Hospital Foundation Trust e dell’Università dell’East Anglia avevano trovato un’associazione tra tasso di decessi superiore per COVID-19 e popolazioni con vitamina D carente, mentre i professori Giancarlo Isaia dell’Accademia di Medicina di Torino ed Enzo Medico dell'Università degli Studi di Torino avevano rilevato una “elevatissima prevalenza di Ipovitaminosi D” nei pazienti con COVID-19 ricoverati nel capoluogo piemontese. 

L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi

Questa vitamina rafforza l'immunità innata, quindi potrebbe portare a una riduzione dell’infezione. Tuttavia, la quantità di vitamina D presente in quello che mangiamo non è sufficiente, poiché bisognerebbe mangiare questi alimenti in quantità troppo elevata. «La sintesi di essa da parte dell’organismo, attivata dall’esposizione alla luce solare, contribuisce all’80-90% dell'apporto di vitamina D. La sua assunzione con gli alimenti copre il 10–20 % del fabbisogno. Ne consegue che l’assunzione con la sola dieta non è generalmente sufficiente a mantenere il giusto apporto di vitamina D» spiega Renato Masala, endocrinologo della piattaforma di esperti di Top Doctors. Per questo è importante ricorrere al supporto di integratori alimentari per ovviare a questo deficit vitaminico. «La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni».

Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D

Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo.

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Per approfondimenti:

ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"

Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"

Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"

Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"

JAMA Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"

Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"

AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"

Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"

Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"

Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"

Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"

LEGGI ANCHE: Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D

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Estremamente contagioso e non risparmia nessuno. Parliamo di Covid, il virus che da mesi sta mettendo a rischio la nostra salute.Come tutti sappiamo ormai, i soggetti più esposti sono sicuramente le categorie più deboli: anziani e malati. Ma non sono solo loro ad essere alla mercé di un nemico invisibile. Infatti, oltre alle persone avanti con gli anni o affette da diverse patologie croniche ci sono tutti gli altri. Bambini, adolescenti e adulti. Tra i fattori che incidono maggiormente sulla probabilità di contrarre questo virus c'è sicuramente l'obesità . Uno studio pubblicato su Jama, ha dimostrato che le persone obese hanno un rischio più che doppio di ospedalizzazione per Covid 19 rispetto ai normopeso e un 50% di probabilità in più di complicanze. L'indagine, condotta da Barry Popkin, nutrizionista ed esperto di obesità dell'università del North Carolina a Chapel Hill ha analizzato 75 studi internazionali sul tema, per indagare i dati disponibili sul rapporto tra obesità e Covid 19. I risultati della loro analisi hanno poi fugato ogni dubbio precedente: un obeso avrebbe il 46% di probabilità in più di contrarre la malattia, il 113% in più (un rischio più che doppio quindi) di essere ricoverato in caso di contagio, il 74% in più di finire in terapia intensiva, e il 48% in più di morire a causa di Covid 19 .

Le vere causa dell'obesità

Il 46% della popolazione italiana tra sovrappeso e obesità. La prevalenza, inoltre, aumenta al crescere dell’età, ed è maggiore nel genere maschile: la prevalenza massima riguarda la fascia d’età dei 65-74enni, con un 68,2% di soprappeso e obesi tra gli uomini e un 54,9% tra le donne. Inoltre, nel nostro Paese è obeso l’11% della popolazione. È quanto riportato dall’ultimo Italian Obesity Barometer Report, realizzato dall’Italian Barometer Diabetes Observatory foundation in collaborazione con l’Istat. «Nella gestione di questa epidemia la questione dell’obesità è stata per lo più ignorata e dobbiamo ricordare che nel mondo abbiamo più di due miliardi di persone obese e in sovrappeso, che presto saliranno a due miliardi e mezzo» ricorda su Jama Popkin. «L’obesità è uno dei grandi problemi che affronta oggi la sanità, e sapevamo che l’obesità avrebbe avuto una relazione importante con Covid – continua - eppure il tema è stato ignorato dai decisori politici e molti ricercatori, con un’attenzione molto maggiore riservata al diabete, all’ipertensione e disturbi cardiovascolari come problemi per chi contrae Covid».

 Obesità  in aumento, due miliardi nel mondo

La prevalenza di individui con sovrappeso o obesità è ai massimi storici e sta aumentando in tutto il mondo. Questo è vero non solo nei paesi a reddito più elevato, ma anche nei paesi a reddito medio e basso con alti livelli di malnutrizione che portano al doppio fardello della malnutrizione. Pochi paesi a basso e medio reddito hanno una prevalenza di individui con sovrappeso o obesità inferiore al 20% tra la popolazione adulta. Questa prevalenza non è in calo in nessun paese. Nei paesi a reddito più elevato, la prevalenza di individui con sovrappeso/obesità era già elevata negli anni '90 e ha continuato ad aumentare. Infatti, porzioni più ampie delle loro popolazioni sono diventate individui con obesità patologica con indici di massa corporea (BMI) superiori a 35-40 kg m −2. L'obesità è intrinsecamente una malattia metabolica caratterizzata da alterazioni del metabolismo sistemico, tra cui resistenza all'insulina, aumento del glucosio sierico, adipochine alterate (ad esempio l'aumento della leptina e diminuzione dell'adiponectina) e infiammazione cronica di basso grado. Una forte evidenza dimostra come la disregolazione degli ormoni e dei nutrienti negli individui con obesità possa compromettere la risposta alle infezioni. L'iperglicemia, un segno distintivo chiave del T2D, è altamente associata agli individui con obesità. È importante sottolineare che è stato dimostrato che il glucosio sierico non controllato aumenta significativamente la mortalità per COVID-19. Durante i periodi di infezione, il glucosio sierico incontrollato può compromettere la funzione delle cellule immunitarie direttamente o indirettamente tramite la generazione di ossidanti e prodotti di glicazione. Allo stesso modo, sia la segnalazione dell'insulina che della leptina sono fondamentali nella risposta dell'effettore infiammatorio dei linfociti T in quanto regolando la glicolisi cellulare, supportando la produzione di citochine effettrici. Questi fattori metabolici si combinano per influenzare il metabolismo delle cellule immunitarie, che determina la risposta funzionale ai patogeni, come SARS ‐ CoV ‐ 2. Inoltre, le persone obese hanno effetti modulatori su popolazioni di cellule immunitarie chiave critiche nella risposta a SARS ‐ CoV ‐ 2. In particolare, un aumento dell'IMC è associato a una maggiore frequenza dei sottoinsiemi di cellule T CD4 antinfiammatorie Th2 e cellule T regolatorie.

Obesità e ipertensione arteriosa

«I dati di letteratura disponibili confermano senz’altro l’aumentato rischio di ricoveri e decessi negli obesi», spiega Paolo Sbraccia, professore di Medicina Interna e direttore dell’Unità di medicina interna – centro medico dell’obesità dell’Università Tor Vergata di Roma. «I motivi sono molti: il tessuto adiposo, come le cellule dei polmoni, esprime la famosa proteina Ace 2 a cui si lega il virus, e queste proteine possono facilmente staccarsi e raggiungere i polmoni, facilitando l’invasione di Sars-Cov-2. L’organismo degli obesi presenta poi uno stato di infiammazione cronica che facilita l’insorgenza della tempesta di citochine, tra le complicazioni più gravi di questa malattia. L’obesità in sé, inoltre, crea problemi di respirazione e complica le procedure di ventilazione messe in pratica nelle terapie intensive, rendendo così più probabile un quadro clinco più grave. Ci sono meno certezze invece sulla possibilità che l’obesità renda anche più alto il rischio di infezione da Sars-Cov-2, anche se esistono indizi di un’alterazione del funzionamento del sistema immunitario legato all’obesità che potrebbero spiegare questa evenienza. E purtroppo, presagirebbero anche una minore efficacia dei vaccini nelle persone obese». Anche il consumo alimentare di acidi grassi può influenzare le risposte infiammatorie. Le prostaglandine, i derivati degli acidi grassi a catena lunga, sono pirogeni di fase acuta che danno inizio alla risposta infiammatoria locale durante l'infezione.

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(Fonte: Il Sole 24Ore)

La pericolosità del virus per le persone in sovrappeso, d’altronde, è emerso chiaramente in zone come gli Stati Uniti, dove la prevalenza dell’obesità è notevolmente più alta di quella del nostro paese: «A New York – sottolinea Sbarca – si è vista da subito un’alta letalità del virus nelle comunità più disagiate, in cui l’obesità è un problema più comune. Da noi nella prima ondata la letalità dell’epidemia è risultata più alta nelle persone molto anziane, ma anche questo sta cambiando». «Dati certi non sono ancora disponibili – continua Sbraccia – ma parlando con i colleghi che si occupano delle terapie intensive sembra che l’età media dei ricoverati sia scesa di almeno 10 anni, e in moltissimi casi questi pazienti, che hanno ormai un’età media che si aggira attorno ai 70 anni, soffrono di obesità».

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Per approfondimenti:

Obesity Review "Individuals with obesity and COVID‐19: A global perspective on the epidemiology and biological relationships"

La Repubblica "L’obesità raddoppia il rischio di ricovero per Covid 19"

JAMA Network "Large Meta-analysis Digs Into Obesity’s COVID-19 Risks"

Fanpage "L’obesità può aggravare l’infezione da coronavirus nei giovani"

La Stampa "Scatta l’allarme obesità: è la regina di ogni malattia eppure la sottovalutiamo"

Agi  " Gli obesi sono più a rischio Coronavirus "

OK Benessere e Salute  " Obesità: in Italia un morto ogni 10 minuti. Serve una svolta "

OK Benessere e Salute  " Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono" "Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono "

Società Italiana Obesità (SIO)

Società Italiana di chirurgia dell'Obesità e delle Malattia Metaboliche (SICOB.)

Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)

 LEGGI ANCHE:  Obesità e altri disordini metabolici: in Italia, un morto ogni 10 minuti

Dal sovrappeso all'obesità: Vitamina D, nemica dei chili di troppo

Pubblicato in Informazione Salute

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