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Studiosi Usa hanno scoperto che un dosaggio quotidiano di 2000 UI di vitamina E, rispetto al placebo, rallenta efficacemente il declino funzionale dei pazienti e riduce la loro necessità di essere assistiti Washington, 3 gennaio 2013 - L’uso di vitamina E nei pazienti con lieve o moderato morbo di Alzheimer rallenta il declino funzionale, secondo un nuovo studio pubblicato su JAMA. La ricerca condotta da Maurice W. Dysken del Minneapolis VA Health Care System ha scoperto che un dosaggio quotidiano di 2000 UI di vitamina E, rispetto al placebo, rallenta efficacemente il declino funzionale dei pazienti e riduce la loro necessità di essere assistiti. L’indagine ha coinvolto un campione di seicentotredici pazienti con Alzheimer di lieve e moderata entità.

Le prestazioni e lo stato di salute dei partecipanti sono stati monitorati attraverso l’Alzheimer’s Disease Cooperative Study/Activities of Daily Living (ADCS-ADL) Inventory score. Su un periodo medio di follow up di 2,3 anni, i pazienti che hanno ricevuto la vitamina E hanno mostrato un declino funzionale più lento di quelli che hanno ricevuto il placebo con tassi annuali di riduzione del diciannove per cento. Nel gruppo a cui è stata somministrata la vitamina E, il tempo dedicato all’assistenza da medici e familiari è diminuito di circa due ore al giorno.

Fonte: Quotidiano.net

La vitamina C, somministrata per via endovenosa in quantità equivalenti a quelle contenute in 2000 (duemila!) arance, potrebbe costituire un’arma in più nell’arsenale delle terapie contro il cancro. È quanto ipotizza uno studio pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine: alte dosi di vitamina C renderebbero più efficace la chemioterapia e allevierebbero i suoi effetti collaterali.

Non è certo la prima volta che la vitamina C viene tirata in causa come possibile terapia antitumorale. Alla fine degli anni ’70, Linus Pauling, due volte vincitore del premio Nobel (per la chimica nel 1954 e per la pace nel 1962) sosteneva che alte dosi di acido ascorbico, altro nome del composto, erano in grado di prevenire o trattare molti tipi di tumore. Quella di Pauling è stata una vera e propria ossessione sui benefici dell’acido ascorbico. Ma gli studi clinici organizzati per verificare la sua teoria non hanno mai trovato alcun risultato positivo. Da allora la vitamina C è stata abbandonata dalla medicina ufficiale, anche se trova ancora cittadinanza, più che altro come terapia di supporto, nella medicina alternativa.

Altissime dosi

Nel nuovo studio, Qi Chen e colleghi della University of Kansas hanno prima esaminato l’effetto dell’acido ascorbico in laboratorio su linee cellulari di vari tumori (su cui ha dimostrato un effetto tossico), poi l’hanno somministrato per via endovenosa e a dosi altissime, da dieci a cento volte superiori a quelle normalmente presenti nell’organismo, a topi in cui erano stati indotti tumori dell’ovaio, e trattati con farmaci chemioterapici classici, il carboplatino e il paclitaxel. Negli animali alla cui chemioterapia era stata aggiunta la vitamina C i tumori si sono ridotti assai più che in quelli sottoposti alla sola chemioterapia. Il trattamento è stato sperimentato anche su un piccolo gruppo di malati di cancro in fase avanzata, 25, sottoposti a chemioterapia, per vedere se la vitamina C ad alte dosi era tollerata. Apparentemente sì: i pazienti non avuto effetti collaterali dalla vitamina, ma hanno sopportato meglio la chemioterapia, dichiarando di avere avuto meno nausea e fatica.

Di nuovo sotto esame

Sulla base di questi risultati promettenti, gli autori dello studio sostengono che il caso della vitamina C come trattamento anticancro vada riesaminato. La mancanza di efficacia emersa nei vecchi studi – sostengono – potrebbe essere dovuta al fatto che la vitamina era somministrata per via orale. In questo modo, solo una piccola quantità viene assorbita dall’intestino, ma la maggior parte viene eliminata dai reni. La somministrazione per via endovenosa, invece, riesce a far salire la concentrazione di acido ascorbico nel sangue a livelli impossibili con l’assunzione orale.

Non è neppure chiaro in che modo la vitamina C svolga la sua azione, e anche questo ha contribuito alla scarsa fiducia che potesse davvero funzionare. L’acido ascorbico è noto per essere un antiossidante, cioè una molecola che combatte l’azione dei radicali liberi. Proprio per questo motivo, si è ragionato che il suo effetto logico dovrebbe essere di indebolire l’efficacia della chemioterapia boicottando il suo effetto ossidante sulle cellule tumorali. Da questo studio sembrerebbe esattamente l’opposto.

Gli scienziati ipotizzano che la vitamina C somministrata in vena e ad alte dosi agisca in realtà proprio come ossidante, cioè aiuti le sostanze chemioterapiche nell’opera di danneggiamento delle cellule tumorali, risparmiando però quelle sane. Interrogativi che andrebbero sciolti con altri studi. Il problema è chi potrebbe essere interessato a finanziarli, dato che la vitamina C costa poco e non è brevettabile. L’unica è che, come chiedono gli autori dello studio, entrino in gioco enti pubblici.

Fonte: Focus

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Migliaia di casi di cancro al seno e al colon potrebbero essere evitati ogni anno se le persone che vivono in climi più freddi aumentassero i loro livelli di vitamina D, secondo un nuovo rapporto dei i ricercatori. Un certo numero di studi ha suggerito che la vitamina D può essere importante nel rischio di cancro. Gran parte di questa ricerca è basata sui tassi di cancro rilevati nelle diverse latitudini del globo: tassi di cancro della mammella, del colon e dell’ovaio, per esempio, sono più bassi nelle regioni più soleggiate del mondo che in climi nordici, dove gli inverni freddi limitano l’esposizione al sole delle persone.

La luce solare innesca la sintesi della vitamina D nella pelle e le persone che ricevono poca esposizione al sole tendono ad avere depositi più bassi della vitamina. A complemento di questi studi, esperimenti di laboratorio dimostrano che la vitamina D previene la crescita delle cellule tumorali e la diffusione, così come alcuni studi clinici dimostrano che le persone che hanno alti livelli di vitamina D, hanno rischi di cancro più bassi. Per il nuovo studio, i ricercatori della University of California hanno utilizzato i dati sui livelli ematici medi invernali di vitamina D ed i tassi di cancro al seno e del colon, di 15 paesi.

I ricercatori hanno trovato che i tassi delle malattie tendevano a diminuire quando i livelli medi di vitamina D erano più alti. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nutrition Reviews. L’effetto protettivo contro il cancro al colon sembrava iniziare quando i livelli ematici di vitamina D hanno raggiunto 22 nanogrammi per millilitro (ng / ml) e per il cancro al seno 32 ng / mL. Il livello medio tardo-invernale di vitamina D tra gli americani è da 15 a 18 ng / mL, secondo i ricercatori. In base ai loro dati, essi sostengono che se gli americani riescono ad avere un livello di vitamina D di almeno 55 ng / mL, 60.000 casi di tumore del colon e 85.000 casi di cancro al seno potrebbero essere evitati ogni anno. A livello mondiale, le cifre potrebbero essere 250.000 e 350.000, rispettivamente.

L’autore dello studio, il dottor Cedric F. Garland, specialista del cancro presso l’Università della California di San Diego , ha detto in una dichiarazione: “ ”E’ possibile mantenere sani livelli di vitamina D con una combinazione di dieta, integratori e brevi intervalli di 10 o 15 minuti al giorno, sotto il sole” Nessuno suggerisce alla gente di cuocersi sotto il sole per raggiungere alti livelli ematici di vitamina D. Secondo Garland, spendere una manciata di minuti sotto il sole di mezzogiorno, con il 40 per cento della pelle esposta, è sufficiente. Per le persone di carnagione chiara, i ricercatori stimano che solo 3 minuti al sole possono essere sufficienti, mentre le persone dalla pelle più scura possono avere bisogno di circa 15 minuti.

Un bagnino nel sud della California, ha detto Garland, non ha bisogno di supplementi di vitamina D per raggiungere livelli potenzialmente protettivi, al contrario di un settentrionale che tende a rimanere in casa gran parte dell’anno. Garland e colleghi suggeriscono che oltre all’esposizione modesta al sole, gli adulti non devono ottenere più di 2.000 IU di vitamina D al giorno, che è il ” livello di assunzione massimo tollerabile”, definito dai funzionari della sanità degli Stati Uniti.

Fonti: Medi Magazine

Gli acidi grassi essenziali omega-3 possono ridurre il rischio e rallentare del 30 per cento la crescita del tumore del seno. Lo studio

Assumere buone quantità di acidi grassi omega-3 pare aiuti a prevenire il tumore del seno e ridurne il volume.

Gli acidi grassi essenziali omega 3 pare abbiano molte frecce al loro arco nella prevenzione delle più diverse malattie. Da non ultima, il cancro al seno che, secondo uno studio pubblicato sul Journal of Nutritional Biochemistry, può essere prevenuto e contrastato proprio grazie all’assunzione di queste sostanze.

L’azione degli omega 3 sulla prevenzione e la riduzione della crescita del tumore del seno è stata osservata in uno studio condotto dai ricercatori del Department of Human Health and Nutritional dell’Università di Guelph.
Il dottor David Ma e colleghi hanno scoperto che nel modello animale in cui vi era la presenza di acidi grassi essenziali omega 3, si sviluppavano meno tumori e, nel caso, questi erano più piccoli rispetto a quelli dei modelli che non possedevano gli omega 3.

Per il loro studio, i ricercatori hanno creato dei topi transgenici in grado di produrre da sé gli acidi grassi omega 3 e sviluppare tumori mammari aggressivi, per poi comparare l’azione di questi con un altro gruppo di topi che sviluppava anch’esso i tumori mammari, ma non produceva gli omega 3.
L’osservazione dello sviluppo dei tumori ha permesso di rilevare come i topi del gruppo “omega 3” sviluppassero i tumori soltanto nei due terzi dei casi e, se sviluppati, fossero del 30% più piccoli.

«La differenza può essere attribuita esclusivamente alla presenza degli omega-3 nei topi transgenici, il che è significativo – spiega il dottor Ma – Il fatto che una sostanza alimentare nutriente può avere un effetto significativo sullo sviluppo del tumore e la crescita è notevole e ha rilevanti implicazioni nella prevenzione del cancro al seno».

FONTE: http://www.lastampa.it/2013/02/25/scienza/benessere/alimentazione/omega-per-combattere-il-cancro-al-seno-xo9vlh4Bk6OLG7kmKgpOOM/pagina.html

Un vecchio detto degli anziani diceva che ridere fa buon sangue,infatti,l’umorismo è una parte importantissima della vita,allena il cervello a essere più forte, elastico e capace di affrontare situazioni difficili e stressanti.A sostenerlo è una ricerca della University of Mariland condotta da Scott Weems autore del nuovo libro ‘Ah! The science of when we laugh and why’ dove riporta le ultime ricerche sull’argomento, oltre che molti aneddoti divertenti e qualche battuta.

La risata, come l’esercizio fisico stimola la produzione di endorfine, sostanze chimiche che hanno un effetto benefico sul cervello, simili a quelle che si osservano come conseguenza dell’attività aerobica, ma senza i dolori, gli indolenzimenti e le tensioni muscolari associate a quest’ultima. L’umorismo impegna le connessioni cerebrali e dà loro più forza e capacità di elaborazione, è un elemento chiave per l’abilità del cosiddetto pensiero spaziale scrive Weems sul Wall Street Journal dei giorni scorsi tessendo le lodi dell’attore comico e scrittore statunitense Julius Henry ‘Groucho’ Marx’.

La risata è un vero e proprio farmaco,con tanto di indicazioni. Dosaggio: una somministrazione di quindici minuti al giorno. Effetti: miglioramento della circolazione del sangue e prevenzione delle malattie cardiovascolari. Controindicazioni: nessuna. Una medicina che va bene per tutti, grandi e piccoli, uomini e donne. La terapia del sorriso non è una novità: tutti ormai conoscono la storia di Patch Adams, il medico americano con il naso da clown che prima ha intuito, poi trasformato in cura il potere benefico della risata.

Fonte: Improntaunika.it

Gli acidi grassi essenziali omega 3, contenuti in alcuni tipi di pesce e vegetali, svolgono un ruolo primario nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Lo conferma un nuovo grande studio che tuttavia non ritiene l’olio di pesce così indispensabile, al contrario del DHA e gli EPA Non solo pesce, ma anche vegetali come i semi di lino e l'olio che se ne ricava è ricco di acidi grassi essenziali omega-3 Si è fatto un gran parlare degli acidi grassi essenziali omega 3 e del loro ruolo nella salute di cuore e arterie. E sono numerosi gli studi che hanno cercato di stabilire se e come l’assumere integratori di olio di pesce, o il mangiare pesce azzurro o ancora alimenti vegetali ricchi di queste sostanze, potesse essere un modo per prevenire le malattie cardiache. I risultati di queste ricerche non sempre sono stati coerenti, tuttavia, una verità di fondo sull’utilità degli acidi grassi è sempre emersa.

Oggi, i ricercatori del Linus Pauling Institute hanno pubblicato un nuovo largo studio revisionale sulle pagine del Journal of Lipid Research, in cui si suggerisce che gli acidi grassi essenziali omega 3 sono sì utili nella prevenzione dei problemi all’apparato cardiovascolare. «Dopo decenni di studi sugli acidi grassi omega-3, è chiaro che possiedono un valore nella prevenzione primaria delle malattie cardiache», commenta infatti nella nota LPI il principale autore dello studio dottor Donald Jump, professore all’OSU College of Public Health and Human Sciences. Forse non tutti lo sanno, ma sono molti gli alimenti ricchi di queste utili sostanze, e non solo il pesce come comunemente si crede: oltre dunque a salmone e pesce azzurro, gli omega 3 si trovano anche nei semi di lino (e il relativo olio), le noci (un po’ meno in nocciole e mandorle), nei cereali come l’avena o il germe di grano. Un po’ ne troviamo anche nelle verdure a foglia verde e, infine, buone quantità le ritroviamo nella soia e i suoi derivati, e anche nelle alghe.

La fonte invece più controversa di omega 3 è da sempre l’olio di pesce, utilizzato come integratore, che è stato oggetto di numerosi studi con conclusioni spesso contrastanti. «E’ meno chiaro quanto impatto abbiano gli oli di pesce nella prevenzione di ulteriori eventi cardiovascolari in persone che già presentino malattie cardiache – spiega Jump – Gli studi condotti da alcuni decenni hanno mostrato un valore anche per questa popolazione di pazienti, ma gli studi più recenti sono meno conclusivi . Crediamo che una spiegazione sia da ricondursi all’efficacia degli attuali validissimi trattamenti offerti». I primi studi sull’efficacia degli acidi grassi essenziali omega 3 furono condotti nei primi anni Settanta dopo che si era scoperto che tra la popolazione Inuit della Groenlandia vi erano i più bassi tassi di malattie cardiovascolari. Gli Inuit seguivano una dieta prevalentemente a base di pesce.

Da qui in poi, sono state molte le ricerche a essersi concentrate su questi elementi. I risultati hanno spesso mostrato che, in effetti, la dieta gioca un ruolo di primo piano nella prevenzione delle malattie cardiache. Tuttavia, secondo Jump e colleghi, lo stesso ruolo oggi lo giocano i farmaci utilizzati per ridurre il colesterolo e fluidificare il sangue, oppure quelli antinfiammatori – senza nulla togliere agli effetti positivi sulla quasi totalità dei rischi cardiovascolari offerti dagli omega 3. «Ad alcuni dei primi studi condotti sull’olio di pesce è stata data la priorità sui numerosi farmaci efficaci, che sono ampiamente disponibili e ampiamente utilizzati – sottolinea Jump – E la gente spesso dimentica che le sostanze nutrienti, come gli oli di pesce, sono meno potenti dei farmaci da prescrizione, e spesso hanno il loro miglior valore quando siano utilizzati per lunghi periodi. Quando così tante persone in questi studi stanno assumendo un regime di farmaci per affrontare gli stessi problemi su cui anche l’olio di pesce può incidere, è facile capire perché ogni vantaggio dagli oli di pesce sia più difficile da rilevare».

Chiusa la diatriba sull’olio di pesce, i ricercatori del Linus restituiscono tutto il loro valore agli acidi grassi omega 3 che non sarebbero utili solo nella prevenzione delle malattie cardiache, ma anche nel migliorare l’acuità visiva, la funzione cognitiva, e nel contrastare la demenza. Allo stesso modo riducono l’infiammazione generale dell’organismo (causa di numerose malattie) e, forse, anche alcuni tipi di cancro, come quello del colon. Uno degli acidi grassi più attivo e utile pare sia il DHA, che è ritenuto uno dei più indicati per la salute umana. «Crediamo ancora in concreto all’evidenza che il contenuto di EPA e DHA nei tessuti del cuore e nel sangue sia importante per la salute e per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Per soddisfare le attuali raccomandazioni per la prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari, si consiglia alle persone di consumare 200-300 milligrammi di combinato EPA e DHA al giorno», conclude Jump.

Fonte: La Stampa

La rabbia aumenta il rischio di avere un infarto o un ictus. A svelarlo è un'analisi pubblicata sull'European Heart Journal dagli esperti dell'Harvard Medical School Elizabeth Mostofsky e Murray Mittleman, che insieme a Elizabeth Anne Penner del Weill Cornell Medical Center di New York hanno analizzato i dati sull'argomento presenti nella letteratura scientifica, svelando che, anche se ad essere particolarmente in pericolo sono le persone che convivono con fattori di rischio come le malattie cardiovascolari, nelle due ore successive ad un attacco di rabbia tutti corrono un serio pericolo. Il rischio è infatti cumulativo. In altre parole, le persone che si arrabbiano spesso sono in pericolo anche se non convivono con molti fattori di rischio cardiovascolare.

Il problema? Potrebbe essere lo stress 

Quando invece quest'ultimo è elevato l'aumento di infarti è stimato a 657 ogni 10 mila persone. In generale, nelle 2 ore successive a un attacco di rabbia il rischio di infarto e di ictus aumentano, rispettivamente, di circa 5 e 3 volte. Il motivo alla base di questa associazione non è chiaro e secondo i tre esperti i risultati di queste analisi non indicano necessariamente che la rabbia sia in grado di scatenare problemi cardiocircolatori. Piuttosto, la vera causa alla base del rischio potrebbe essere lo stress cronico, che oltre ad aumentare la pressione sanguigna può anche spingere ad adottare comportamenti poco salutari – come fumare o bere troppi alcolici – proprio nel tentativo di affrontare lo stress.


Le soluzioni, in realtà, sono ben altre. Secondo gli esperti bisognerebbe verificare le potenzialità di strategie mirate alla riduzione dello stress come lo yoga, che potrebbero aiutare a evitare le gravi complicazioni associate ad una vita vissuta continuamente sotto pressione. In effetti alcune ricerche hanno già dimostrato un'associazione tra la pratica della meditazione e la riduzione dell'incidenza di infarti e ictus. Che sia davvero questa la strada giusta?

Fonte: Il Sole 24Ore

Bastano 15 minuti di passeggiata al giorno per allontanare il rischio di diabete. Dopo un pasto, prendiamo l’abitudine di fare due passi: una semplice pratica che può avere significativi effetti benefici sulla salute di tutto l’organismo. Una breve passeggiata può fare molto bene alla salute e, come suggerito da un nuovo studio, può anche prevenire il diabete. Dopo un pasto non c’è niente di meglio che fare due passi. Fa bene all’umore, alla digestione e a quanto sembra è anche utile per allontanare il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2.

A suggerirlo è un nuovo studio della George Washington University School of Public Health and Health Services (SPHHS), che ha indagato gli effetti sui livelli di zuccheri nel sangue di una camminata di 15 minuti.
La dottoressa Loretta DiPietro e colleghi dell’SPHHS hanno scoperto che tre brevi passeggiate dopo cena erano efficaci nel ridurre il glucosio nel sangue per 24 ore. Queste brevi camminate, inoltre, sortivano lo stesso benefico effetto di una camminata a piedi di 45 minuti con passo da normale a moderato. Ma non solo: la passeggiata dopo cena è risultata significativamente più efficace di una camminata a passo sostenuto nel ridurre i livelli di zucchero nel sangue fino a tre ore dopo il pasto.

Per questo studio, pubblicato su Diabetes Care, i ricercatori dell’SPHHS hanno reclutato dieci persone con un’età minima di 60 anni. Tutti i soggetti erano in buona salute, ma a rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 per via dei livelli di zucchero nel sangue a digiuno più elevati del normale, e di un’insufficiente attività fisica. La scelta di soggetti anziani è stata dettata dalla constatazione che questi possono essere particolarmente suscettibili ai disturbi nel controllo dello zucchero nel sangue dopo i pasti a causa di insulino-resistenza nei muscoli e anche a causa di una secrezione di insulina lenta o bassa da parte del pancreas – spiegano gli autori – per cui si presentano con un campione di popolazione particolarmente rappresentativo. Una glicemia alta dopo il pasto è un fattore di rischio chiave per la progressione di una ridotta tolleranza al glucosio (pre-diabete), il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari.

«Questi risultati sono una buona notizia per le persone tra i 70 e gli 80 anni – spiega studio Loretta DiPietro, presidente del Dipartimento SPHHS di Scienze Motorie e principale autore dello studio – che possono sentirsi in grado di impegnarsi in attività fisica intermittente su una base quotidiana, soprattutto se le brevi passeggiate possono essere combinate con l’esecuzione di commissioni o passeggiate con il cane. Le contrazioni muscolari connesse con le brevi passeggiate erano immediatamente efficaci nell’ottundere gli aumenti post-pasto di zucchero nel sangue potenzialmente dannosi e comunemente osservati nelle persone anziane». Secondo la dottoressa DiPietro, questi risultati, se confermati da ulteriori ricerche, potrebbero portate a una efficace ed economica strategia preventiva per il diabete di tipo 2, a seguito di una condizione pre-diabetica. Sono molte le persone che si trovano in una condizione di pre-diabete senza saperlo, fa notare la ricercatrice. Questa situazione è l’anticamera del diabete stesso, e poter prevenire spesso è la soluzione migliore e più efficace.

l risultati dello studio hanno mostrato che il momento migliore per andare a fare una passeggiata è stato dopo il pasto serale. L’aumento della glicemia che si verifica dopo la cena è il più rilevante della giornata, e spesso dura tutta la notte e il primo mattino. Tuttavia, questo processo è stato frenato in modo significativo e velocemente quando i partecipanti hanno iniziato a camminare sul tapis roulant. Lo studio va in controtendenza con quelle che sono in genere le abitudini delle persone. La sera, infatti, si tende a cenare e poi rilassarsi magari di fronte alla Tv, piuttosto che uscire a fare due passi. «Questa è la cosa peggiore che si possa fare – sottolinea DiPietro – Aspettiamo invece che il cibo sia digerito un po’ e poi usciamo e muoviamoci». Insomma, spesso basta dedicare davvero poco tempo per prevenire malattie che, invece, rischiano di accorciare il nostro tempo di permanenza su questo pianeta.

Fonte: La Stampa

Le persone con bassi livelli di vitamina D possono trovarsi di fronte un aumentato rischio di malattia arteriosa periferica (PAD), secondo i ricercatori dell’Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University. PAD è una malattia comune che si verifica quando le arterie delle gambe si restringono a causa di depositi di grasso, causando dolore e intorpidimento e compromettendo la capacità di camminare. PAD colpisce circa otto milioni di americani ed è associata a malattia significativa e morte, secondo l’American Heart Association. Adeguati livelli di vitamina D sono necessari per la salute delle ossa, ma gli scienziati stanno solo ora iniziando ad esplorare il collegamento vitamina D’/malattie cardiovascolari.

“Sappiamo che nei topi, la vitamina D regola uno dei sistemi ormonali che influenzano la pressione sanguigna”, ha detto il Dott. Michal Melamed, autore principale dello studio e professore assistente presso il Dipartimento di Medicina ed Epidemiologia e Salute Popolazione a Einstein. “Dato che le cellule dei vasi sanguigni hanno recettori per la vitamina D, essa può influire direttamente sui vasi, anche se questa funzione non è stata completamente esplorata .”

Per vedere se la vitamina D potrebbe influenzare PAD, il dottor Melamed e colleghi hanno analizzato i dati di un sondaggio nazionale che misura i livelli di vitamina D nel sangue di 4.839 adulti americani. Il sondaggio ha testato persone che utilizzano l’ indice caviglia-brachiale, uno strumento di screening per la PAD che misura il flusso di sangue alle gambe ed ha misurato anche stati altri fattori di rischio per la PAD, quali i livelli di colesterolo, la pressione sanguigna e la presenza di diabete.

I ricercatori hanno scoperto che alti livelli di vitamina D sono stati associati con una minore prevalenza di PAD. Tra gli individui con i più alti livelli di vitamina D – più di 29,2 nanogrammi per millilitro (ng / mL) – solo il 3,7 per cento ha avuto la condizione di PAD. Tra quelli con i più bassi livelli di vitamina D – inferiore a 17,8 ng / mL – 8,1 per cento ha avuto la malattia. Quando i ricercatori hanno aggiustato per età, sesso, razza e co-esistenti di problemi di salute, hanno scoperto che il 64 per cento di affetti da PAD era più frequente nel gruppo con i più bassi livelli di vitamina D rispetto al gruppo con i più alti livelli. Per ogni 10 ng / mL di calo del livello di vitamina D, il rischio di PAD è aumentato del 29 per cento.

Anche se questi risultati suggeriscono un ruolo della vitamina D nella prevenzione della condizione PAD, il dottor Melamed avverte che non necessariamente i risultati mostrano che la vitamina D merita davvero credito. E ‘possibile, dice, che i livelli di vitamina D sono un marker. Fa notare che per dimostrare una causa-effetto tra la vitamina D e la protezione contro PAD, sarà necessario un più ampio studio clinico randomizzato, in cui alcune persone ricevono la supplementazione di vitamina D, mentre altre no. Gli scienziati hanno riportato i loro risultati sulla rivista Arteriosclerosi dell’American Heart Association. Da Albert Einstein College of Medicine .

Fonte: Medi Magazine

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Le uova potrebbero essere l'alimento ideale per proteggere la memoria. L'ipotesi arriva dagli Stati Uniti, per la precisione dagli esperti della Tufts University, che nei prossimi mesi testeranno le potenzialità di questo cibo estremamente comune e diffuso in uno studio che valuterà l'associazione tra il suo consumo e capacità mnemoniche, di ragionamento, di attenzione e fluenza verbale. L'ipotesi che i ricercatori intendono mettere al vaglio si basa sull'elevato contenuto di luteina e zeaxantina delle uova. Questi due antiossidanti sono già stati associati in passato a miglioramenti delle funzioni cognitive. Proprio un'esperta della Tufts University, Elizabeth Johnson, ha recentemente pubblicato sull'American Journal of Clinical Nutrition un'analisi degli studi condotti sul tema. Ne è emerso che le capacità cognitive, mnemoniche e di fluenza verbale degli anziani dipendono dai livelli di zeaxantina nel loro cervello. Non solo, la fluenza verbale è influenzata anche dalle concentrazioni di luteina, che sono inoltre associate alla capacità di recuperare i ricordi e che sono significativamente ridotte in chi soffre di declino cognitivo lieve.

Un nuovo studio testerà questa ipotesi

Nella sua analisi Johnson ha anche ricordato che è stato dimostrato che l'assunzione di 12 mg al giorno di luteina permette di migliorare sia le capacità mnemoniche che quelle di apprendimento. Per questo secondo l'esperta non c'è alcun dubbio. ““Prendendo in considerazione tutte queste osservazioni – conclude Johnson nella sua analisi – l'idea che la luteina e la zeaxantina possano influenzare le funzioni cognitive negli anziani legittima ulteriori studi”.

Gli esperti della Tufts University chiederanno a metà degli individui coinvolti nella loro ricerca di mangiare 2 uova al giorno per 6 mesi, mentre all'altra metà non sarà consentito mangiarne. Il confronto fra le capacità mnemoniche, di ragionamento e di attenzione e la fluenza verbale nei due gruppi di partecipanti permetterà di scoprire se un approccio alimentare basato sull'aumento del consumo di uova possa davvero aiutare a contrastare la perdita di memoria.

Fonte: Il Sole 24Ore

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