Coronavirus, chi rischia di più? Scatta l’allarme per i diabetici. Il 43,9% dei soggetti deceduti avevano il diabete. Il report del 20 marzo, dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui pazienti deceduti in Italia, conferma la probabilità di maggiore mortalità in presenza di diabete. Mentre, il 48,6% presentava 3 o più patologie croniche. Secondo il Current Diabetes Review «il diabete di tipo 2 può «aumentare l’incidenza delle malattie infettive e delle comorbilità correlate». E anche se questi non hanno maggiore probabilità di essere contagiati, rischiano sicuramente più degli altri di sviluppare gravi complicanze, una volta contratto il virus. È la conclusione di un équipe di ricercatori dell’Università di Padova. La ricerca, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, dimostra come i pazienti diabetici, soggetti a un aggravamento del quadro clinico in presenza di qualsiasi malattia acuta, nel caso di infezione da SARS-CoV2 hanno un rischio di prognosi peggiore della patologia, rispetto a quella degli altri soggetti infetti non diabetici.
I soggetti più a rischio sono «le persone anziane e le persone con condizioni mediche preesistenti, come ipertensione, malattie cardiache, malattie polmonari, cancro o diabete» rende noto l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). A conferma della teoria, una ricerca cinese, pubblicata sulla rivista scientifica Diabetes/Metabolism Research and Reviews, condotta nella Huazhong University of Scienze di Wuhan, sui pazienti con diabete di tipo 1 o di tipo 2 positivi al Covid-19. Lo studio ha registrato valori più elevati di alcuni indici coagulativi e di marcatori infiammatori nei diabetici con polmonite virale in atto, sottolineando come le eccessive risposte di ipercoagulabilità e di flogosi interstiziale a livello degli alveoli polmonari, legati ad una cattiva regolazione del metabolismo del glucosio, aggravassero di fatto il decorso della polmonite da Coronavirus, favorendo lo sviluppo di complicanze multiorgano, coinvolgenti il cuore, il fegato, i reni, l'apparato vascolare e neurologico. L’indagine dimostra che questi soggetti presentano un’infiammazione più acuta degli altri.
L’interconnessione tra Covid-19 e diabete è dovuto all’enzima attraverso cui il virus entra nelle cellule delle vie respiratorie è lo stesso espresso nelle cellule del pancreas e del fegato, e il paziente portatore di entrambe le malattie presenta indici coagulativi, marcatori infiammatori e proteina C reattiva con più alti livelli nel sangue rispetto ai soggetti positivi al Coronavirus, ma senza diabete. Inoltre, le “abituali” complicanze causate dal diabete come neuropatie, retinopatie, arteriopatie e nefropatie, oltre a una maggiore predisposizione a contrarre patologie batteriche e virali durante la infezione Covid 19 si riacutizzano, peggiorando la già critica situazione clinica, esponendo così, il soggetto diabetico, a un elevato rischio di complicanze dei suoi organi vitali. Lo studio dimostra che non solo le persone con diabete, ma tutti i soggetti con valori alterati della glicemia sviluppano una serie di complicanze non trascurabili. Dei 20 pazienti positivi al virus e ricoverati in terapia intensiva, 15 avevano problemi di diabete o di obesità. Anche quest’ultima patologia predispone un’aggressività più alta dell’infezione SARS-CoV2 che attacca con maggiore facilità i soggetti con un sistema immunitario più debole.
Noto è infatti, soprattutto tra le persone in sovrappeso, le difficoltà respiratorie e, sappiamo bene che, il coronavirus, aggredisce prevalentemente l’apparato respiratorio, e quindi, i polmoni. Proprio per questo, per tutte le persone affette da queste patologie o con problemi di glicemia, è importante la prudenza seguendo minuziosamente tutte le misure di prevenzione raccomandate dal Ministero della Salute, oltre a quelle igieniche e al distanziamento sociale, al fine di evitare il contagio. Il rischio poi, diventa più elevato se, a queste (e altre) patologie si aggiunge un altro fattore: l’età. Per queste persone, la sovrapposizione dell’infezione virale a un’altra malattia potrebbe essere fatale. Tra le altre patologie che rendono un soggetto maggiormente esposto e vulnerabile ricordiamo: cancro, malattie cardiovascolari, ipertensione, asma, cardiopatia, insufficienza renale e neuropatia. Secondo uno studio pubblicato sul Current Diabetes Review, la disfunzione della risposta immunitaria rende i diabetici più sensibili alle infezioni. L’iperglicemia nei diabetici potrebbe essere una causa di questa disfunzione che si manifesta in un mancato controllo della diffusione di agenti patogeni invasori, rendendo i soggetti affetti da diabete più sensibili alle infezioni. Riportando, in alcuni casi, anche danni al sistema circolatorio e, di conseguenza, ciò il rallentamento dell’irrorazione sanguigna.
Il sistema immunitario svolge un ruolo importante nei soggetti con diabete che sviluppano gravi sintomi di coronavirus. «Alti livelli di zucchero nel sangue per un lungo periodo di tempo possono effettivamente deprimere il sistema immunitario, quindi non risponde più rapidamente al virus quando entra nel corpo e ha più tempo per replicarsi, scendere ai polmoni e causare i problemi legati alla respirazione che possono portare alla necessità di cure ospedaliere» spiega Amir Khan, affermato specialista ed esperto nella patologia del diabete di tipo 1 e 2. L’esperto fa poi riferimento ai dati diffusi dalla Cina che mostrano, nei primi 44.672 casi positivi, le persone che avevano malattie cardiovascolari, precedenti infarti o ictus, avevano un tasso di mortalità più alto (10,5%). «In Cina, dove la maggior parte dei casi si è verificata finora, le persone con diabete avevano tassi molto più alti di complicanze gravi e morte rispetto alle persone senza diabete» spiega l’American Diabetes Association. Tuttavia, a peggiorare il quadro clinico, come evidenziato nel report dell’ISS, contribuiscono anche alcuni farmaci ad uso comune. Gli Ace inibitori, molecole con effetti antipertensivi che agiscono sulla funzionalità cardiaca ostacolando l'insorgenza della insufficienza renale, influenzano negativamente l’evoluzione dell’infezione.
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Il miracolo della vitamina D: aumenta il sistema immunitario da 3 a 5
Previene diabete, patologie oncologiche e malattie cardiovascolari. E rallenta l’invecchiamento! Al via con l’elisir della salute: il digiuno terapeutico dei 5 giorni. È questo il risultato dello studio condotto da un team di ricercatori della University of Southern California, pubblicato sulla rivista Cell Metabolism. Lo stop di cinque giorni all’apporto calorico giornaliero, secondo questa ricerca, potrebbe rivelarsi un vero e proprio toccasana e i benefici interesserebbero, di conseguenza, l’intero organismo. E non è tutto! «Il digiuno è un'arma straordinaria per contrastare le malattie e assicurasi una maggiore longevità» sostiene Adriano Panzironi. «La natura è in grado di curare ogni tipo di patologia - prosegue Panzironi, citando Ippocrate - e il digiuno è in grado di contrastare tutte quelle malattie che interferiscono con il corretto funzionamento del nostro sistema immunitario, come gotta, artrite, fibromialgia, asma e tutte quelle che coinvolgono la risposta immunitaria». Sottolinea poi una correlazione tra digiuno e riduzione dell'infiammazione spiegando che, una volta riattivato il sistema di equilibrio cellulare e ripristinata la reazione immunitaria, il nostro sistema sarebbe in grado di contrastare un'invasione batterica o un virus. Ricorda, infine, i tanti studi sulla restrizione calorica «la riduzione di cibo alle cavie portava a un aumento della longevità, il digiuno ha gli stessi effetti, è quindi in grado di allungare la nostra vita». Difatti, un regime alimentare di questo tipo potrebbe anche allungare la vita delle persone e soprattutto «ridurre il rischio di diabete, cancro, malattie cardiovascolari e altri disturbi legati all'invecchiamento» spiega il professor Valter Longo della USC Davis School of Gerontology, al quotidiano britannico Telegraph.
Tutto quello che c'è da sapere sul digiuno teraupedico intermittente
I notevoli benefici sul nostro corpo sono dimostrati dall’indagine condotta sui topi. Quelli sottoposti a un regime di breve digiuno subivano un importante rinnovamento cellulare, anche a livello cerebrale. Nei topi più vecchi, invece, sottoposti allo stesso stile alimentare, risultava diminuito il rischio di cancro, rinforzato il sistema immunitario, ridotti notevolmente i processi infiammatori e rallentata la perdita di densità ossea. Miglioravano, poi, sia nei vecchi, sia in quelli più giovani, anche le capacità cognitive. Secondo gli scienziati, il tutto è riconducibile a un ormone che stimola l’invecchiamento. I soggetti normopeso possono scegliere per la dieta dei 5 giorni da praticare ogni 3 o 6 mesi. Tutto dipende dalla circonferenza addominale e dallo stato di salute.
Una digiuno per vivere in salute e più a lungo. ll professor Longo, direttore del Longevity Institute all’University of Southern California e inventore della Dieta Mima Digiuno (DMD), menzionato nel 2018 dal TIME nella lista dei 50 personaggi più influenti del settore salute, è considerato il leader mondiale nei campi di nutrizione e longevità. Insieme al suo team di ricerca ha studiato un regime dietetico che portasse i suoi benefici al nostro corpo, una dieta che, infatti, ha effetti benefici sul nostro fisico, ma svolge anche un ruolo importante nella prevenzione dell’invecchiamento. Vediamo esattamente in cosa consiste. Stato di digiuno (giorno 1): transizione in uno stato di mima digiuno con conseguente ottimizzazione cellulare. Brucia grassi (giorno 2): il corpo passa alla combustione dei grassi, inizia la pulizia cellulare. Riciclo cellulare (giorno 3): riciclo e generazione di nuove cellule con alte possibilità di raggiungere la chetosi completa. Rigenerazione cellulare (giorno 4): l’autofagia continua e aumenta la rigenerazione delle cellule staminali. Rinnovamento (giorno 5): la rigenerazione delle cellule staminali continua e il corpo viene ringiovanito dall’interno.
Digiuno terapeutico ed effetti benefici perla salute
Il digiuno può rigenerare l’intero organismo. «Penso che sulla base dei marcatori dell'invecchiamento – dichiara Valter Longo sul Telegraph - e delle malattie negli esseri umani abbia il potenziale per aggiungere un numero di anni di vita, ma soprattutto per avere un impatto maggiore su diabete, cancro, malattie cardiache e altre malattie legate all'età». Oltre, ovviamente al grasso corporeo. «Si tratta di riprogrammare il corpo in modo che entri in una modalità di invecchiamento più lenta, ma anche di ringiovanirlo attraverso la rigenerazione basata sulle cellule staminali», aggiunge Longo. La ricerca dimostra come l’eliminazione delle calorie non solo prevenga l'aumento di peso, ma prolunghi anche la buona salute e la longevità delle persone. Sulla ricerca interviene anche Lynne Cox, docente all’Università di Oxford: «Tutti i risultati puntano in una direzione, l'imitazione periodica del digiuno porta a marcate diminuzioni dei fattori di rischio per malattie come il diabete e le malattie cardiache e, nei topi, sono state osservate migliorate memorie a breve e lungo termine».
DIGIUNO e cure tradizionali: alleati per contrastare CANCRO e TUMORE
A sostegno della ricerca anche altri studi. La composizione dietetica e il livello calorico sono fattori chiave che influenzano l’invecchiamento e le malattie legate all’età (Antosh et al., 2011, Blagosklonny et al., 2009, Fontana et al., 2010, Gemme e pernici, 2013, López-Otín et al., 2013 e Tatar et al., 2003). La restrizione dietetica (DR) promuove i cambiamenti metabolici e cellulari che influenzano il danno ossidativo e l'infiammazione, ottimizzano il metabolismo energetico e migliorano la protezione cellulare (Haigis e Yankner, 2010, Johnson et al., 2000, Lee et al., 2012b, Longo e Finch, 2003, Mair e Dillin, 2008, Narasimhan et al., 2009 e Smith et al., 2008). Nei roditori, il digiuno intermittente (IF) promuove la protezione contro il diabete, il cancro, le malattie cardiache e la neurodegenerazione (Longo e Mattson, 2014). Nell'uomo, l'IF e i regimi meno gravi hanno effetti benefici su insulina, glucosio, proteine C-reattive e pressione sanguigna (Harvie et al., 2011). Di recente, abbiamo dimostrato che la PF provoca una forte riduzione dei livelli dei globuli bianchi seguita dalla rigenerazione del sistema immunitario basata sulle cellule staminali dopo il refeeding (Cheng et al., 2014). Altri hanno riferito sul ruolo della PF nel causare notevoli riduzioni del fegato e della massa corporea nei ratti (Wasselin et al., 2014).
Valter Longo e la dieta del MIMA DIGIUNO, ma funziona davvero?
«Il digiuno è un’arma straordinaria sia per contrastare le patologie dell’uomo che per allungare la nostra vita» incalza Adriano Panzironi che consiglia un digiuno terapeutico intermittente, ovvero di 5 giorni ogni 3 mesi. Tuttavia, Panzironi, seppur d'accordo dei tanti benefici della dieta menzionati nella ricerca di Valter Longo non sposa la stessa filosofia sulla Mima Dieta perché considera il digiuno (fatto di solo acqua) non equivalente a uno “pseudo-digiuno” e soprattutto, non in grado di apportare gli stessi risultati sull’organismo. Lo stesso, infatti, considera curativo il digiuno perché consente la produzione di corpi chetonici.
Cell Metabolismi "A Periodic Diet that Mimics Fasting Promotes Multi-System Regeneration, Enhanced Cognitive Performance, and Healthspan"
The Telegraph "Five day 'fasting' diet slows down ageing and may add years to life"
Leggo "Dieta Mima Digiuno di Valter Longo: il digiuno simulato per dimagrire ed essere più longevi"
(USC) University of Southern California "Fasting-Mimicking Diet Reverses Diabetes in Mice"
Eco Farma "Dieta Mima Digiuno: Schema dei 5 giorni"
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«La vitamina C per via endovenosa è un antivirale sicuro, efficace e ad ampio spettro» è la rivelazione di Richard Z. Cheng, MD, PhD, medico specialista cinese-americano. Dopo Shanghai e New York, è la volta di Palermo. Anche in Italia si parte con la sperimentazione di alte dosi di vitamina C somministrate per endovena ai soggetti positivi al coronavirus. Lo studio, sarà condotto nell’Ospedale Nazionale di Rilevanza Arnas Civico, di Cristina Benfratelli, nel palermitano. Nell’indagine saranno inclusi tutti i pazienti ricoverati con esito positivo al tampone e polmonite interstiziale o sottoposti a intubazione. Saranno successivamente raccolte, sui soggetti, una serie di informazioni tra cui informazioni personali e anamnestiche, risultati clinici e di laboratorio come genere, età, etnia, comorbidità, droghe, azoto ureico nel sangue, creatinina, elettroliti, conta delle cellule del sangue, clearance dei lattati, PCR, PCT, Punteggio SOFA, funzionalità epatica, coagulazione, analisi dei gas nel sangue, pressione arteriosa sistolica e diastolica, Sp02, glicemia, indice di massa corporea (BMI). Sarà poi registrata per ciascuno anche la durata della degenza. Previa autorizzazione, ai soggetti verranno poi somministrati 10 gr di vitamina C in 250 ml di soluzione salina con una frequenza di 60 gocce al minuto.
COVID-19 e Vitamina C: Anche Palermo si muove
Dieci giorni fa, gli ospedali di New York, iniziavano a curare i malati di Covid-19 con alti dosaggi di vitamina C. La notizia si diffonde in fretta, il primo a pubblicarla il New York Post in un articolo: «Nel più grande sistema ospedaliero dello stato di New York, i pazienti gravemente malati di coronavirus, ricevono dosi massicce di vitamina C». Andrew G. Weber, pneumologo e specialista in terapia intensiva del Northwell Health a Long Island, un’intervista al NYP, spiega che per curare il virus e limitarne le complicanze stava somministrando, ai pazienti, in terapia intensiva, affetti da coronavirus, 1.500 milligrammi di vitamina C tre o quattro volte al giorno. Tuttavia, l’uso dell’acido ascorbico contro le polmoniti e le infezioni polmonari è una pratica nota dagli anni '30. Infatti, già nel 1936 Gander e Niederberger, due medici tedeschi scoprirono che la vitamina C aveva la capacità di abbassare la febbre e riduceva il dolore nei pazienti affetti da polmonite (Gander and Niederberger "Vitamin C in the handling of pneumonia" Munch. Med. Wchnschr., 31: 2074, 1936). Sempre lo stesso anno, un altro esperto tedesco otteneva risultati positivi con la somministrazione di 500 milligrammi di vitamina C, ogni novanta minuti, ai pazienti affetti da polmonite (Hochwald A. Beobachtungen "Ascorbinsaurewirkung bei der krupposen Pneumonie" Wien. Arch. F. Inn. Med. , 353, 1936). Era il '44 quando due medici americani, Slotkin & Fletcher, curarono con l’acido ascorbico un paziente che aveva sviluppato una grave infezione polmonare a seguito di un intervento (Slotkin & Fletcher, "Acido ascorbico in complicanze polmonari a seguito di chirurgia prostatica” Jour. Urol. , 52: 6 novembre 1944). Due anni dopo, la vitamina C veniva usata abitualmente dai chirurghi del Millard Fillmore Hospital, a Buffalo, come profilassi contro la polmonite. Inoltre, i medici militari curavano le polmoniti dei soldati con l’acido ascorbico iniettato per endovena.
Dal trattamento clinico per i contagiati alla misura di prevenzione per contrastare il virus, Ken Walker Gifford-Jones lancia il suo j'accuse contro la mancanza di intervento dei governi degli Stati colpiti dall'emergenza e dei rispettivi sistemi sanitari: «L'efficacia della vitamina C, nel ridurre la mortalità dovuta all'infezioni virali, è ampiamente stata dimostrata, non somministrarla ai pazienti affetti da COVID-19 è uguale all'omicidio». A sostegno della sua tesi, Lendon H. Smith autore della Clinical Guide to the Use of Vitamin C che riprende la ricerca del Dr. Frederick R. Klenner, pioniere nell'utilizzo della vitamina C e nella sua applicazione, con successo, a varie malattie virali e batteriche. Diverse ricerche hanno dimostrato, infatti, che l’acido ascorbico (vitamina C) influenza positivamente lo sviluppo e la maturazione dei linfociti T, in particolare le cellule NK (Natural Killer) coinvolte nella risposta immunitaria agli agenti virali. Contribuisce, inoltre, all’inibizione della produzione di ROS e alla rimodulazione della rete di citochine tipiche della sindrome infiammatoria sistemica. I recenti studi, poi, hanno anche dimostrato e confermato l’efficacia della somministrazione di vitamina C in termini di riduzione della mortalità, ai pazienti con sepsi ricoverati nei reparti di terapia intensiva, di scomparsa dei sintomi e di modifica dello stato del tampone. In considerazione dell’attuale emergenza SARS-CoV-2, è stato predisposto questo studio sui pazienti ospedalizzati con polmonite Covid-19.
Dopo la sua comparsa in Cina, il coronavirus, si è diffuso nel resto del mondo, trasformandosi, in pochi mesi, in una pandemia, tramutando in un lazzaretto, Paese dopo l’altro. Di pari passo alla diffusione di questo nuovo virus si registra anche un aumento del numero di polmoniti identificate con il termine “polmonite infettata da coronavirus” (2019-nCoV) (NCIP), caratterizzata da febbre, astenia, tosse secca, linfopenia, prolungata tempo di protrombina, elevata deidrogenasi lattica e imaging tomografico indicativo di polmonite interstiziale (vetro smerigliato e ombre irregolari). La decisione di adottare l’uso della vitamina C per via endovenosa, in aggiunta alla terapia convenzionale, deriva dall’evidenza sperimentale delle sue proprietà anti-infiammatorie e antiossidanti. La vitamina C, infatti, provoca una maggiore proliferazione di assassini naturali senza comprometterne la funzionalità. Inoltre, la vitamina C riduce la produzione di ROS (specie reattive dell’ossigeno) che contribuiscono all’attivazione dell’infiammosomi e, in particolare, della NLRP3 che influenza la maturazione e la secrezione di citochine come IL1beta e IL-18 che sono coinvolte nella sindrome sistemica infiammatoria che ha caratterizzato la sepsi. La vitamina C blocca l’espressione di ICAM-1 e l’attivazione di NFKappaB. Ed è proprio per questo motivo che l’uso dell’acido ascorbico potrebbe essere efficace in termini di riduzione della mortalità e di risultati positivi sulle eventuali complicanze.
«Il dosaggio della Vitamina C somministrato negli ospedali di New York è troppo basso» spiega Richard Z. Cheng, MD, PhD, leader internazionale del team di supporto medico epidemico della vitamina C in Cina. Sulla smentita di FB Fact Check, in merito alla raccomandazione ufficiale da parte del governo di Shanghai di somministrare la vitamina C ad alte dosi per il trattamento del coronavirus, chiarisce Cheng: «Non solo Shanghai, ma anche Guangzhou, nella provincia del Guangdong, un’altra grande città della Cina, ha approvato ufficialmente IVC ad alte dosi per il trattamento di Covid-19». Il dottor Cheng ritiene necessario un intervento immediato oltre a un trattamento efficace e sicuro per salvare vite umane e limitare la diffusione del virus e, quindi, di conseguenza il contagio.
«La sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) – scrive Cheng in un articolo pubblicato su Science Direct - è un fattore chiave di mortalità. Lo stress ossidativo significativamente aumentato dovuto al rapido rilascio di radicali liberi e citochine è il segno distintivo di ARDS che porta a lesioni cellulari, insufficienza d’organo e morte». «L’uso precoce di antiossidanti ad alte dosi – prosegue l’articolo -, come la vitamina C (VC), può diventare un trattamento efficace per questi pazienti. Gli studi clinici dimostrano anche che il VC orale ad alte dosi fornisce una certa protezione contro l’infezione virale». «Né la somministrazione endovenosa né orale di VC ad alte dosi è associata a significativi effetti collaterali. Pertanto, questo regime deve essere incluso nel trattamento di COVID-19 e utilizzato come misura preventiva per le popolazioni sensibili come gli operatori sanitari con rischi di esposizione più elevati» conclude Cheng.
Using vitamin C as a treatment
Il coronavirus e l’influenza sono tra i virus pandemici che possono causare lesioni polmonari letali e morte per ARDS. Le infezioni virali potrebbero evocare una ‘tempesta di citochine’ che porta all’attivazione delle cellule endoteliali dei capillari polmonari, all’infiltrazione dei neutrofili e all’aumento dello stress ossidativo (specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto). L’ARDS, caratteristica dell’ipossiemia grave, è generalmente accompagnata da infiammazione incontrollata, lesioni ossidative e danni alla barriera alveolare-capillare. L’aumento dello stress ossidativo è un grave insulto nella lesione polmonare, inclusa la lesione polmonare acuta (ALI) e l’ARDS, due manifestazioni cliniche di insufficienza respiratoria acuta con morbilità e mortalità sostanzialmente elevate.
U.S. National Library of Medicine "Use of Ascorbic Acid in Patients With COVID 19"
Treatment for severe acute respiratory distress syndrome from COVID-19
Science Direct - Medicine in Drug Discovery "Can early and high intravenous dose of vitamin C prevent and treat coronavirus disease 2019 (COVID-19)?"
Gander and Niederberger "Vitamin C in the handling of pneumonia" Munch. Med. Wchnschr., 31: 2074, 1936
Hochwald A. Beobachtungen "Ascorbinsaurewirkung bei der krupposen Pneumonie" Wien. Arch. F. Inn. Med. , 353, 1936
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Controllare l'infiammazione fa guarire meglio. Lo dimostra nuovamente una ricerca pubblicata su Medical Hypotheses, che individua il recettore proinfiammatorio per l'insulina a livello cerebrale come co-artefice di una peggior prognosi in caso di trauma cranico. In poche parole, se sei infiammato e hai più insulina del dovuto in circolo (le due cose sono per altro spesso correlate), le tue ferite si ripareranno più lentamente, con un maggior rischio di non guarire affatto. Controllare l'apporto di zuccheri (compresi i dolcificanti artificiali), modulandolo ad esempio con l'aggiunta di qualche proteina (carne, uova, noci...) e fibra (cereali integrali al posto di quelli raffinati), riducendo la propria infiammazione generale, è uno strumento potente per aiutare tutti quei processi anche minori di cicatrizzazione e di guarigione.
Non si tratta solo del trauma cranico, ma anche ad esempio della anche piccola ferita chirurgica, del tatuaggio fatto da poco e di qualsiasi processo di guarigione che sia in corso (dall'influenza, alla cistite, all'afta orale). Con poche semplici attenzioni, quali evitare per qualche giorno di assumere quei cibi che creano infiammazione nel singolo (a questo scopo, eseguendo un test come RecAller Program è possibile individuare a quali alimenti si sia sensibili) o anche abbinare carboidrati e proteine, si possono ottenere grossi risultati in termini di velocizzazione della guarigione e miglioramento del risultato. Avere questo tipo di attenzione nel lungo periodo, anche in maniera più delicata, limitandosi ad esempio a un giorno solo di astinenza settimanale dai cibi che più creano infiammazione, significa invece avere un minimo di riparo e una possibilità in più di essere pronti a reagire a qualsiasi tipo di avversità con slancio, prontezza e vigore. Ridurre la propria infiammazione, anche attraverso il controllo degli zuccheri nel sangue significa quindi sì stare meglio, ma anche guarire meglio e vivere meglio, per lasciare più tempo alle cose che lo meritano.
Fonte: Eurosalus