Contro i segni del tempo un corretto regime alimentare e creme funzionali. Perché laddove l’alimentazione non basta, ci pensa la cosmesi! Con il passare degli anni, nella pelle si manifesta una riduzione dei meccanismi di riparazione del DNA e un progressivo accumulo di proteine e di lipidi ossidati. In particolare la cute risente come non mai l’avanzata dei radicali liberi, causa peraltro del cosiddetto stress ossidativo, tra i principali responsabili della formazione di rughe e segni d’espressione. I radicali liberi agiscono negativamente contro le cellule, intaccando la loro membrana plasmatica e portando al loro rapido deterioramento e ad altre problematiche dell’epidermide. Un processo che si origina dalla conseguenza diretta, oltre al fattore temporale, di scelte e di abitudini sbagliate. Solchi, macchie e altre imperfezioni sono tra i principali segni evidenti di una pelle che sta perdendo, giorno dopo giorno, elasticità e tonicità. Tra gli elementi del benessere della pelle: trealosio, argento colloidale, collagene, vitamine e antiossidanti.
Le rughe non sono altro che pieghe superficiali e segno evidente della scarsa elasticità e tonicità della pelle. Tuttavia, oltre all’invecchiamento, questi segni sono anche la conseguenza di fattori esterni e ambientali. La principale causa della loro insorgenza è la perdita della struttura della cute. Le cellule, in un primo momento, diventano meno attive, poi si assiste a una riduzione della sintesi di fibroblasti, fibre elastiche, fibre di collagene e glicosamminoglicani. Anche la minore produzione di sebo, genera l'assottigliamento del film idrolipidico e la disidratazione cutanea, responsabile della formazione delle rughe è anche il foto-invecchiamento provocato dall'eccessiva esposizione alle radiazioni UV, naturali o artificiali che siano. Tra le insidie per la pelle indubbiamente il glucosio, lo zucchero indispensabile per la vita delle cellule. Monosaccaride contenuto soprattutto nei farinacei e se presente in dosi elevate, potrebbe rivelarsi nocivo in quanto, legandosi alle proteine del collagene, causerebbe una perdita di elasticità e di compattezza cutanea, prodromi questi della comparsa delle rughe. Andrebbe dunque limitato l'apporto di cibi ricchi di amidi come pasta, pane, riso, patate e dolci.
Da quelle della fronte, al contorno occhi e labbra. Le rughe sono il più comune segno di invecchiamento dove fibre elastiche e collagene presenti nel derma perdono la capacità di contrastare la forza di gravità. Alterazioni cutanee, ovvero inestetismi, causati da un danno strutturale alle fibre di collagene ed elastiche. Disidratazione e pelle secca poi ne accelerano la comparsa. Di conseguenza, laddove l’idratazione scarseggia si manifesta la secchezza cutanea e più la pelle è secca, maggiormente questa sarà predisposta alla formazione delle rughe. Per mantenere la pelle giovane e bella è importante contrastare, sia dall’interno che dall’esterno, questo processo di impoverimento cutaneo che comincia intorno ai 30 anni. Tra le buone abitudini per ritardare, o addirittura prevenire la formazione precoce delle rughe, sicuramente quello di mantenere la pelle, soprattutto quella del viso, costantemente idratata e nutrita, scegliendo cosmetici mirati e detergenti adatti al proprio tipo di pelle. Gloria Mosconi, biologa e nutrizionista, spiega in un’intervista esclusiva a Life 120 come intervenire e riequilibrare l'idratazione in tutti gli strati della pelle e con quali rimedi prevenire i postumi di secchezza e disidratazione e ripristinare quindi una corretta idratazione cutanea nonostante l’avanzare dell’età.
In che modo la scarsità di collagene influisce sulla comparsa delle rughe?
I fibroblasti sono deputati alla produzione di collagene, ma non solo, anche di elastina, e glicosaminoglicani, cioè gli zuccheri della pelle, precursori dell’acido ialuronico. Insieme formano la struttura che determina l’impalcatura di sostegno del derma, quella che prende il nome di Matrice del Derma, che da l’effetto della pelle rigida e piena. Numericamente i fibroblasti diminuiscono con l’avanzare dell’età, e questo rallenta anche la loro capacità di riprodursi. Il tessuto di sostegno (matrice), si depaupera e tende a cedere: compaiono sull’epidermide segni e solchi di profondità variabile perché il derma tende a collassare ed i risultati si vedranno sul volume e sul contorno del viso.
Frontale, periorbitali e perilabiali. Intorno a quale fascia di età fanno la comparsa i primi segni di espressione?
Il rilassamento della pelle inizia intorno ai 30 anni e diventa un processo inesorabile con l’avanzare dell’età. Possono apparire in un viso anche più giovane ma queste, appartengono prevalentemente a gesti ripetuti come la contrazione della bocca quando si fuma portando alla formazione di rughe verticali sul labbro superiore, dette codice a barre; o il fatto di corrugare le sopracciglia, o nelle persone emotive etc… La conseguenza di questi gesti ripetuti porta al formarsi delle cosiddette rughe di espressione anche sulla fronte ed introno agli occhi.
Quali fattori causano l’insorgenza delle rughe? Tra questi anche quelli provocati dall’esposizione solare e quelli cellulari prodotti dai radicali liberi?
La ruga prende vita nella parte più profonda della pelle, chiamata derma, in seguito all’azione di fattori sia interni che esterni. Vediamo insieme quelli fra i più importanti. Fra quelli interni individuiamo il microcircolo, radicali liberi, ormoni. Fra quelli esterni invece, fumo, alcool, photoaging e rilassamento cutaneo per dimagrimento. Il microcircolo: con il passare degli anni si verificano dei cambiamenti, le reti dei piccoli vasi perde elasticità perché tendono a dilatarsi, diminuendo quindi la portata nel sangue di ossigeno e sostanze nutritive alle cellule. Diminuisce anche il livello energetico che le cellule hanno a disposizione che non saranno più in grado di produrre la stessa quantità di collagene ed elastina. I radicali liberi: anch’essi svolgono un ruolo significativo nella formazione delle rughe. I radicali liberi, come noto, sono prodotti di scarto cellulare. Ora in condizioni fisiologiche c’è un equilibrio fra la loro generazione e la loro neutralizzazione grazie ai meccanismi di difesa antiossidativi di cui l’organismo naturalmente dispone. Quando però lo stesso organismo non si trova in equilibrio i radicali liberi tenderanno a prevalere determinando un danno chiamato stress ossidativo, che a lungo andare si ripercuote anche sul lavoro dei fibroblasti. Questo processo è particolarmente spiccato nell’anziano perché sono minori le difese antiossidanti e la capacità di riparazione cellulare, compreso il DNA. Gli ormoni: svolgono un ruolo fondamentale nei processi di invecchiamento. Quando in menopausa si ha un calo di questi la pelle e le mucose diventano inesorabilmente più secche. Diminuisce infatti la capacità delle ghiandole sebacee a produrre sebo esponendo la pelle a maggiori danni anche da parte dei raggi UV e non solo nella formazione delle rughe ma anche in quella delle macchie cutanee. Il photoaging: anche di inverno non si può sottovalutare l’azione dei raggi solari. Chiaramente faccio riferimento anche alla lampade abbronzanti. Gli UV ci colpiscono anche in presenza di nuvole ed in presenza di basse temperature. Anche di inverno è importante schermare la pelle per esercitare una fotoprotezione e proteggerci dal fotoinvecchiamento, una delle misure queste per prevenire le modificazioni delle strutture profonde di sostegno della pelle: i fibroblasti. Il fumo: è causa di una significativa riduzione dei livelli di ossigenazione del sangue proprio per le sostanze chimiche che aspiriamo. Inoltre è interessante sapere che uno studio condotto presso l’University of California School of Medicine di San Francisco e pubblicato recentemente sulla rivista Cosmetic & Toiletries Science Applied ha dimostrato che se il vizio del fumo è abbinato ad una esposizione solare smodata, il processo di invecchiamento accelera di 11,4 volte in più rispetto a chi non fuma e si abbronza poco. Il rilassamento cutaneo legato al dimagrimento: le modalità di un processo di dimagrimento debbono essere sempre sotto il monitoraggio, l’osservazione, di un tecnico del mestiere. Infatti se brusco ed eccessivo la pelle non avrà il tempo di adattarsi alla nuova condizione e si rischia di andare incontro ad un cedimento della stessa. Sapere cosa mangiare durante una dieta è fondamentale per tutelare la massa magra e scheletrica che rappresentano la struttura in cemento armato del nostro corpo e che vanno sempre tutelate. È bene comunque evitare oscillazioni frequenti di peso. Inoltre l’attività fisica anche il semplice camminare o nuotare, rende la pelle più tonica.
È possibile prevenirle con prodotti mirati a base di acido ialuronico?
Prendersi cura della pelle con rughe del viso e del corpo rappresenta un grande gesto d’amore del proprio vissuto della propria storia ed il via libera ai prodotti è per trasformare i segni del tempo in caratteri di cui andare fieri. La beauty routine (latte detergente e tonico), insieme a creme sieri ed oli è la soluzione per avere un aspetto sano senza perdere la propria identità. Effettuare anche degli scrub sulla pelle del volto e del corpo può essere molto utile. Fra e numerose sostanze ad azione idratante ed antirughe ricche di utili vitamine che l’enorme mercato dei cosmetici propone, concentrerei l’attenzione sulla punta di diamante dell’idratazione: l’acido ialuronico. Ripristinando il giusto equilibrio di idratazione, stimola i fibroblasti ad aumentare la produzione di collagene che insieme all’elastina, come abbiamo già visto, contribuiscono a contrastare in prevenzione o a migliorare, se già presenti, le rughe. Immaginatelo come una spugna in grado di assorbire e trattenere umidità. Attualmente viene ottenuto in laboratorio in maniera naturale attraverso la fermentazione batterica di alcuni lieviti. In passato si è presentato il problema di come far veicolare l’acido ialuronico a livello transdermico a causa del suo alto peso molecolare. I cosmetologi nel corso degli anni, hanno lavorato per formulare e creare molecole di questo acido sempre più microscopiche, rendendo così possibile la penetrazione in profondità nei tessuti e permettendo così una azione idratante più profonda.
Esiste un trattamento specifico o uno stile di vita regolato da comportamenti sani e corretti per trattare questo inestetismo cutaneo?
Quando si parla di benessere del corpo nel senso esteso del termine, è bene focalizzare che le misure atte a migliorare una condizione, qualsiasi essa sia, dovranno essere un insieme di sani comportamenti che lavorando in sinergia fra loro, saranno in grado di migliorare questa condizione. Anche nel caso delle rughe, è difficile immaginare che l’utilizzo della sola crema per il volto o per il corpo, possa essere in grado di dare gli stessi risultati che avremmo se associassimo anche uno stile di vita in cui limitiamo l’uso di alcool, quello di sigaretta, il sano regime alimentare di prodotti ad azione antiossidativa, come la verdura e la frutta, il consigliato utilizzo di integratori contro la formazione di radicali liberi e l’esposizione smodata ai raggi UV per il fotoinvecchiamento. È bene quindi tenere in mente tutta questa serie di accorgimenti per apprezzare il miglioramento sulla formazione delle rughe, in prevenzione, e su quelle già esistenti.
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Per approfondimenti:
La Repubblica "Idratare: primo passo per una pelle sana"
Corriere Nazionale "Idratazione della pelle: perché è importante"
MSN "Disidratazione della pelle del viso: come rimediare"
Il Giornale "Pelle mista, secca, grassa o sensibile: ecco come riconoscerla"
Wikipedia "Idratazione cutanea"
Ansa "Rughe, è tutta una questione d'acqua"
JAAC "Trehalose-Induced Activation of Autophagy Improves Cardiac Remodeling After Myocardial Infarction"
Alimentazione Gazzetta "Dieta e beauty routine per una pelle luminosa e sana: alimenti, creme e trattamenti"
Alimentazione Gazzetta "Vitamine per la pelle, nella dieta e nelle creme: quali sono le più utili?"
Wikipedia "Pelle"
Starbene "Salute della pelle e alimentazione"
LEGGI ANCHE: Disidratazione e pelle secca: prevenzione e contrasto dei principi attivi
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Tesa, ruvida, desquamata, screpolata. La pelle secca e disidratata è tra le principali cause di problemi alla pelle e di invecchiamento precoce. Il primo campanello d’allarme, conosciuta anche come xerosi, ci segnala che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe. Dagli agenti atmosferici ai problemi ormonali. Troppo spesso trascurata e sottovalutata, questa manifestazione cutanea viene generalmente causata da un’infinita varietà di fattori. La pelle, oltre a riflettere il benessere dell’intero organismo, svolge un’importante azione di protezione dagli agenti esterni e proprio per questo dobbiamo prendercene cura quotidianamente. A lanciare queste richieste d’aiuto sono soprattutto il viso, i gomiti e le ginocchia. Un ottimo rimedio per contrastarne la comparsa fin dai primi segnali è sicuramente l’attenzione nella scelta di alimenti ricchi di vitamine e minerali preziosi, meglio ancora poi se supportati da prodotti e trattamenti specifici. Difatti, è fondamentale in questi casi una beauty routine studiata ad hoc che preveda innanzitutto un’adeguata detersione e idratazione. «Una pelle si definisce secca quando il contenuto di acqua e sebo, presente nello strato più superficiale dell’epidermide, è sensibilmente inferiore rispetto ai parametri fisiologici. Partendo da questa definizione, andiamo a comprendere più nel dettaglio il significato, e le misure che si possono prendere» spiega Gloria Mosconi, biologa. Quando la pelle perde idratazione ed elasticità, fino a diventare secca e screpolata la cause posso essere diverse. Tra queste le principali sono una perdita di acqua dallo strato corneo, un’accelerazione del ricambio cellulare (dovuto a stimoli irritativi o a condizioni patologiche) o ancora, a seguito di un’alterazione della produzione di lipidi, ma anche a seguito dell’utilizzo di detergenti aggressivi che eliminano il film idrolipidico, di un'esposizione inappropriata al sole o ad un clima troppo freddo o troppo caldo oppure dovuta a particolari patologie della pelle. Inoltre, se la barriera naturale presente sulla pelle viene danneggiata, la cute diventa più vulnerabile alle aggressioni esterne e maggiormente incline alle irritazioni e alle infezioni.
Secca, mista o grassa. La disidratazione è una condizione che non risparmia nessun tipo di pelle. Tuttavia, ci sono comunque, oltre ai fattori predisponenti, anche delle categorie maggiormente a rischio. Tra i più colpiti dalla disidratazione indubbiamente bambini e anziani. Una predisposizione fisiologica che nei più piccoli si manifesta con una maggiore fragilità della pelle dovuta alla ancora scarsa attività delle ghiandole sebacee. Ed è proprio in mancanza di questo grasso che l’epidermide risulta più sottile e permeabile, e quindi, più a rischio di arrossamenti e disidratazione. Mentre, in età senile, si assiste a qualcosa di molto simile, ad una graduale riduzione del lavoro delle ghiandole sebacee e di tutti i vari componenti che costituiscono il film idrolipidico, per un generale e normale invecchiamento cellulare. Oltre alla produzione del sebo, si riduce anche quella del glicerolo, sostanza fondamentale per il trasporto di acqua tra i vari strati della pelle, mentre il derma tende ad assottigliarsi. In pratica, negli anziani, la pelle resta più esposta all'azione aggressiva degli agenti esterni e maggiormente soggetta a fenomeni irritativi. Tra le altre cause anche diverse patologie sono collegate alla secchezza cutanea tra cui dermatite atopica, eczemi cronici, ittiosi, psoriasi, eritema solare, ipotiroidismo, morbo di Hashimoto, patologie a carico del connettivo (come la. sclerodermia). «Il piacere di vedere la pelle sana e radiosa, è un desiderio che appartiene a tutti, ma un fenomeno molto frequente che si presenta e ostacola questo risultato è proprio la secchezza cutanea. Un fattore questo, che interessa e affligge una grande fetta della popolazione, e la particolarità è che coinvolge tutte le fasce di età, a partire dai più piccoli fino all’età molto avanzata, indistintamente uomini e donne» conclude la biologa.
Quali possono essere le possibili soluzioni per migliore questa problematica? Cosa possiamo fare quotidianamente per controllare la secchezza cutanea ed i vari fastidi ad essa correlati? Gloria Mosconi, biologa e nutrizionista, spiega in un’intervista esclusiva a Life 120 come si origina una scarsa regolazione di acqua in tutti gli strati della pelle e con quali rimedi combattere gli effetti della secchezza e ripristinare una corretta idratazione cutanea.
Dagli strati superficiali a quelli profondi, quali sono le cause (sia interne che esterne) di secchezza cutanea e disidratazione e come riconoscerla fin dai primi segnali?
Le cause esterne di questo disagio sono soprattutto riconducibili a una correlazione tra l’ambiente e la secchezza della pelle ed in particolare a condizioni climatiche come l’esposizione prolungata ai raggi UV, d’estate e all’aria condizionata, d’inverno. Sempre favorita, quest’ultima, nei luoghi dove l’aria è più asciutta. Mentre fra le cause interne rientrano tutti quei soggetti la cui espressione cutanea risulta essere eccessivamente reattiva nei confronti di vari stimoli. O meglio, i fattori possono essere costituzionali, alimentari e genetici. In particolare i lattanti e bambini piccoli sono esposti ad un maggior rischio a causa del loro sistema immunitario ancora debole. Quando il prurito lascia lesioni sulla pelle, il soggetto strofina continuamente la zona lesa lasciando la cute secca e arida. Diversi studi dimostrano che la disidratazione è dovuta dall’alterazione dell’attività enzimatica 6-gamma-reduttasi, categoria di acidi grassi essenziali utili anche al mantenimento del film idrolipidico, ovvero la fisiologica barriera di protezione della cute. Anche l’avanzare dell’età figura tra le altre cause riconducibili a un inevitabile assottigliamento della pelle e all’impoverimento del film idrolipidico, compromettendone l’idratazione. Tuttavia si manifesta in forme diverse a seconda della zona colpita e della severità.
È possibile prevenire e contrastare l’alterazione della barriera idrolipidica?
Tra i nostri organi più importanti, la pelle, specchio del benessere cellulare, ci protegge dall’ambiente circostante. Ciò premesso, quando ci troviamo in una condizione di secchezza cutanea, questa può risultare ruvida, tesa oppure screpolata, desquamata, tagliuzzata, infiammata, pruriginosa, meno resistente, fragile, poco elastica, e viene danneggiata la sua capacità di funzionare adeguatamente. Sul viso è particolarmente fastidiosa e compare prevalentemente sulle guance, intorno agli occhi e sulle labbra (non a caso si utilizza il burro di cacao), e può essere causa di un aspetto invecchiato. Quella del corpo, invece, si presenta prevalentemente sulle gambe e sui piedi, poiché queste zone sono più esposte all’ambiente, ma anche perché presentano quantità inferiori di ghiandole sebacee. La carenza di lipidi cutanei e di acqua nelle cellule sono il biglietto da visita di una pelle secca. È buona norma intervenire subito alla comparsa dei primi segnali per prevenire e contrastare questo segnale della pelle attraverso i consigli suggeriti di seguito.
Esistono regole da seguire o principi attivi in grado di contrastare questo fenomeno e per preservare il normale comfort della pelle?
È fondamentale ed indispensabile prendersi cura di questo tipo di pelle usando costantemente saponi delicati, ad esempio a base di tiglio e non aggressivi che faciliterebbero la disidratazione, e che rispettino quel poco film idrolipidico, lasciando le poche tracce di sebo rimaste. Inoltre la temperatura dell’acqua non dovrebbe superare i 37 gradi ovvero quella corporea. Una volta finita la doccia, tamponare la pelle e applicare sempre una buona crema idratante su tutto il corpo. Utilizzare gli spray in bomboletta di acque rinfrescanti, ancora meglio se addizionate di principi attivi idratanti. Questi piccoli prodigi della tecnologia, molto utili d’estate per la loro azione rinfrescante ma consigliati e a portata di mano per tutto l’anno, ricchi di vitamine, comodissimi da tenere in borsa e sempre pronti all’uso in ogni momento della giornata. Consigliatissimi per il corpo e il volto anche prima di un ritocco del trucco. È possibile, ai tempi di oggi, individuare diversi principi attivi ad azione idratante: dagli oli naturali ai burri come ad esempio quello di cocco utilizzato nelle creme per il viso e per il corpo, acido ialuronico, collagene, pantenolo, aloe vera, malva, tiglio, fiordaliso; così come l’urea, l’acido lattico e gli amminoacidi. Ma, degno di nota in quanto spicca ed eccelle per le sue innumerevoli proprietà idratanti, è proprio il trealosio, presente in molti organismi viventi come piante funghi batteri ed invertebrati. Un esempio naturale di trealosio, è la rosa di Gerico, originaria della Terra Santa, chiamata anche “Pianta della resurrezione”. Madre Natura permette infatti che il trealosio venga prodotto attraverso un processo noto come anidrobiosi, dove si induce uno stato di dormienza che permette alla cellula di sopravvivere in condizioni di estrema disidratazione, ma contemporaneamente agisce come regolatore della pressione osmotica, regolando così la concentrazione salina, quindi l’idratazione, nei fluidi biologici (nel sangue). Inoltre, mantiene l’equilibrio di alcuni componenti della membrana cellulare come i fosfolipidi. Un aspetto fondamentale questo per combattere la problematica della secchezza cutanea. Non a caso, le creme antietà contenenti trealosio prendono anche il nome di “creme osmotiche”.
In che modo alimentazione e cosmesi contribuisco alla riduzione di questo inestetismo cutaneo?
Ancora una dieta scorretta e una idratazione carente possono contribuire a peggiorare questa situazione. Un buon apporto di acqua ed il consumo di alimenti con la giusta quantità di grassi, vitamine, amminoacidi e proteine è indispensabile per mantenere una pelle idratata ed elastica. E per ultimo, ma non per minore importanza, l’uso dei cosmetici aggressivi con ridotta quantità di attivi ad azione idratante, e/o presenza di alcool e l’assunzione a lungo termine di farmaci come diuretici, contraccettivi ormonali possono alterare il film idrolipidico. Infatti a seguito dell’assunzione di farmaci è buona norma monitorare le condizioni di salute della pelle attraverso visite specialistiche dermatologiche o di medicina estetica. Il primo consiglio per risolvere o migliorare questa problematica, e di conseguenza riuscire a controllare la secchezza cutanea e fastidi correlati, è quello di idratare quotidianamente la pelle dall’interno bevendo molta acqua e facendo consumo quotidiano di alimenti ricchi di questo elemento che, non dimentichiamolo mai, è alla basa della salute delle nostre cellule. Frutta e verdura di stagione non possono assolutamente mancare nella dieta di chi soffre di pelle secca. Poi non dimentichiamo mai la beauty routine che quotidianamente va fatta.
Anche acceleratore dei processi di invecchiamento, tra cui proprio la comparsa di rughe?
Si certo! Con l’avanzare dell’età la capacità da parte dell’organismo di trattenere acqua si riduce e si ha anche una contemporanea riduzione nella produzione degli grassi cutanei predisponendo la pelle ad essere più sottile, fragile, e alla comparsa dei primi segni dell’invecchiamento, fra cui le rughe perché la cellula si troverà più o meno svuotata della sua linfa vitale: l’acqua!
C’è un rapporto tra questa e le infezioni batteriche o virali e le micosi?
Le infezioni della pelle possono svilupparsi anche da una malattia cutanea preesistente il cui substrato presenta una pelle secca o molto secca. Come avviene ad esempio nella dermatite atopica, dove la pelle nelle forme più avanzate, o nelle fase acuta, può presentare delle lesioni, queste possono essere veicolo per microbi di qualsiasi tipo a seconda della stagionalità e degli ambienti che si frequentano come docce delle palestre, piscine o sabbia. Comunque la disidratazione, in generale, causa tensione della pelle ed essendo anche poco elastica tende ad esfoliarsi, fessurarsi e tutto questo espone la cute al rischio di infezioni virali, batteriche o micotiche.
La disidratazione cutanea rappresenta un campanello d’allarme o un fattore predominante per l’insorgenza di altre patologie?
Ci sono diverse forme attraverso cui si manifesta, a seconda della severità e della zona colpita. La secchezza cutanea che dal greco prende il nome come Xerosi, può essere collegata ad alcune malattie come l’ittiosi, un processo di desquamazione e di sfaldamento profondo della pelle che va da una forma lieve fino ad arrivare ad una grave sindrome deturpante. Può essere il segno di una malattia sistemica, si differenzia da una semplice secchezza cutanea proprio perché diventa invalidante a seguito di diagnosi clinica. Ma ancora la dermatite atopica, la psoriasi e la cheratosi piliare, appartengono a malattie caratterizzate un unico comun denominatore, ovvero da pelle secca. Alla base di una secchezza cutanea anche malattie metaboliche come ipotiroidismo, insufficienza renale e diabete.
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L’estate sta arrivando e il Covid se ne va. Ci riscaldano, ci abbronzano e in poche decine di secondi uccidono persino il virus. Meno di un minuto per disattivare la carica virale emessa da una persona positiva. È quanto conferma una nuova ricerca sui raggi che arrivano sulla terra. «Abbiamo dimostrato che raggi Uva e Uvb del sole nel giro di poche decine di secondi uccidono completamente il Sars-Cov-2» dimostra Mario Clerici, immunologo, docente di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore scientifico dell’Irccs di Milano Fondazione Don Gnocchi, autore, insieme al gruppo di ricerca dell’Istituto nazionale di astrofisica, di un nuovo studio tutto italiano. Numerose ricerche precedenti condotte nell’ultimo anno avevano già mostrato gli effetti benefici sia dei raggi solari che della vitamina D come scudo di difesa in questa pandemia. Secondo quando mostrato nell’ultima indagine, la luce ultravioletta a lunghezza d’onda corta o radiazione UV-C avrebbe un’ottima efficacia nel neutralizzare il coronavirus SARS-CoV-2. Confermata e ribadita più volte da recenti studi scientifici la relazione che associa la carenza di vitamina D alle forme più gravi di coronavirus. Insomma, che la carenza di vitamina D potrebbe diventare un fattore predisponente per ammalarsi di Covid e portare ad un esito severo o addirittura letale della malattia l’aveva già sostenuto a inizio pandemia, in una lettera al British Medical Journal, il professor Andrea Giustina primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology. Nella lettera, il primario evidenziava come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria.
Insomma, la bella stagione il virus porta via. 10, 20 secondi al massimo e il sole inattiva il virus. Ormai noto da tempo il potere germicida della luce UV-C su batteri e virus, una proprietà dovuta alla sua capacità di rompere i legami molecolari di DNA e RNA che costituiscono questi microorganismi. Difatti, diversi sistemi vengono utilizzati per la disinfezione di ambienti e superfici come appunto ospedali e luoghi pubblici. In pratica, d’estate il virus è spacciato. Quindi, di conseguenza, la peggior letalità del SARS-CoV-2 scaturita dalla minore (o nulla) esposizione ai raggi solari, mezzo primario per sintetizzare la vitamina D. Per l’esperimento, i ricercatori hanno utilizzato cellule polmonari in piastra che sono state irrorate con le diverse quantità di SARS-CoV-2, dunque poste sotto lampade UV per calcolare i tempi di inattivazione delle diverse lunghezze d’onda sul patogeno umano. L’effetto germicida è stato verificato anche in risposta all’irraggiamento con gli UV-A e gli UV-B, indicando che la carica virale può essere completamente inattivata dalle lunghezze d’onda UV corrispondenti all’irradiazione solare UV-A e UV-B. «Abbiamo illuminato con luce UV soluzioni a diverse concentrazioni di virus e abbiamo trovato che è sufficiente una dose molto piccola, per inattivare e inibire la riproduzione del virus, indipendentemente dalla sua concentrazione» sottolinea Mara Biasin, docente di Biologia Applicata dell’Università Statale di Milano. «Con dosi così piccole è possibile attuare un’efficace strategia di disinfezione contro il coronavirus. Questo dato sarà utile [...] per sviluppare sistemi volti a contrastare lo sviluppo della pandemia», aggiunge Andrea Bianco, tecnologo INAF.
Una teoria confermata già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. La vitamina D, per l'appunto, svolge tra le altre funzioni anche un ruolo importante come ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. Nelle persone con deficit di vitamina D, la sua integrazione è in grado di ridurre il rischio di sviluppare diverse infezioni virali. Quindi, oltre all’esposizione solare, la supplementazione di questo nutriente è una raccomandazione utile e sicura.
Questo studio - spiega Clerici all’Adnkronos Salute - è essenzialmente il seguito di un precedente lavoro che avevamo fatto l’anno scorso quando avevamo visto che i raggi Uvc che sono una componente dei raggi solari che però non arriva sulla terra, uccidevano il Sars-Cov-2 dopo un’esposizione di pochi secondi. Però gli Uvc - ribadisce Clerici - non arrivano sulla terra, quindi quei dati erano importanti solo da un certo punto di vista. Adesso, abbiamo visto che anche gli Uva e Uvb che sono i raggi che arrivano sulla terra, ci abbronzano e ci riscaldano, nel giro di poche decine di secondi uccidono completamente il Sars-Cov-2. Dunque abbiamo esattamente replicato i dati sugli Uvc però dimostrando questa volta che tutti i raggi solari distruggono il virus. E fra l’altro il tempo necessario, quando per esempio si è in spiaggia con il sole che viene amplificato dal riverbero sulla sabbia o sull’acqua, è ancora più breve. Quindi in spiaggia bastano veramente 10-20 secondi di Uva e Uvb per uccidere completamente il virus. La nostra idea è che questo, insieme alla percentuale sempre più alta di vaccinati, spieghi perché con la bella stagione stiamo superando la problematica. Innanzi tutto c’è da dire che il sole - sottolinea Clerici - non è il solo elemento che giustifichi tutto quello che osserviamo. In India hanno contribuito le feste religiose con i bagni nel Gange e poi c’erano i monsoni, quindi c’era tutta la velatura dei raggi solari dovuta alle nuvole. In Brasile sappiamo tutti quello che è successo purtroppo hanno pagato la gestione Bolsonaro, perché è vero che servono i raggi solari però servono anche le mascherine, i vaccini e tutto il resto.
Gli studiosi hanno confermato l’efficacia del sole contro il Covid-19 oltre a sterilizzare oggetti e ambienti dal virus.
Si vede proprio in una visualizzazione - spiega l’immunologo - l’effetto dei raggi solari sul virus: se non lo esponi ai raggi solari il virus infetta le cellule, se lo esponi ai raggi solari lo uccidi. I dati dell’anno scorso erano importanti perché hanno portato allo sviluppo di dispositivi che svolgevano proprio questa funzione ma i raggi Uvc - ricorda lo scienziato - sono pericolosi per la cute umana, quindi non si poteva stare nella stessa stanza dove venivano applicati. I raggi Uvb invece no, sono i raggi che ci toccano normalmente quando usciamo al sole, per cui questa scoperta ha un’importanza molto più alta. Gli astrofisici hanno collegato una macchinetta che produce i diversi raggi solari in maniera distinta, quindi solo gli Uva o gli Uvb o gli Uvc piuttosto che gli ultravioletti - spiega Clerici - poi abbiamo messo la macchinetta sotto una cappa, abbiamo preso le cellule polmonari e abbiamo buttato sopra il virus. E il virus che è stato esposto oppure no alle diverse componenti dei raggi solari. Dapprima - chiarisce l’immunologo - abbiamo usato una dose massimale di virus, quindi molto molto più alta di quella che si ha in un soggetto con Covid. E poi abbiamo usato la dose presente in un paziente con Covid severo, per vedere se poteva avere anche una potenziale importanza clinica. Ed effettivamente è così: si inattiva nel giro di pochi secondi la quantità di virus che è quella che nei pazienti provoca il Covid severo.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana che, soprattutto in Italia, è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.). In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione tra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente oppure al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente inferiori rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
Dati poi confermati da altri lavori condotti dall’inizio della pandemia hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza come strategia di prevenzione e trattamento:
MedRxiv "UV-A e UV-B possono neutralizzare l'infettività SARS-CoV-2"
Adnkronos "Covid, studio italiano: così il sole distrugge il virus in pochi secondi"
Fanpage "I raggi solari uccidono il coronavirus in meno di un minuto"
HuffPost "I raggi del sole distruggono il virus in pochi secondi: i risultati di uno studio italiano"
Secolo d'Italia "Covid, i raggi solari distruggono il virus in pochi secondi. Lo dimostra uno studio italiano"
YouMedia "I raggi solari uccidono il coronavirus in meno di un minuto"
Respiratory Research "Circulating Vitamin D levels status and clinical prognostic indices in COVID-19 patients"
Agi "La carenza di vitamina D può aggravare la malattia"
Nurse Time "Coronavirus, carenza di vitamina D associata a stadi clinici più compromessi"
Comune di Torino "Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze"
Regione Piemonte "Covid, aggiornato il protocollo delle cure a casa"
Ansa "ANSA-IL-PUNTO/ COVID: PIEMONTE si attrezza contro varianti"
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Jama Network "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Springer Link "Associations between hypovitaminosis D and COVID-19: a narrative review"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"
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Covid, calo morti e trasferimenti in terapia intensiva dell'80%: merito della vitamina D
Il sole contro il Covid: la vitamina D ci rende più forti e meno vulnerabili
Covid, studio a Pavia: carenza di vitamina D associata all’infezione
Regno Unito: contro il Covid, vitamina D a oltre 2 milioni di persone
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Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D
Sarcopenia per gli esperti del settore, ma per tutti gli altri questa condizione è meglio nota come riduzione della massa muscolare. Un altro nome che si aggiunge alla lista di malattie, oltre a obesità e patologie cardiovascolari che ci rendono maggiormente vulnerabili al rischio Covid e alle sue capacità di generare gravi complicazioni nei pazienti ospedalizzati. Ennesima evidenza scientifica, anche questa, dimostrata da uno studio italiano coordinato dall’Istituto Galeazzi e dal Policlinico San Donato, in collaborazione con l'Università di Milano. Insomma, dati alla mano, anche una massa muscolare ridotta si è rivelata quindi un fattore prognostico negativo nei pazienti affetti da questa grave infezione, esattamente, come dimostrato, accade in altre patologie e principalmente in ambito oncologico. La ricerca ha coinvolto 552 pazienti, di cui 364 uomini (con età media di 65 anni), ricoverati durante la prima ondata della pandemia nel periodo febbraio-aprile 2020. L’analisi dei parametri si è basata su un modello statistico che ha incrociato le informazioni relative allo stato della muscolatura, ottenute grazie alla Tac toracica eseguita per verificare la presenza di polmonite, con alcuni dati fisici e clinici di ciascun paziente. Lo studio ha messo in luce un’associazione significativa tra la ridotta massa muscolare e l’insorgenza di complicanze da Covid. Teoria che si lega a quella di uno studio inglese che ha valutato l'impatto dell'inattività sulla gravità della malattia. La ricerca pubblicata sul British Journal of Sports Medicine dimostra che chi non pratica attività sportiva ha il 73% di probabilità di finire in terapia intensiva.
Parliamo di "SARCOPENIA" nella puntata n°30 de "Il Cerca Salute"
Non sottovalutare le conseguenze dell’invecchiamento. Oltre alla perdita della massa muscolare anche la conseguente diminuzione della forza. L'avanzamento dell'età adulta è associato a profondi cambiamenti nella composizione corporea, la cui componente principale è una diminuzione della massa muscolare scheletrica. Questa perdita legata all'età nel muscolo scheletrico è stata definita sarcopenia. Questa malattia si origina prevalentemente in tre step: il muscolo viene lentamente sostituito da tessuto adiposo (grasso), le giunzioni tra fibre muscolari e nervose (giunzione neuromuscolare) tendono a degenerare e di conseguenza, aumenta lo stress ossidativo a carico delle fibre muscolari. Si tratta di un processo fisiologico che inizia sostanzialmente dopo i 30 anni di età per poi procedere più rapidamente una volta superata la soglia dei 70. A questo si aggiunge una conseguente perdita di forza pari al 20% entro i 60 anni e al 50% intorno agli 80 anni. Da qui l’importanza di rallentare l’avanzamento di questa patologia invalidante attraverso la costante attività fisica ed una corretta alimentazione in modo tale da evitare che tale condizione degeneri rapidamente in una sindrome da fragilità dell’anziano con conseguente disabilità. Tra le cause principali la scarsa attività motoria e tutte quelle patologie che causano un malassorbimento intestinale come ad esempio diverticolite, malattie infiammatorie croniche dell’intestino (morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa) e disturbi intestinali. Tra i primi sintomi, invece, debolezza, stanchezza, atrofia muscolare e graduale perdita della forza.
Oltre alla funzione che svolge nei confronti del metabolismo energetico, il muscolo scheletrico e il suo declino correlato all'età possono contribuire a importanti cambiamenti associati all'avanzare degli anni come la riduzione della densità ossea, della sensibilità all'insulina e della capacità aerobica. Un processo che è possibile, come già aticipato, rallentare grazie a un approccio combinato: corretta alimentazione, attività fisica e integrazione. Alcuni studi hanno indagato l’eventuale utilità dell’integrazione alimentare (principalmente proteica e/o amminoacidica), spesso in combinazione con un’adeguata attività fisica. Altre indagini hanno invece evidenziato come per tutelare l’anziano dal rischio di sarcopenia siano necessari almeno 1,2 g di proteine per chilogrammo di peso corporeo al giorno (mentre nel soggetto giovane sedentario sono sufficienti meno di 1.0 g per chilogrammo di peso al giorno). Alle proteine (anche e soprattutto di origine vegetale) bisogna poi affiancare altri macro e micronutrienti come fibre, acidi grassi, sali minerali, vitamine, ferro ed acido folico. «Una dieta nutriente over 65 – spiega il professor Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva - dovrebbe sempre prevedere l’apporto di [...] polifenoli, aminoacidi, acidi grassi essenziali, antiossidanti, omega-3, sali minerali e vitamine, coenzima Q10, steroli, selenio, acido folico e ferro insieme a supplementi proteici e a integratori specifici suggeriti dal medico di riferimento o dallo specialista».
Le tac toraciche eseguite sui pazienti affetti da Covid-19 ci hanno dato la possibilità di avere accesso a una fonte preziosa di informazioni relative allo stato dei muscoli paravertebrali - conferma Luca Maria Sconfienza, responsabile dell’Unità di Radiologia diagnostica e interventistica all’Istituto Galeazzi e docente all’Università Statale di Milano -Questo ci ha permesso di validare la nostra ipotesi, ovvero che la ridotta massa muscolare sia un fattore rilevante da considerare nei pazienti Covid, come già accade per altre comorbidità. Questi risultati potrebbero essere utili ai colleghi clinici impegnati nei reparti Covid. - Lo studio ha convolto quattro ospedali, il Niguarda a Milano, l'Istituto ospedaliero di Brescia, l'azienda ospedaliero-universitaria di Novara e l'Istituto ortopedico Galeazzi nel capoluogo lombardo. - La grande sfida della pandemia ci ha mostrato nuovamente quanto sia preziosa la collaborazione tra diversi ospedali - sottolinea Simone Schiaffino, del Policlinico San Donato e primo autore della ricerca - E' il modello dello studio multicentrico che integra molteplici esperienze per uno scopo comune: ricavare dalle indagini eseguite dati utili alla prognosi, mediante un dato normalmente non considerato, lo stato muscolare, che esprime in modo efficace una possibile 'fragilità' dei pazienti, concetto quanto mai attuale in questo momento di emergenza.
Il Giorno "Covid e complicanze, occhio a chi ha pochi muscoli"
La Repubblica "Covid: chi non fa attività fisica ha il 73% di probabilità di finire in terapia intensiva"
PubMed "What is sarcopenia?"
Fondazione Umberto Veronesi "Dieta proteica e attività fisica contro la sarcopenia"
Corriere Nazionale "Covid e sedentarietà: più rischi per la salute"
Gazzetta dello Sport "Aminoacidi ramificati: la corretta integrazione per gli sportivi"
Food Spring "L’effetto degli aminoacidi nello sport"
Gazzetta dello Sport "Antiossidanti, perché sono fondamentali per gli sportivi? Ecco dove trovarli"
Vanity Fair "Quattro modi facili per aggiungere antiossidanti alla tua dieta"
Sapere e Salute "Antiossidanti"
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Sport e vitamina D: riduce il rischio di fratture ed aumenta la tonicità muscolare
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Più vitamina D significa meno cancro. Una sorta di terapia naturale che ci difende dal cancro, una vera e propria strategia di prevenzione. È la volta dei ricercatori tedeschi che in un lavoro segnalano il ruolo centrale della vitamina D, come alleato dei malati di tumore. A questa conclusione è giunta uno studio condotto dal Centro tedesco di ricerca sul cancro (DKFZ) di Heidelberg dove il team di ricercatori ha scoperto che l’integrazione della vitamina D potrebbe avere un impatto decisivo sulla riduzione della mortalità, nel contesto di un quadro patologico di cancro grave. Un decremento del 13% che potrebbe cambiare le sorti di un numero significativo di pazienti oncologici. Hermann Brenner, epidemiologo della DKFZ ha precisato che il tasso di mortalità per tumori legati all’età è diminuito negli ultimi anni in modo costante, tuttavia, in alcuni Paesi europei i numeri dei decessi rimangono ancora rilevanti. Sempre secondo Brenner, che ha messo a confronto le morti dei pazienti oncologici della Germania con quelle della Finlandia, di gran lunga inferiori, il motivo sarebbe da rintracciare nel stile alimentare adottato da ciascuno. Difatti, in Finlandia, molti alimenti sono stati rafforzati con l’aggiunta di vitamina D ormai da tempo. Sfortunatamente per tutti gli altri, solo un numero limitato di alimenti, come i pesci grassi salmone, tonno e sgombro, contengono notevoli quantità di vitamina D3. Questo rende l'integrazione una strategia alternativa per ottimizzare lo stato di questa preziosa sostanza.
Registrata in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, la carenza della vitamina D colpisce principalmente gli over 50. È quindi fondamentale integrare questa vitamina, per salvaguardare la salute, in quanto sostanza con un impatto decisivo sul sistema immunitario capace di favorire la prevenzione di diverse malattie. Recenti meta-studi hanno dimostrato che una dieta sana, caratterizzata da un livello equilibrato di questo ormone, potrebbe ridurre notevolmente i decessi causati dal cancro. La conferma arriva dallo studio firmato dal Centro tedesco di ricerca sul cancro (DKFZ). L’indagine pubblicata ha evidenziato che un’integrazione della vitamina in tutte le persone sopra i 50 anni potrebbe prevenire fino a 30.000 decessi per cancro ogni anno. In modo tale da attuare una forma di prevenzione importante, dal momento che un gran numero di persone soffre di un significativo deficit di vitamina D. Caduta di capelli, unghie fragili e mal di testa sono tra i principali sintomi di questa pericolosa condizione. Già 40 anni fa, uno studio epidemiologico suggeriva che la vitamina D potesse essere protettiva contro il cancro del colon-retto (CRC), poiché una maggiore esposizione al sole (UV-B) e una vita a latitudini più basse (che causano entrambi una maggiore formazione di vitamina D 3) porta a una minore incidenza per questo tipo di cancro.
Da quello del colon a quello del seno, da quelli del sangue a quello alla prostata. Una missione “salva-vite” quella della vitamina D che avrebbe dunque la capacità di sostenere l’arduo compito delle terapie contro il cancro. Hermann Brenner ha spiegato poi che l’integrazione di questo nutriente è fondamentale soprattutto per le persone sopra i 50 anni, per questo è bene consultare il proprio medico curante. Inoltre, è bene esporsi di più al sole, con le dovute cautele, per assimilarla dai raggi considerato che il nostro corpo non è capace di produrla. Un altro studio, quello condotto dall'Università della Finlandia orientale e dall'Università autonoma di Madrid e pubblicato sulla rivista scientifica Seminars in Cancer Biology a conferma della teoria dei colleghi tedeschi. Secondo questo precedente lavoro, le sue funzioni preventive sono molto più ampie e questa sostanza potrebbe essere un’arma vincente contro alcuni tumori, tra cui quelli del colon, del seno, della prostata e del sangue. L’indagine si basa sulla correlazione tra l’elevata reattività alla vitamina D alla riduzione del rischio di cancro. Gli autori hanno osservato che la vitamina D regola il sistema immunitario e che i suoi effetti anticancro vengono mediati principalmente dalle cellule immunitarie, come i monociti e le cellule T. Inoltre, questa sostanza applica i suoi effetti tramite il recettore della vitamina D (VDR). I suoi effetti sono particolarmente evidenti nella prevenzione del cancro del colon-retto e dei tumori del sangue, come leucemie e linfomi. Gli altri due tumori sensibili alla vitamina D sono il carcinoma mammario e prostatico. Anche in questo caso un basso livello di vitamina D è stato associato a una maggiore incidenza di cancro e una prognosi peggiore.
Secondo i ricercatori, ogni individuo ha una risposta molecolare e una sensibilità diversa alla vitamina D (e alla sua supplementazione). «La vitamina D contribuisce a mantenere e difendere la normale fisiologia dell'organismo contro l'apparizione e lo sviluppo delle neoplasie. L'identificazione dell'uso clinico ottimale del sistema vitaminico D è un compito che richiede sforzi continui» concludono gli autori. Dal punto di vista evolutivo, il ruolo principale della vitamina D è stato probabilmente il controllo del metabolismo energetico che successivamente si è spostato per modulare l'immunità innata e adattativa, nonché per regolare l'omeostasi del calcio e delle ossa. Poiché le cellule immunitarie e cancerose in rapida crescita utilizzano entrambe le stesse vie e geni per controllare la loro proliferazione, differenziazione e apoptosi, non sorprende che la segnalazione della vitamina D modifichi questi processi anche nelle cellule neoplastiche. Pertanto, gli effetti anti-cancro della vitamina D possono derivare dalla gestione della crescita e della differenziazione nell'immunità ovvero, gli effetti dell'1,25 (OH) 2 D 3 sull'epigenoma e sul trascrittoma e la sua relazione con la prevenzione e la terapia del cancro.
Nel 2018, in tutto il mondo, sono morte di tumore circa 10 milioni di persone. Il cancro è il termine generale che descrive una moltitudine di malattie molto eterogenee che hanno in comune la visualizzazione di una crescita eccessiva incontrollata di cellule in qualsiasi tessuto di un individuo. La base molecolare del cancro è l'accumulo di mutazioni puntiformi e variazioni del numero di copie, come amplificazioni e delezioni o grandi alterazioni cromosomiche come traslocazioni e aneuploidie, che aumentano l'attività degli oncogeni e diminuiscono quella dei geni oncosoppressori. Queste instabilità genomiche sono modulate da cambiamenti epigenetici attraverso azioni dirette degli enzimi che modificano la cromatina, nonché tramite effetti indiretti dei fattori di trascrizione. Sia i modificatori della cromatina che i fattori di trascrizione si trovano spesso al punto finale delle cascate di trasduzione del segnale che sono stimolate da vari segnali intra ed extracellulari. I cambiamenti dell'epigenoma sono innescati da segnali dell'ambiente cellulare, come nutrienti, tossine e citochine e chemochine correlate all'infiammazione. Pertanto, i cambiamenti epigenetici possono avere effetti sia dannosi che benefici sull'insorgenza e sulla progressione del cancro.
Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene
Vi è ampio consenso sul fatto che la modulazione del sistema immunitario sia la più importante funzione extra-scheletrica della vitamina D. La vitamina D stimola il sistema immunitario innato a combattere in modo più efficiente contro le infezioni batteriche, come la tubercolosi, mentre previene le reazioni eccessive del sistema immunitario adattativo che possono causare malattie autoimmuni, come la sclerosi multipla. In generale, la vitamina D agisce come un induttore dell'immunità innata, come attraverso la regolazione della catelicidina peptidica antimicrobica secreta o della glicoproteina CD14 ancorata alla membrana plasmatica. Pertanto, la risposta precoce dei monociti e dei macrofagi alla stimolazione della vitamina D è un'azione pro-infiammatoria. In una fase successiva, la vitamina D spesso sposta la polarizzazione dei macrofagi dallo stadio M1 pro-infiammatorio e antitumorale allo stadio M2 immunosoppressivo e pro-tumorale. La carenza di vitamina D è associata anche al morbo di Crohn e alla colite ulcerosa, che sono le due manifestazioni fisiopatologiche predominanti della malattia infiammatoria intestinale. I tassi di malattia infiammatoria intestinale sono probabilmente in aumento a causa dei moderni stili di vita che influenzano la funzione del microbioma intestinale attraverso alti livelli di grassi saturi e zuccheri nella dieta e l'uso di antibiotici. La vitamina D è importante per regolare l'immunità della mucosa intestinale attraverso la modulazione della funzione di barriera immunitaria innata, l'integrità dell'epitelio intestinale e lo sviluppo e la funzione delle cellule T. Pertanto, la vitamina D può prevenire l'insorgenza di malattie infiammatorie intestinali attraverso la stabilizzazione dell'omeostasi del microbiota e migliorare la progressione della malattia tramite risposte immunitarie antinfiammatorie.
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Acclarata già da tempo la relazione che associa la carenza di vitamina D alle forme più gravi di coronavirus, viene confermata ancora volta da un altro studio che dimostra i tanti benefici di questo ‘ormone del sole’ e gli eventuali rischi di un eventuale deficit. Questa volta lo sostiene una ricerca condotta all’Ospedale Sant’Andrea di Roma e pubblicata sulla rivista scientifica Respiratory Research. «Abbiamo osservato in particolare 52 pazienti ricoverati da noi con polmoniti da Covid durante la prima ondata, pazienti anziani con un’età media di 68 anni e mezzo, accomunati da livelli estremamente bassi di vitamina D, inferiori a 10 ng/ml. Tutti avevano quadri respiratori e immunologici particolarmente gravi», spiega in un’intervista a Gazzetta Active il professor Alberto Ricci, direttore dell’U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma. Insomma, che la carenza di vitamina D potrebbe diventare un fattore predisponente per ammalarsi di Covid e portare ad un esito severo o addirittura letale della malattia l’aveva già sostenuto a inizio pandemia, in una lettera al British Medical Journal, il professor Andrea Giustina primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology. Nella lettera, il primario evidenziava come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria, favorendo anche il rischio di malattie autoimmuni.
Uno scenario critico soprattutto in un momento storico in cui il Covid stava compiendo la sua prima strage, soprattutto di anziani, nel Nord Italia. Caratteristica che è rimasta poi invariata anche nella seconda ondata dove tra le regioni più colpite risultano sicuramente quelle settentrionali. Dal Veneto al Piemonte, dalle Valle D’Aosta alla Lombardia. E non dimentichiamo che sono stati proprio i dati di quella parte di Italia a far schizzare il bilancio dei contagi e delle vittime nel Paese, portandoci in vetta alle tristi classifiche mondiali sullo stato dell’infezione da Sars-CoV-2. Quindi, la peggior letalità del Sars-CoV-2 scaturita dalla minore (o nulla) esposizione ai raggi solari, mezzo primario per sintetizzare la vitamina D. Stando a quanto riportato in diversi studi, nella popolazione italiana si registrano, soprattutto negli ultimi anni, bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno, per esempio, i Paesi scandinavi. Inoltre, emerge da un’altra importante metanalisi pubblicata nel 2017 sul British Medical Journal che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D, ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa, avevano meno infezioni respiratorie. Altro importante collegamento è quello che emerge tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio e di vitamina D e vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Tuttavia, questo ormone che è un composto naturale fisiologicamente già presente nell’organismo non può essere addizionato completamente mediante alimentazione poiché il cibo fornisce solo il 20% del fabbisogno giornaliero di questo prezioso nutriente.
L’indagine ha inoltre evidenziato i tanti effetti benefici della vitamina “del sole” oltre che sul sistema immunitario anche per il metabolismo delle ossa ed, in particolare, contro le infezioni.
Lungi dal considerare la vitamina D come un trattamento – sottolinea il professor Ricci – va però detto che rappresenta probabilmente, e non soltanto per il Covid-19, un elemento da valutare per le implicazioni legate ad una sua carenza. Non è solo di una vitamina necessaria per il metabolismo dell’osso, ma probabilmente svolge funzioni molto più complesse anche per quanto riguarda la parte immunologica, sia durante lo sviluppo del sistema immunitario sia nelle fasi successive di mantenimento e attività del sistema immunitario stesso - chiarisce Ricci. - Si tratta di un’osservazione interessante che potrebbe essere considerata anche in altri tipi di patologie infettive, non solo nel Covid.
Un nuovo studio che riporta sotto i riflettori un fenomeno di tutti quei Paesi del Nord Europa, quelli meno esposti al sole, il cosiddetto “paradosso scandinavo”: «C’è una campagna di implementazione di vitamina D importante che noi non facciamo, forse perché ci riteniamo naturalmente più protetti perché più esposti al sole. Ma certe popolazioni fragili come gli anziani stanno prevalentemente chiusi in casa o nelle Rsa e il sole non lo vedono. Proprio in questi casi, ma non solo, studiare i livelli plasmatici di vitamina D può essere molto importante per decidere eventuali integrazioni». Inoltre, a differenza degli italiani, gli scandinavi hanno sopperito a questa carenza, noi invece no, spiega l'autore dello studio.
I suoi importanti effetti a livello immunitario era confermati già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. Un paradosso, quello scandinavo, che permette di formulare un’ipotesi per l’Italia, colpita così duramente dalla pandemia, a causa degli scarsi, e quindi insufficienti, livelli di vitamina D registrati tra la popolazione. A questo scenario critico si lega l’importanza dell’integrazione che non prevede nessuna controindicazione. «La vitamina D non è un farmaco tossico, somministrarla a chi ha una carenza ne potenzia le risposte immunitarie. Dal lato opposto, chi ha livelli di vitamina D molto bassi è probabilmente molto più esposto alle infezioni in generale, respiratorie e non solo», conclude il professor Ricci.
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Dolorosa e invalidante. Acuta o cronica è senza dubbio, la più nota è quella reumatoide. Tra le patologie della mano più comuni e fastidiose c’è sicuramente l’artrite. Dalle dita rigonfie a quelle deformate cosiddette “a collo di cigno”. I tratti distintivi di questa malattia sono senza dubbio dolori localizzati tra al pollice, medio e anulare, formicolii, rigonfiamenti oltre al “dito a scatto”. Una patologia autoimmune sistemica in cui alcune cellule del sistema immunitario che mutano e attaccano il proprio organismo aggredendolo. Nello specifico, la membrana affetta da artrite crea il panno sinoviale che, espandendosi, intacca legamenti, tendini e cartilagini. Le articolazioni maggiormente bersagliate sono sicuramente polsi, gomiti, ginocchia, caviglie, piedi e mani. In pratica, nelle persone malate di artrite reumatoide, produce erroneamente anticorpi che attaccano il rivestimento delle articolazioni (membrana sinoviale), causando infiammazione e dolore. L’infiammazione, a sua volta, produce sostanze chimiche (citochine) che provocano l’ispessimento e l’aumento di volume della membrana sinoviale e danneggiano le ossa, le cartilagini, i tendini e i legamenti circostanti. In assenza di cure, le citochine possono causare la deformazione dell’articolazione e, da ultimo, distruggerla completamente. Le ipotesi più accreditate sostengono che la malattia si manifesti in individui geneticamente predisposti quando siano esposti ad un evento o ad un agente, scatenante (quale un virus o un batterio), non ancora individuato che innesca la reazione immunitaria. Colpisce dalle tre alle sette persone ogni mille, in prevalenza donne, con un picco di insorgenza in una fascia d’età compresa fra i 45 e i 65 anni. Dalla rigidità al movimento alla conseguente perdita della funzionalità delle articolazioni coinvolte. «L’artrite reumatoide è una patologia infiammatoria cronica autoimmune che attacca i tessuti articolari di una persona il cui sistema immunitario, invece di proteggere l’organismo dagli agenti esterni come virus e batteri, si attiva in maniera anomala contro di esso» spiega al Corriere della Sera Roberto Gerli, presidente della Società Italiana di Reumatologia.
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In Italia, 400.000 persone soffrono di artrite reumatoide. L’artrite reumatoide (AR) è una malattia infiammatoria cronica autoimmune che colpisce in maniera elettiva le articolazioni. La sua prevalenza ovvero il numero di casi di artrite reumatoide nella popolazione mondiale è di circa l’1%. In Italia la media è di un malato ogni 250 persone. Tra le malattie osteoarticolari, l’artrite reumatoide, rappresenta la malattia più grave in termini di danno strutturale delle articolazioni, di danno osseo secondario, di complicanze extra-articolari, di comorbidità associate e di rischio di mortalità. Come accade per altre malattie autoimmuni è lo stesso sistema immunitario (che di norma difende l’organismo dalle aggressioni esterne) ad attaccare i tessuti sani, non riconoscendoli come tali. Il “bersaglio” privilegiato degli anticorpi, in questo caso è la membrana sinoviale, che è il foglietto di rivestimento interno della capsula articolare e che si riflette ai margini di questa andando poi a tappezzare le superfici ossee articolari. Tale membrana reagisce all'infiammazione aumentando di volume e dando origine al panno sinoviale. Questo si espande fino a provocare la graduale distruzione della cartilagine, ma il processo proliferativo nei casi più gravi arriva a toccare le ossa e gli altri tessuti circostanti (osso subcondrale, capsule, tendini, legamenti). Tuttavia, l’infiammazione potrebbe coinvolgere i vasi sanguigni, le sierose, i muscoli, i polmoni, i reni, il cuore, il sistema nervoso centrale e periferico, l’apparato visivo, quello emopoietico. Tra le categorie più a rischio ci sono indubbiamente anche le persone obese o in sovrappeso, questo perché l’aumento di peso sovraccarica le articolazioni aumentando il rischio di infiammazione.
Sotto il nome di artrite, che significa letteralmente “articolazione dolorante”, rientrano più di cento condizioni diverse. Unico comune denominatore, la caratteristica di provocare un'infiammazione a livello articolare. Fino a poco tempo fa confusa o associata all’artrosi, malattia ben diversa che colpisce i condrociti, le cellule che costituiscono la cartilagine e che, nonostante abbia una componente infiammatoria non è una malattia infiammatoria. Tra i sintomi manifesti di questa infiammazione articolare dolore, gonfiore, rigidità al movimento e successiva perdita della funzionalità delle articolazioni coinvolte. La rigidità articolare, maggiormente intensa al risveglio, può durare per tutta la giornata. Si tratta di uno dei principali campanelli d’allarme dell’artrite reumatoide: in altre patologie articolari (come l’osteoartrosi) questo disturbo tende a svanire più rapidamente. Inizialmente, la perdita della funzionalità articolare può essere determinata dall’infiammazione della membrana sinoviale (o sinovite). Nella fase avanzata della malattia è più frequentemente associata alle deformità articolari e alle anchilosi. Di solito, l’artrite reumatoide colpisce in modo bilaterale e simmetrico. Tra le varie forme di artrite:
Osteoartrite: più comune soprattutto tra le persone anziane, è la causa principale di disabilità fisica, tra le donne dopo i 45 anni di età. Lesiona le cartilagini e conseguentemente comporta spesso un contatto diretto tra le ossa nelle articolazioni. Si manifesta su mani, collo, fondoschiena e sulle articolazioni su cui si scarica il peso del corpo, come le ginocchia, i fianchi e i piedi.
Artrite reumatoide: (come già detto) interessa le articolazioni, ma anche i tessuti epidermici, polmonari, oculari e i vasi sanguigni. Le persone colpite si sentono stanche e febbricitanti. Una malattia autoimmune che si manifesta solitamente in modo simmetrico nei vari organi (entrambe le mani o entrambe le ginocchia). Può comparire a qualunque età, ma colpisce perlopiù le persone nel loro periodo di maggior produttività. Le donne colpite sono circa due volte più numerose che gli uomini.
Gotta: si manifesta come dolore improvviso e molto intenso e infiammazione e ingrossamento delle articolazioni. Frequentemente gli attacchi sono notturni e possono essere conseguenti all’uso di alcol, droghe o altre malattie pre-esistenti. E’ dovuta all’accumulo di cristalli di acido urico nei tessuti connettivi che si trovano nelle articolazioni. E’ più frequente negli uomini tra i 40 e i 50 anni, mentre nelle donne compare solitamente solo in menopausa.
Artrite reumatoide giovanile: la forma più comune tra i bambini, che causa dolore, irrigidimento, gonfiore e perdita di funzione delle articolazioni. Può essere associata ad episodi di febbre e può colpire diverse parti del corpo.
Fibromialgia: una malattia cronica che causa dolori in tutti i tessuti che supportano ossa e articolazioni. I dolori e l’irrigidimento si manifestano nei muscoli e nei tendini, soprattutto sul collo, colonna vertebrale, spalle e fianchi.
Lupus sistemico eritematoso: malattia autoimmune che comporta infiammazione di articolazioni, pelle, reni, cuore, polmoni, vasi sanguigni e cervello.
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Oltre a queste, ci sono anche altre forme di artrite che colpiscono anche tessuti e organi interni: lo scleroderma (che colpisce soprattutto la pelle), la spondiloartropatie (un insieme di forme che interessano principalmente la colonna vertebrale), l’artrite infettiva (causata da un agente batterico o virale, come i gonococchi o i porvovirus), la polimialgia reumatica (colpisce tendini, muscoli, legamenti, e tessuti articolari), la polimiositi (genera infiammazione muscolare), l’artrite psoriasica (che si manifesta in persone già colpite da psoriasi, soprattutto sulle dita di mani e piedi), le borsiti (infiammazione delle bursae, che contengono liquidi atti a ridurre la frizione tra le ossa) e le tendiniti (comportano infiammazione dei tendini, sia per eccessivo e scorretto uso che per una pregressa condizione reumatica).
Una dieta a ridotto contenuto infiammatorio è associata a una maggiore perdita di peso, riduzione dell’infiammazione, migliori prestazioni fisiche e minore dolore articolare. Difatti, uno stile alimentare “a basso contenuto infiammatorio” potrebbe portare persino alla riduzione del dolore e al miglioramento delle funzioni fisiche. Come suggerito dal dottor Gianfrancesco Cormaci, specialista in biochimica clinica «il regime alimentare previsto per alleviare questi sintomi è la dieta antinfiammatoria che si basa essenzialmente sui cibi ad alto contenuto di antiossidanti, polifenoli, carotenoidi, acidi grassi omega 3, cibi a basso indice glicemico». In questo regime alimentare viene favorito anche l’utilizzo dell’olio extravergine di oliva come principale fonte di grassi ed è altresì consigliata la riduzione o la minimizzazione di carboidrati, alcolici e zuccheri. Sono, invece, da prediligere tutti quegli alimenti che contengono grassi omega 3 la curcuma perché in grado di contrastare gli stati infiammatori, l’olio EVO perché è da considerarsi un farmaco naturale. Insomma, da evitare assolutamente, zuccheri, cereali e tutti i cibi OGM. Questi cibi se inseriti all’interno di un’alimentazione sana e bilanciata, possono offrire un valido aiuto per alleviare i fastidiosi sintomi dell’artrite.
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Non toglie solo il medico, ma anche la cataratta. È la scoperta di un nuovo studio britannico che collega il consumo della tanto amata bevanda a un minor rischio di sviluppare un problema agli occhi. Vero e proprio deterrente per l’insorgenza di questa malattia invalidante, il vino rosso si dimostra ancora una volta grande alleato del benessere. Insomma, un bicchiere di vino al giorno toglie la cataratta di torno. Nessun miracolo, è tutto merito degli antiossidanti. Ebbene sì, secondo quando dimostrato dall’indagine, gli antiossidanti presenti nel vino potrebbero aiutare a spiegare perché i bevitori, ovviamente moderati, abbiano il 23% in meno di possibilità di dover subire un peggioramento delle condizioni, e quindi, anche un intervento alla vista, rispetto alle persone che non lo consumano. La cataratta, ovvero il processo di progressiva perdita di trasparenza del cristallino nell'occhio, è una tra le principali cause di problemi di vista e cecità, soprattutto nelle persone anziane. Dai notevoli benefici alla capacità di tenere alla larga non solo questa patologia, ma anche la possibilità di ricorrere, come spesso avviene, a un intervento chirurgico. Sono 650 mila le persone in Italia che per riacquistare la vista sono costrette a sottoporsi a questo intervento.
Rigorosamente moderato, il consumo di vino rosso aiuta la vista. Un bicchiere al giorno, riduce la probabilità di sviluppare la cataratta. I ricercatori dell'ospedale oculistico Moorfields di Londra e dell'istituto di oftalmologia dell'University College della capitale hanno analizzato il quadro clinico e lo stile di vita di circa 500 mila pazienti suddiviso poi in due studi, Epic-Norfolk e Uk Biobank. Gli esperti hanno scoperto che le persone che consumavano circa 14 unità di alcol a settimana avevano meno probabilità di subire un intervento di questo genere. Il rischio era inferiore soprattutto tra i bevitori di vino rispetto a quelli che consumavano birra o altri alcolici. Nello studio Epic-Norfolk coloro che bevevano vino almeno cinque volte a settimana avevano il 23% in meno di probabilità di avere un peggioramento della patologia rispetto ai non bevitori, mentre quelli dello studio UK Biobank avevano il 14% in meno di probabilità. «Lo sviluppo della cataratta può essere dovuto a un danno graduale dallo stress ossidativo durante l'invecchiamento. Il fatto che i nostri risultati siano stati particolarmente evidenti nei bevitori di vino può suggerire un ruolo protettivo degli antiossidanti polifenolici, che sono particolarmente abbondanti nel vino rosso», sottolinea il dottor Sharon Chua, autore dell’indagine. Gli scienziati hanno sottolineato anche una correlazione tra il consumo moderato e la (s)comparsa della cataratta.
La salute degli occhi passa dagli antiossidanti. Circa il 30% degli ultracinquantenni è affetto da cataratta che influisce sulla vista in uno o in entrambi gli occhi. La funzione benefica sui nostri occhi deriva dal ruolo protettivo degli antiossidanti polifenolici. Molecole fondamentali perché, senza di esse, il nostro corpo subirebbe danni irreparabili ovvero, sono gli agenti che prevengono o rallentano il fenomeno dell'ossidazione. I polifenoli sono antiossidanti naturali presenti nelle piante e potrebbero risultare utili nella prevenzione dell'ossidazione e nell'eliminazione dei radicali liberi. Le notevoli proprietà del vino vengono poi, da sempre associate a un’ampia famiglia di composti polifenolici che comprendono i flavonoidi, le catechi-ne, i leucoantociani, gli antociani e gli stilbeni (tra cui i resveratrolo). Sono una sorta di fonti alimentari che si dimostrano potenti “spazzini di radicali liberi”. Lo stress ossidativo causato dai radicali liberi e dall’invecchiamento è responsabile di pericolose malattie dell’occhio e gli antiossidanti sono un aiuto prezioso per combatterlo.
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Cataratta, glaucoma e degenerazione maculare tra le patologie oculari oggi più diffuse. Tutti fastidi tipici dell’avanzare dell’età che dovrebbero essere correttamente prevenuti e trattati. Tra le altre, molto diffusa è anche la retinopatia diabetica, una grave complicanza del diabete che compromette la funzionalità della retina e che, costituisce la prima causa di ipovisione e cecità. Lo stress ossidativo degli occhi è naturalmente innescato dall’esposizione ripetuta alla luce, tuttavia è un fenomeno aggravato e accentuato anche dalla continua esposizione ai dispositivi elettronici come smartphone, computer, tablet e tv che sottopongono la retina a stress per diverse ore al giorno. I radicali liberi ROS (Reactive Oxigen Species), tra i più diffusi, tendono ad accumularsi a livello della retina e del cristallino. Per combatterli è fondamentale l’aiuto dei cosiddetti antiossidanti, cioè di sostanze capaci di proteggere l'organismo dalla loro azione negativa e dai danni provocati dall’invecchiamento precoce.
“In vino… salus”. Tra i segreti di lunga vita, il classico bicchiere di vino rosso a pasto rinforza il sistema immunitario. Dai polifenoli al resveratrolo, ritardano l’invecchiamento cellulare e prevengono tante malattie. Già gli antichi egizi, intorno al 3150 a.C., utilizzavano le proprietà benefiche del vino, impreziosito da erbe e resine di vario genere per ottenere una miriade di effetti salutari. È quanto si legge dallo studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) della Pennsylvania (Usa). Inoltre, gli effetti positivi del consumo moderato di vino sono stati confermati da numerose ricerche scientifiche. Tra le principali proprietà del resveratrolo vi è la sua funzione antiossidante, ovvero protegge dai danni causati dall’ossidazione. È, infatti, in grado di inibire la sintesi dei radicali liberi, molecole alla base dell’invecchiamento cellulare. Tale principio attivo si trova principalmente negli acini dell’uva rossa ed è trasferito nel vino rosso grazie alla fermentazione del mosto a contatto con le bucce dell’uva (il vino bianco prodotto senza questa tecnica non contiene il resveratrolo). «Tale principio attivo - spiega Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti - appartiene alla famiglia dei fenoli non flavonoidi e a seguito di tale ricerca sono stati realizzati altri studi in tutto il mondo, concentrati più specificatamente sulle capacità antinfiammatorie, fluidificanti, antitumorali, antitrombotiche, antiossidanti ed antidiabetiche del resveratrolo».
Il Messaggero "Cataratta, chi beve moderatamente vino rosso corre meno rischi di un intervento"
Daily Mail "Drinking WINE five or more times a week can slash your risk of needing eye cataract surgery by up to 23%, study finds"
The Guardian "British study links alcohol with lower risk of developing cataracts"
FederSalus "Salute degli occhi: vitamine e antiossidanti che fanno bene alla vista"
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Dai prati verdi alle temperature sopra la media. Stagionali e non, tra fiori che sbocciano e pollini che imperversano ovunque. Con l’arrivo nuova stagione tornano le belle giornate, ma anche le allergie. Naso chiuso, starnuti continui e gola arrossata sono tra i sintomi principali. Questa sintomatologia può durare da pochi giorni ad alcune settimane sempre in assenza di febbre e dolori articolari, tipici di disturbi come raffreddore e influenza. Un disturbo molto diffuso tra le persone che diventa più incisivo in questo periodo dell’anno, proprio a causa delle fioriture primaverili. L'allergia, è una condizione fisica causata dall'ipersensibilità del sistema immunitario a sostanze presenti nell'ambiente. Questo agente esterno scatena una risposta da parte del nostro sistema immunitario. Gli anticorpi coinvolti nella risposta immunitaria sono le Immunoglobuline E (IgE) che, legandosi a specifici globuli bianchi presenti nel circolo sanguigno, inducono una serie di reazioni a cascata, coinvolgendo anche le cellule responsabili dello stato infiammatorio. Istamina, prostaglandine e leucotrieni sono i responsabili delle infiammazioni alle mucose di naso e gola provocando anche bruciore e fastidio. Tuttavia, per prevenire le fastidiose allergie stagionali esistono diversi rimedi. Primo tra tutti, la cura dell’alimentazione. Prestare attenzione alla dieta oltre che forma di prevenzione a questo disturbo ciclico diventa anche una modalità di riduzione della sintomatologia stessa. Evitare, dunque, tutti gli alimenti capaci di accentuare il processo infiammatorio allergico.
Boom di allergie quest’anno soprattutto nei più piccoli. Con un incremento del 40% rispetto agli anni precedenti, stavolta le vittime sono proprio i bambini. È questo l’allarme lanciato dalla Società italiana di Allergologia. Insomma, bel tempo e fastidi respiratori vanno a braccetto. Pollini e graminacee non risparmiano nessuno, nemmeno i bambini. È tornata la stagione della “febbre da fieno”. Ricordiamo inoltre anche chi soffre di fastidi di altra natura come ad esempio l’inquinamento e gli acari della polvere. Tra i disturbi respiratori causati da questi allergeni figurano in primis le riniti di cui, il 50% sono di natura allergica, legate a un periodo preciso dell’anno oppure possono essere persistenti se legate ad allergeni a cui siamo esposti con frequenza. Mentre il 30% fa riferimento, invece, a quelle non allergiche, come il comune raffreddore. Il restante 20% poi, si divide in forme specifiche meno frequenti, come le riniti gravidiche tipiche delle donne in gravidanza o quelle che colpiscono prevalentemente gli anziani. «Negli ultimi decenni c’è stato un notevole incremento delle malattie allergiche. Inizialmente il fenomeno ha interessato i Paesi industrializzati o comunque più ricchi e poi ha coinvolto gradualmente anche molti altri Paesi in via di sviluppo, dove le condizioni di vita sono diventate più simili a quelle dei Paesi occidentali. Tale aumento è risultato particolarmente evidente nei bambini» spiega in un’intervista al Corriere della Sera, Gualtiero Leo, titolare di incarico di Alta Specializzazione in Allergia e Asma presso la U.O.C. di Pediatria – Casa Pediatrica dell’Ospedale Fatebenefratelli, ASST FBF e Sacco di Milano.
Le vere cause delle allergie
I pollini rappresentano una frequente causa di allergia respiratoria sia negli adulti che nei bambini. I sintomi si manifestano più frequentemente con starnuti, prurito al naso e secrezione nasale liquida a cui spesso si associa arrossamento e prurito congiuntivale, configurando il quadro clinico della rinocongiuntivite allergica. Giocare al parco in belle giornate di sole e con un po’ di vento rappresenta l’occasione più frequente per la comparsa di questi sintomi nei bambini allergici ai pollini. La rinite allergica pur non essendo una malattia grave può creare situazioni di disagio al bambino, per esempio per la necessità di soffiarsi il naso ripetutamente, o per dover limitare la sua attività all’aperto con gli amici, con la percezione di essere isolato. La rinite, specialmente se associata a ostruzione nasale, può disturbare il sonno con conseguente influenza sull’attività di apprendimento o anche con giorni di assenza da scuola. L’allergia ai pollini, come anche verso gli acari della polvere, i derivati epidermici di animali domestici o le muffe, può causare anche asma che si manifesta con tosse secca durante l’attività fisica e sensazione di difficoltà respiratoria.
L’esperto poi mette in risalto la correlazione tra l’aumento delle allergie e il microbiota intestinale:
Sappiamo che lo sviluppo delle allergie è dovuto all’interazione di fattori genetici e ambientali, ma l’incremento di frequenza è avvenuto in tempi troppo brevi da poter essere giustificato da modificazioni genetiche, per cui l’attenzione è stata rivolta verso i fattori ambientali. Una delle ipotesi avanzate per spiegare l’aumento delle allergie fu proposta agli inizi degli anni ‘90 e prese il nome di “ipotesi igienica”. Questa ipotesi derivava dall’osservazione che i bambini appartenenti a famiglie numerose sviluppavano meno frequentemente malattie allergiche. Si ipotizzò che ciò fosse dovuto a una maggiore esposizione, nelle prime epoche della vita, a infezioni derivanti dai contatti con i fratelli. L’attenzione su queste osservazioni si è evoluta nei decenni successivi con studi epidemiologici che hanno portato, però, a ritenere che la maggior incidenza di malattie allergiche non fosse dovuta in maniera specifica alla ridotta frequenza di infezioni, intese come contatti con microrganismi patogeni che causavano malattie infettive (virus, batteri), ma piuttosto allo stile di vita occidentale che avrebbe causato un cambiamento del microbiota umano rispetto a quello che avevano le precedenti generazioni.
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Il microbiota è l’insieme dei microrganismi, costituiti prevalentemente da batteri oltre a virus, funghi e parassiti, che colonizzano l’intero nostro organismo distribuendosi su tutte le superfici, sia quelle esterne come la cute che quelle interne come le mucose degli apparati respiratorio, digerente e genitourinario. Il numero di questi microrganismi, dell’ordine di trilioni, è simile o addirittura superiore al numero delle nostre cellule e sono maggiormente numerosi a livello dell’intestino dove esplicano numerose funzioni indispensabili al nostro benessere. Nel bambino, inoltre, hanno la funzione fondamentale di stimolare lo sviluppo del sistema immunitario. Durante la gravidanza il feto vive in un ambiente altamente protetto dalle infezioni e il suo sistema immunitario, che è in grado di dare una buona protezione verso eventuali infezioni, ha il compito principale di non innescare reazioni contro il sistema immunitario della madre nonostante vi sia una parziale incompatibilità, essendo il corredo genetico del feto per metà di origine paterna. Potremmo dire che il sistema immunitario del feto, pur essendo dotato di tutti i suoi componenti che gradualmente si formano, vive in una condizione di “riposo”. Lo stimolo alla maturazione del sistema immunitario avviene per opera dei microrganismi che compongono il microbiota. La colonizzazione dei batteri nel bambino comincia già durante la vita fetale con il passaggio di batteri dall’intestino materno attraverso la placenta e prosegue in maniera più massiva dalla nascita in poi per raggiungere una completa configurazione verso i 3 anni. I fattori principali che concorrono alla formazione del microbiota nel bambino sono il parto (naturale o cesareo), il tipo di allattamento, l’introduzione di alimenti solidi e vari fattori ambientali, come la presenza di fratelli o il contatto con animali domestici e abitare vicino ad ambienti rurali o con fattorie. Comunque, nelle prime epoche della vita, il microbiota si modifica continuamente in seguito all’influenza dei vari fattori che lo condizionano.
Lo Eaaci (European Academy of Allergy and Clinical Immunology) ritiene che l’allergia sia la quarta malattia più diffusa in Italia e che nel 2050 arriverà a coinvolgere più del 50% della popolazione. nel libro di Adriano Panzironi "Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti", le cellule del nostro sistema immunitario vengono considerate i principali attori principali della risposta allergica. Esse attuano - viene spiegato nel libro - un meccanismo che dovrebbe difenderci dall’invasione di batteri ma la sua azione esagerata, infiamma i tessuti. Nello specifico, i primi responsabili. Le malattie del nostro tempo - sottolinea Panzironi - sono gli anticorpi detti immunoglobuline di tipo E (IgE), i quali si legano ai recettori presenti sia sui mastociti che su quelle dei leucociti basofili. Le IgE permettono a tali cellule del sistema immunitario di attivarsi ogni qual volta sono in presenza di un determinato antigene (polline, polvere, etc.), rilasciando le citochine infiammatorie, l’istamina, l’eparina e l’acido arachidonico. L’effetto è quello di rendere permeabili i vasi sanguigni (facendo trasudare la linfa nei tessuti) causando i tipici fenomeni dell’allergia (rigonfiamento della pelle, pruriti, arrossamento, infiammazione). Esistono diverse patologie che hanno nomi diversi in base alla parte del corpo interessata. Se i tessuti coinvolti sono quelli polmonari si parla di asma, se è la pelle si parla di dermatite, se sono le mucose di riniti, etc...
Sappiamo che le allergie sono l’espressione di una reazione abnorme o esagerata del sistema immunitario verso sostanze ambientali innocue per il nostro organismo come per esempio gli alimenti, i pollini o gli acari della polvere, verso cui il sistema immunitario non dovrebbe reagire ma tollerare, cioè manifestare una tolleranza immunologica. Nei soggetti che invece sviluppano allergie, questo meccanismo è come “bloccato” e sostituito da una reazione immunologica con produzione di particolari anticorpi detti immunoglobuline E (IgE). Tali anticorpi non hanno funzione di difesa o protezione, ma quando vengono a contatto con la sostanza verso cui sono stati sintetizzati, causano una reazione avversa che può andare da semplici eruzioni cutanee, a sintomi gastrointestinali, a disturbi respiratori fino, in caso di alimenti o farmaci, a reazioni più gravi. Le malattie allergiche dovute alla produzione di anticorpi IgE vengono definite atopiche e comprendono la dermatite atopica, la rinite allergica e l’asma bronchiale.
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Brescia Today "Arriva la primavera ma è allarme allergie: colpito il 40% dei bambini"
AGI "Come distinguere i sintomi delle allergie da quelli del coronavirus"
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Una relazione tanto discussa che torna, ancora una volta, alla ribalta della cronaca nazionale grazie a una nuova ricerca italiana sull’importanza dell’ormone del sole nella lotta contro l’infezione da SARS-CoV2. Dall’indagine emerge che una carenza di vitamina D sembrerebbe peggiorare le condizioni, con evidenti criticità riscontrate nel quadro clinico delle persone positive al Covid. I ricercatori parlano appunto di "stadi clinici di Covid-19 più compromessi" per indicare una malattia più grave. Allo studio retrospettivo, pubblicato sulla rivista Respiratory Research e condotto su 52 pazienti, hanno collaborato l'Istituto superiore di sanità (Iss), l'Ospedale Sant'Andrea di Roma e altre istituzioni. Tra ipovitaminosi D e malattie polmonari, l’ennesima indagine prova a far chiarezza una volta per tutta: «[...] I nostri dati sottolineano una relazione tra i livelli plasmatici di vitamina D e diversi marcatori di malattia». Nelle persone con deficit di vitamina D, la sua integrazione è in grado di ridurre il rischio di sviluppare diverse infezioni virali. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a maggior rischio di essere positivi per Covid-19 rispetto a quei soggetti con stato di vitamina D sufficiente. Oltre all’esposizione solare e all’alimentazione, la supplementazione di vitamina D è una raccomandazione utile e sicura.
Insomma, molto di più di un micronutriente coinvolto nel metabolismo del calcio e nella salute delle ossa. La vitamina D, per l'appunto, svolge tra le altre funzioni anche un ruolo importante come ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. Come noto, infatti, i suoi recettori sono ampiamente distribuiti in tutto l’organismo e in particolare nell’epitelio alveolare polmonare e nel sistema immunitario. Ad, oggi, l'infezione da Covid-19 è ancora una sfida aperta. Sebbene siano note le caratteristiche cliniche a seguito della penetrazione del virus nel nostro sistema respiratorio, la patobiologia ei meccanismi che regolano questo ingresso e le ragioni alla base dei molteplici quadri clinici osservati sono ancora sconosciuti. Sfortunatamente, circa il 20% dei pazienti contagiati ha sviluppato una grave malattia respiratoria caratterizzata da infiltrati polmonari diffusi e danno di pneumociti alveolari, che va incontro ad apoptosi e morte. Le unità alveolari coinvolte sembrano essere periferiche e subpleuriche. Inoltre, è stata segnalata un'iperinfiammazione virale. Una precoce sovrapproduzione di citochine pro-infiammatorie conosciuta come tempesta di citochine. Tra questi, i livelli plasmatici elevati sono stati inclusi come predittori di mortalità. L'insufficienza della vitamina D è stata correlata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all'esacerbazione nelle malattie polmonari ostruttive croniche e nell'asma.
Coinvolti nella ricerca 52 pazienti (con età media di 68 anni) affetti da coronavirus con coinvolgimento polmonare (27 femmine e 25 maschi, nella fascia di età compresa tra i 29 ed i 94 anni). I livelli di vitamina D erano carenti (con livelli plasmatici di vitamina D molto bassi, sotto 10 ng/ml) nell'80% dei pazienti, insufficienti nel 6,5% e normali nel 13,5%. Circa l'8% della coorte di studio aveva livelli plasmatici di vitamina D normali. I pazienti alle prese con la forma più aggressiva di coronavirus avevano livelli plasmatici di vitamina D più bassi indipendentemente dall'età. Francesco Facchiano, ricercatore dell'Iss, coautore dello studio spiega il metodo di ricerca utilizzato:
Nella nostra indagine abbiamo correlato, per la prima volta, i livelli plasmatici di vitamina D a quelli di diversi marcatori (di infiammazione, di danno cellulare e coagulazione) e ai risultati radiologici tramite Tac durante il ricovero per Covid-19 e abbiamo osservato che i pazienti con bassi livelli plasmatici di vitamina D, indipendentemente dall'età, mostravano una significativa compromissione di tali valori, vale a dire risposte infiammatorie alterate e un maggiore coinvolgimento polmonare. Anche se gli effetti in vivo della Vitamina D non sono completamente compresi – si legge nello studio – una serie di osservazioni sottolineano il ruolo della vitamina D nello sviluppo delle malattie polmonari. La sua insufficienza è stata collegata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all’esacerbazione delle malattie polmonari ostruttive croniche e dell’asma. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a un più alto rischio di essere positivi al Covid-19 rispetto ai soggetti con sufficiente stato di vitamina D.
Da un punto di vista generale, l'attività della vitamina D sembra essenziale anche nella regolazione dello stress ossidativo e dei meccanismi di sopravvivenza. L'epitelio alveolare respiratorio rappresenta la prima linea di difesa in grado di contrastare e impedire l'ingresso di agenti patogeni. Rappresenta uno dei principali attori dell'immunità innata compresi i macrofagi alveolari e le cellule dendritiche. Se stimolate, queste cellule attivano una varietà di vie di segnalazione intracellulare per specifiche difese antimicrobiche, rilascio di mediatori infiammatori e risposte immunitarie adattative. La risposta immunitaria adattativa è strettamente correlata alla capacità dei linfociti T e B di secernere citochine e produrre rispettivamente immunoglobuline. La carenza di vitamina D è stata correlata all'aumento dei livelli di IL-6, mentre l'integrazione di vitamina D riduce i livelli di IL-6 in diversi studi. L'IL-6 è elevata nei pazienti Covid-19 con malattia grave ed è anche considerata un marcatore prognostico rilevante. È stato riportato altresì che la mortalità è maggiore nei pazienti con livelli elevati di IL-6. Una conta dei neutrofili elevata predice l'infiammazione in corso e la diminuzione della conta dei linfociti è considerata un indicatore di prognosi infausta. Nel caso di infezione acuta, lo stato più grave è spesso associato a un aumento della conta delle cellule dei neutrofili e a una riduzione dei linfociti.