Colpo di scena della Regione Piemonte che introduce l’utilizzo della tanto discussa vitamina D nella lotta al coronavirus. Un trattamento alla portata di tutti. Nessun effetto collaterale, solo benefici per le persone positive al Covid. Una strategia anche in considerazione dell’attuale emergenza sanitaria con l’obiettivo di trattare la patologia fin dall’esordio ed evitare così eventuali complicanze. Una correlazione, quella tra Covid e vitamina D che torna ancora una volta alla ribalta, oggi a differenza di qualche mese fa, con 300 lavori all’attivo che ne dimostrano efficacia e benefici sia nella prevenzione sia nel trattamento.Hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata. Da qui il suggerimento di intervenire con la somministrazione della vitamina D, soprattutto nella popolazione anziana, che in Italia ne è in larga misura carente. Insomma, sullo stile di quanto fatto in precedenza dal premier inglese Boris Johnson. Una serie di evidenze scientifiche non trascurabili che portano a una raccomandazione da parte degli scienziati, soprattutto dove, in Paesi come in Italia, c'è un'alta prevalenza di ipovitaminosi D o carenza di vitamina D, i governi dovrebbero promuovere campagne di salute pubblica per aumentare il consumo di alimenti ricchi di vitamina D oltre a un'adeguata esposizione alla luce solare o, quando ciò non è possibile, la corretta integrazione. Lungo questa linea, la British Dietetic Association e il governo scozzese hanno pubblicato alcune raccomandazioni per garantire, soprattutto in un periodo critico come quello che tutti stiamo vivendo, livelli normali di vitamina D nella popolazione. Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono a nostro giudizio interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana, che in Italia è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.).
Un improvviso cambio di rotta da cui sta prendendo piede anche uno studio importante. Come spiega l’Accademia di Medicina nel suo documento, in un’indagine osservazionale (Jain A et al.) di 6 settimane su 154 pazienti, la prevalenza di soggetti con scarsa vitamina D è risultata pari al 31,86% negli asintomatici e al 96,82% in quelli che sono stati poi ricoverati in terapia intensiva. In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione fra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente alla dose di 50mila UI al mese, oppure di 80mila-100mila UI per 2-3 mesi, oppure ancora di 80mila UI al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente minori (p=0.004) rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). Dato poi confermato da altri lavori in termini di maggiore velocità di clearance virale e guarigione per coloro che hanno livelli ematici più elevati di vitamina D. E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo. Così l’assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi, annuncia l’aggiornamento appena effettuato del protocollo per la presa in carico dei pazienti Covid a domicilio da parte delle Unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta:
Diamo nuovi strumenti ai medici di famiglia e alle Unità speciali di continuità assistenziali (USCA) per combattere il Covid19 direttamente a casa dei pazienti. Con l’aggiornamento del protocollo delle cure domiciliari, introduciamo l’utilizzo dell’idrossiclorochina nella fase precoce della malattia, insieme a farmaci antinfiammatori non steroidei e vitamina D. In più, prevediamo la possibilità di attivare 'ambulatori USCA' per gli accertamenti diagnostici altrimenti non eseguibili o difficilmente eseguibili al domicilio, ottimizzando le risorse professionali e materiali disponibili. Siamo convinti, perché lo abbiamo riscontrato sul campo fin dalla prima ondata - osserva Icardi - che in molti casi il virus si possa combattere molto efficacemente curando i pazienti a casa. Non vuol dire limitarsi a prescrivere paracetamolo per telefono e restare in vigile attesa, ma prendere in carico i pazienti Covid a domicilio da parte delle unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta. Siamo stati tra i primi, l’anno scorso, a siglare un protocollo condiviso con ASL, prefetture e organizzazioni di categoria dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta. L’obiettivo è evitare che i ricoveri, così come le degenze prolungate oltre l’effettiva necessità clinica, delle persone che possono essere curate a domicilio, determinino una consistente occupazione di posti letto e l’impossibilità di erogare assistenza a chi versa in condizioni più gravi e con altre patologie di maggiore complessità.
Con l’intento di fornire contributo e supporto alle istituzioni per contrastare la pandemia, un altro lavoro scientifico, sull’utilizzo della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del Covid-19 si era fatto strada nel mare magnum di indagini che sono state condotte negli ultimi mesi. Il gruppo di lavoro, istituito dall’Accademia di Medicina di Torino coordinato dal suo Presidente, Giancarlo Isaia, professore di Geriatria e da Antonio D’Avolio, professore di Farmacologia all’Università di Torino, e composto da 61 Medici di molte città italiane. Un documento che mostra le più recenti e convincenti evidenze scientifiche sugli effetti positivi della vitamina D nel contrasto all’infezione da SARS-CoV2. Nella ricerca di fattori che influenzano l'incidenza e la letalità dell'attuale pandemia, recenti studi di associazione hanno esplorato il possibile ruolo della carenza di vitamina D. Nel complesso, questi studi, nella maggior parte dei casi basati su analisi trasversali, non potevano ancora fornire una dimostrazione convincente di una relazione causa-effetto. In questo editoriale, gli autori descrivono le prove scientifiche alla base di un possibile ruolo della vitamina D nella prevenzione e nello sviluppo della pandemia, considerando il suo ruolo immunomodulatore e gli effetti antivirali.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
In un precedente numero di Aging Clinical and Experimental Research, Ilie e colleghi riportano una correlazione in 20 paesi europei tra i livelli di vitamina D e l'incidenza di Covid-19 e i tassi di mortalità. Questo lavoro si aggiunge a un crescente corpo di prove circostanziali che collegano Covid-19 e lo stato della vitamina D, come ben riassunto da Fiona Mitchell in un recente editoriale. Gli studi di associazione rientrano in due categorie principali: confronto della variazione dei livelli di vitamina D stimati o storici e dell'incidenza o dei tassi di mortalità del Covid-19 tra i paesi. L'analisi, inoltre, può essere mondiale o all'interno di continenti o anche tra emisferi, considerando la latitudine e lo stato stagionale associato come indicatori indiretti dello stato della vitamina D; studi caso-controllo retrospettivi che confrontano i livelli individuali di vitamina D (effettivi o stimati) con l'incidenza di Covid-19, sia per la popolazione generale che per minoranze specifiche. In questo lavoro, D'Avolio e colleghi hanno trovato un livello di 25 (OH) D notevolmente inferiore nei pazienti Covid-19 rispetto ad altri pazienti ospedalizzati a Bellinzona, in Svizzera. Altro lavoro interessante, quello condotto da Meltzer e colleghi che hanno stimato la probabilità di carenza di vitamina D sulla base di misurazioni 25 (OH) D precedenti (fino a 1 anno) per 499 pazienti testati per Covid-19 e hanno scoperto che coloro che erano positivi aveva una probabilità significativamente maggiore di carenza vitaminica. L’indagine mirava a valutare, in questo caso, se una maggiore incidenza di Covid-19 nelle minoranze non bianche nel Regno Unito potesse essere associata a carenza di vitamina D. Inoltre, una metanalisi che ha coinvolto 25 studi interventistici randomizzati e più di 11.000 pazienti hanno dimostrato che l'integrazione di vitamina D riduce di 2/3 l'incidenza di infezioni respiratorie acute.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo.
Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi.
Tuttavia, esistono anche prove precliniche di un effetto protettivo della vitamina D sul danno polmonare. Esistono, quindi, prove consolidate sul ruolo immunomodulatore della vitamina D, sulle sue proprietà antivirali e su un possibile ruolo nella mitigazione della polmonite e dell'iperinfiammazione. Varie recensioni ha esaminato la relazione tra vitamina D e sistema immunitario, evidenziando un ruolo protettivo per molte malattie infettive, alla base dell'associazione tra ipovitaminosi D e molte infezioni del tratto respiratorio, enterico e urinario, vaginosi, sepsi, sindrome influenzale, dengue ed epatite. Queste proprietà della vitamina D sono state attribuite alla sua capacità di modulare l'espressione genica attivando il recettore della vitamina D in molte cellule bersaglio, comprese le cellule immunitarie, e promuovendo l'espressione di peptidi antimicrobici come catelicidine e beta-defensine, anch'esse dotate di antivirali e attività immunomodulatorie. Inoltre, la vitamina D supporta l'immunità innata, mantiene l'integrità delle giunzioni strette e della barriera polmonare, fornisce attività immunoregolatrice e modula il sistema renina-angiotensina, tutti fattori di potenziale rilevanza per la polmonite acuta e l'iperinfiammazione osservati in pazienti con Covid-19.
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Per approfondimenti:
Comune di Torino "Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze"
Regione Piemonte "Covid, aggiornato il protocollo delle cure a casa"
Ansa "ANSA-IL-PUNTO/ COVID: PIEMONTE si attrezza contro varianti"
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Jama Network "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Springer Link "Associations between hypovitaminosis D and COVID-19: a narrative review"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"
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Non solo un ormone fondamentale per mantenere il nostro organismo in perfetta salute. «La vitamina D è fondamentale per il corpo umano ed è disponibile in due tipi: vitamina D2 e D3», spiega Gabriele Stangl della Martin Luther University. Quindi di fondamentale importanza per fissare il calcio nelle ossa. Previene, inoltre, sia lo sviluppo del rachitismo nei bambini, che dell’osteoporosi negli anziani. Agisce come un ormone, controllando vari organi e sistemi e ha un'azione regolante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario. La sua carenza potrebbe, infine, essere associata a diverse patologie, quali il diabete, l’Alzheimer, l’asma e la sclerosi multipla. Circa l’80% viene prodotta dalla nostra pelle grazie ai raggi UVB, mentre la parte residua viene introdotta con l’alimentazione. Dalla capacità di modulare e influenzare meccanismi fisiologici dell’organismo al mantenimento di ossa e denti in salute, dal buon funzionamento dei muscoli al rinforzo del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è ormai da anni oggetto di ricerca. La vitamina D3 è prodotta dalla pelle attraverso l'esposizione al sole. «Gli esseri umani - prosegue l'esperto - ottengono il 90% del loro fabbisogno di vitamina D in questo modo. Il resto viene consumato attraverso il cibo, come il pesce grasso o le uova di gallina. La vitamina D2 si trova invece nei funghi: le fave di cacao sono sensibili alla contaminazione da funghi e spesso contengono quantità considerevoli di ergosterolo, il precursore della vitamina D2, proprio per questo motivo». Tanto discussa, soprattutto nei mesi scorsi, a seguito dei recenti studi circa una sua correlazione ed eventuale efficacia nel contrasto dell’infezione da Covid. Diversi studi avevano, infatti, evidenziato la necessità di adeguati livelli di questa vitamina, soprattutto negli anziani. Questo perché, nelle indagini condotte dai diversi esperti, la carenza di questa vitamina viene associata a un aumento delle infezioni, da qui le complicanze riscontrate nei soggetti positivi al coronavirus con un deficit di questo nutriente. «La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo e nutrizionista.
Il recettore per la vitamina D – continua il biologo - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi conclude il biologo.
«Io preferisco definirla un ormone», chiarisce in un’intervista a Gazzetta Active il professor Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology.
A differenza delle altre vitamine – continua l’endocrinologo - la fonte principale non è il cibo, bensì la luce solare. E infatti lo stile di vita attuale, che ci vede trascorrere sempre più tempo in luoghi chiusi, può portare a deficit di vitamina D che una alimentazione anche ricca di quelle che sono le fonti alimentari di questa vitamina non è in grado di sopperire. - Cibi addizionali o integratori alimentari? - Quello dei cibi addizionati è un aspetto utile dal punto di vista della popolazione. A livello di singolo, i supplementi di vitamina D sono sicuramente più indicati, anche perché dosaggio e somministrazione possono essere modulati. - Quanto sole prendere per sopperire a un’eventuale carenza di vitamina D? - Bisognerebbe esporsi ogni giorno almeno per mezz’ora, lasciando scoperti non solo il viso e le mani, ma anche le braccia o le gambe, almeno. E purtroppo sì, un fattore protettivo elevato blocca la produzione di vitamina D. - Le fonti principali per fare il pieno di vitamina D - : Le uova, i pesci grassi come il salmone o lo sgombro, i crostacei, i funghi. Ma se manca il sole è facile avere carenze.
Sintomi e cause di un’ipovitaminosi D, come riconoscerla.
La vitamina D in sé quando è carente non dà segnali evidenti. Ma dal momento che la sua azione principale è l’assorbimento del calcio, in caso di carenze gravi si possono avere i sintomi tipici di una ipocalcemia, come formicolii e parestesie alle mani e ai piedi. Anche una propensione alle fratture può essere un segnale in questo senso, come pure l’astenia, la debolezza muscolare e la conseguente facilità alle cadute, poiché la vitamina D ha funzioni extrascheletriche, sul muscolo». «Con un semplice esame del sangue che misuri i livelli di calcifediolo o 25 idrossivitamina D. Livelli inferiori ai 20 nanogrammi per millilitro indicano una carenza di vitamina D». «Le cause possono essere molteplici, ma quella principale è, appunto, la ridotta esposizione al sole. La gran parte della vitamina D che serve all’organismo viene prodotta dalla pelle sotto forma di vitamina D3 o colecalciferolo (la forma inattiva della vitamina D), in risposta alle radiazioni solari. Come abbiamo visto parlando del possibile legame tra deficit di vitamina D e Covid, lo stile di vita attuale, che ci vede sempre più in luoghi chiusi, è un fattore di rischio in questo senso. Per questo il consumo di cibi addizionati di vitamina D può essere risolutivo, soprattutto a livello di popolazione generale, come sanno i Paesi del Nord Europa, in cui questa è una consuetudine consolidata e il deficit di vitamina D è meno diffuso che nei Paesi del Mediterraneo.
Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene
Tra i numerosi fattori che aumentano il rischio di un deficit di vitamina D anche i farmaci:
Oltre alla scarsa esposizione solare abbiamo problemi specifici, come quello legato all’età. Negli anziani, infatti, la pelle è meno capace di produrre colecalciferolo (la vitamina D inattiva, che poi il nostro organismo metabolizza a forma attiva) dopo l’irradiazione della luce solare, e quindi c’è una cute meno efficiente. Questo è un elemento che predispone l’anziano ad avere livelli di vitamina D più bassi rispetto ai giovani, che hanno una pelle più efficiente nel produrre la vitamina D. Poi ci sono anche problematiche legate a situazioni patologiche: per esempio ci sono malattie gastrointestinali, i cosiddetti malassorbimenti come la celiachia, in cui anche quel poco di vitamina D presente nei cibi non viene correttamente assorbito. E questo aggrava ulteriormente il problema, localizzandolo anche in fasce di popolazione più giovani. Anche l’ipoparatiroidismo è una patologia che tipicamente nell’uomo provoca una carenza di vitamina D. Quando le paratiroidi, piccole ghiandole dietro la tiroide, vengono asportate o lesionate generalmente a seguito dell’asportazione della tiroide, viene meno anche l’ormone che queste ghiandole producono, e che è fondamentale per attivare la vitamina D. Come conseguenza si ha anche una grave carenza di calcio, dal momento che la vitamina D è fondamentale per assorbirlo». E poi «il cortisone riduce la produzione e la conversione della vitamina D da colecalciferolo (inattiva) a calcifediolo e calcitriolo (attiva). Anche gli antiepilettici agiscono a livello epatico e ne riducono la conversione.
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La Repubblica "Un mare di bellezza"
Il Giornale "Tintarella salvavita: da 15' di sole vitamina D come 100 uova"
Ansa "Salute: importante ruolo vitamina D in infartuati"
Meteo Web "Infarto, importante ruolo della vitamina D: una carenza può aumentare il rischio"
Fanpage "Cancro, vitamina D e Omega-3 riducono il rischio di morte e infarto"
Quotidiano di Ragusa "Carenza di vitamina D? A rischio infarto"
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Onco News "Legame tra infarto miocardico e deficit di Vitamina-D"
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Prima il lockdown poi lo smart working. Dal Covid alla bilancia: tutte le cattive abitudini che hanno fatto ingrassare gli italiani. Tra le conseguenze di questa pandemia proprio il cambio dello stile di vita. Le limitazioni imposte, in ultimo, con il coprifuoco, il lavoro all’interno delle mura domestiche, la sporadica attività fisica e la maggiore tendenza a dedicarsi alla cucina. È quanto emerge da una analisi di Coldiretti su dati Crea, il centro di ricerca alimenti e nutrizione. Computer, divano e tavola hanno, infatti, allontanato dall’attività motoria e dallo sport il 53% degli italiani. La situazione peggiora poi per le persone obese soprattutto per quelle alle prese con il cosiddetto smart working e in cassa integrazione, che nel 54% dei casi ha registrato un aumento medio di peso di ben 4 Kg, secondo i dati riportati da una ricerca della Fondazione Adi dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica. Insomma, soprattutto in questa fascia della popolazione, il lavoro agile ha favorito l’adozione di comportamenti poco salutari. Da non dimenticare poi che questo fenomeno si verifica in un Paese dove peraltro più di un terzo della popolazione italiana adulta è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%) con il 45,1%. Il rischio obesità non risparmia neanche bambini e adolescenti duramente provati dal lockdown. In Italia si stimano – conclude la Coldiretti – circa 2 milioni e 130 mila bambini e adolescenti in eccesso di peso, pari al 25,2% della popolazione di 3-17 anni secondo l’Istat.
Le vere causa dell'obesità
Dal 1980 ad oggi l’obesità nel mondo è più che raddoppiata. Questa la rivelazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Gli adulti in sovrappeso raggiungono il 39% e gli obesi sono il 13%. Secondo le più recenti stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, 2017) il 65,1% della popolazione adulta degli Stati Uniti ha un problema di eccesso di peso e tra questi, quasi la metà è obesa. L’epidemia dell’obesità si è diffusa negli ultimi decenni anche in Europa. A peggiorare un quadro già drammatico gli ultimi mesi della pandemia. Dal lockdown al coprifuoco, passando per mesi di smart working e quasi totale assenza di attività motoria. Un fattore che ha senza dubbio peggiorato la situazione delle persone obese o in sovrappeso, costrette a casa tra lavoro e Dpcm.
L’obesità è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come «l’epidemia del XXI secolo». Inoltre, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come «un’epidemia estesa a tutta la regione europea» poiché circa la metà della popolazione adulta è in sovrappeso ed il 20-30 % degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso. Rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo, sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena) con progressiva aterosclerosi, aumentato rischio di eventi cardio/cerebrovascolari e tumori. Sovrappeso e obesità sono responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive tra gli adulti; sono condizioni associate a morte prematura e ormai universalmente riconosciute come fattori di rischio per le principali malattie croniche. L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi) con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie nei depositi di tessuto adiposo. E’ causata nella maggior parte dei casi da stili di vita scorretti: da una parte, un’alimentazione non equilibrata e ipercalorica e dall’altra un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica. L’obesità è quindi una condizione ampiamente prevenibile. Un’emergenza socio-sanitaria quella dell’obesità che sia l’OMS che l’European Association for the Study of Obesity ha ripetutamente evidenziato. Inoltre, non dimentichiamo che questa malattia, «potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di 10 anni» sostiene Andrea Lenzi, presidente Health City Institute e del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Via della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Obesità e ipertensione arteriosa
Sovrappeso e obesità affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minor reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette e si accompagna dunque alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso. Un problema particolarmente grave è quello dell’insorgenza dell’obesità tra bambini e adolescenti, esposti fin dall’età infantile a difficoltà respiratorie, problemi articolari, mobilità ridotta, ma anche disturbi dell'apparato digerente e di carattere psicologico. Inoltre, chi è obeso in età infantile lo è spesso anche da adulto: aumenta quindi il rischio di sviluppare precocemente fattori di rischio di natura cardiovascolare (ipertensione, malattie coronariche, tendenza all’infarto) e condizioni di alterato metabolismo, come il diabete di tipo 2 o l’ipercolesterolemia - evidenzia Andrea Urbani Ministero della Salute, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria.
Una corretta strategia di prevenzione del sovrappeso e dell’obesità rientra nell’ambito più generale della prevenzione e controllo delle patologie croniche nel loro complesso. E’ importante perseguire un approccio di promozione della salute e di sensibilizzazione dei soggetti con incremento ponderale sui vantaggi collegati all’adozione di stili di vita sani, in una visione che abbracci l’intero corso della vita. Inoltre, il rapporto dell’Italian Diabetes & Obesity Barometer evidenzia tra gli altri, due aspetti su cui porre particolare attenzione. In primo luogo, la persistente ed elevata prevalenza di obesità e sovrappeso tra i bambini la cui salute rischia di essere seriamente compromessa dall’aumento dei fattori di rischio. Su questo aspetto l’Italia si colloca tra i paesi europei con la più elevata prevalenza. La raccomandazione, a livello nazionale, è quella di seguire stili alimentari adeguati, riducendo il consumo di alimenti ricchi di zuccheri e promuovendo un maggiore consumo di frutta e verdura, oltre a sensibilizzare le industrie alimentari verso la produzione di alimenti più sani ed equilibrati. In secondo luogo, il rapporto documenta ampiamente come la prevalenza di obesità sia fortemente associata a condizioni di svantaggio socioeconomico. I dati relativi alle diseguaglianze sociali nell’alimentazione e nell’attività fisica concorrono a indicare che la maggior parte delle abitudini insalubri sono inversamente correlate con il livello di istruzione e la classe sociale.
(Fonte: Il Sole 24Ore)
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il numero di persone obese nel mondo è raddoppiato a partire dal 1980: nel 2014 oltre 1,9 miliardi di adulti erano in sovrappeso, tra cui oltre 600 milioni obesi. Nella Regione Europea dell’Oms, nel 2013, oltre il 50% della popolazione adulta era in sovrappeso e oltre il 20% obesa. Dalle ultime stime fornite dai Paesi Ue emerge che il sovrappeso e l’obesità affliggono, rispettivamente, il 30-70% e il 10-30% degli adulti. Si ritiene che l’obesità sia responsabile del 10-13% dei decessi. Ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile della perdita di 12 milioni di Dalys (anni di vita in salute persi per disabilità o morte prematura). In Italia, secondo il rapporto Osservasalute 2016 (che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana”) emerge che, nel 2015, più di 1/3 della popolazione adulta (35,3%) era in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%); complessivamente, il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni risultava in eccesso ponderale. Le differenze sul territorio confermano un gap Nord-Sud in cui le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone maggiorenni obese (Molise 14,1%, Abruzzo 12,7% e Puglia 12,3%) e in sovrappeso (Basilicata 39,9%, Campania 39,3% e Sicilia 38,7%) rispetto a quelle settentrionali (obese: PA di Bolzano 7,8% e Lombardia 8,7%; sovrappeso: PA di Trento 27,1% e Valle d’Aosta 30,4%). La percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età e, in particolare, il sovrappeso passa dal 14% della fascia di età 18-24 anni al 46% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità passa, dal 2,3% al 15,3% per le stesse fasce di età. Inoltre, la condizione di eccesso ponderale è più diffusa tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44% vs 27,3%; obesità: 10,8% vs 9%).
Nel 2017 in Italia, sono circa 15 milioni le persone di 18 anni e più che praticano nel tempo libero uno o più attività sportive (29,7% della popolazione di riferimento, di cui il 20,2% con continuità e il 9.5% saltuariamente). Circa il 29% della popolazione (14,8 milioni persone), pur non praticando uno sport, svolge un’attività fisica (come fare passeggiate di almeno due km, nuotare, andare in bicicletta o altro). I sedentari, ovvero coloro che non praticano alcuno sport e nemmeno attività fisica nel tempo libero, sono oltre 20 milioni e 400 mila, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più. Rispetto al 2001 la pratica sportiva è in aumento sia per gli uomini (da 32,1% a 36%) sia per le donne (da 18,8% a 23,9%) e, seppure in maniera differenziata, in tutte le classi di età. Il fenomeno appare ancor più critico se si considera la quota di popolazione adulta che, come suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, svolge almeno 150 minuti a settimana di attività fisica moderata o intensiva, ovvero i livelli considerati adeguati nella popolazione adulta per mantenersi in buona salute. Nel nostro Paese solo il 18,3% della popolazione adulta pratica attività fisica. «La sua diffusione “epidemica” favorisce l’incremento della prevalenza di svariate note patologie come diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemie che contribuiscono alla rilevante mortalità per patologie cardio e cerebrovascolari, prima causa di morte nella popolazione italiana» spiega Giuseppe Malfi, presidente Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (A.D.I.). L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico e spesa energetica con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto adiposo. L’obesità è una patologia eterogenea e multifattoriale, al cui sviluppo concorrono sia fattori ambientali che genetici (geni che si sono evoluti in ere di scarsità di cibo). A livello mondiale, l’OMS stima che circa il 58% del diabete mellito, il 21% della malattie coronariche e quote comprese tra l’8% ed il 42% di certi tipi di cancro sono attribuibili all’obesità. A queste vanno aggiunte, la sindrome delle apnee notturne (che aumenta il rischio di morte improvvisa per aritmia), artrosi, calcolosi della colecisti, infertilità e depressione. Per queste ragioni l’obesità contribuisce in modo molto significativo allo sviluppo delle malattie non trasmissibili (NCDs) che causano nel nostro paese il 92% di morti e più dell’85% di anni persi per disabilità. Si tenga presente che un obeso grave riduce la propria aspettativa di vita di circa 10 anni ma ne passa ben venti in condizioni di disabilità. E se oggi metà della popolazione è in sovrappeso o obesa, le proiezioni dell’OMS per il 2030 danno un quasi raddoppio della prevalenza di obesità che sommata al sovrappeso costituirà circa il 70% della popolazione.
Insomma, la continua crescita della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità è causa di serie preoccupazioni in tutte le regioni del mondo, e il fenomeno si configura sempre più come pandemia globale. In base alle stime dell’OMS, nel 2017 il sovrappeso e l’obesità sono stati responsabili di 4,72 milioni di decessi e di 148 milioni di anni vissuti con disabilità. Fra le cause di morte, l’eccesso ponderale è passato dal 16° posto nel 1990 al 7° posto nel 2007, fino a raggiungere il 4° posto nel 2017, preceduto soltanto da ipertensione, fumo e iperglicemia. Si stima che nel mondo ci siano oggi 2.1 miliardi di persone in sovrappeso o obese, circa il 30% della popolazione mondiale. Se l’andamento in crescita del fenomeno resterà immodificato, nel 2030 circa la metà delle persone nel mondo avrà un eccesso ponderale, con drammatici risvolti clinici, sociali ed economici. Stando ai dati riportati in un rapporto Istat, è pari al 44,9% la popolazione di 18 anni (o più) in eccesso di peso (34,1% in sovrappeso, 10,8% obeso). Il 64,7% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno: il 51,7% beve vino, il 47,8% consuma birra e il 43,2% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori. Inoltre, 20.400.000mila persone, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più, dichiarano di non praticare sport né attività fisica nel tempo libero. Elevate le differenze di genere: è sedentaria la metà delle donne contro un terzo degli uomini. Giusto per completare il quadro, in un Paese con una legge anti-fumo e con pubblicità sui pacchetti di sigarette che dovrebbero indurre a smettere o a non cominciare, nel 2016 il 19,8% della popolazione di 14 anni e più dichiara di essere fumatore (circa 10.400.000mila persone), il 22,6% di aver fumato in passato e il 56,1% di non aver mai fumato. Quindi ancora vincono gli stimoli per cattivi stili di vita. La diffusione dell’obesità tra bambini e ragazzi è un fenomeno che si sta diffondendo e sta caratterizzando non soltanto l’Italia e i Paesi europei, ma anche tutti i Paesi del resto del mondo, ad una velocità diversa a seconda del Paese e seguendo differenti modelli di sviluppo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, attualmente, più di 30 milioni di bambini in eccesso di peso. In Italia, si stima siano circa 1.700.000mila i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso pari al 24,2% della popolazione di 6-17 anni (media 2016-2017)4. Rispetto al biennio 2010-2011 si osserva una lieve tendenza alla diminuzione del fenomeno, sebbene le differenze non risultino statisticamente significative. Emergono forti differenze di genere: il fenomeno è più diffuso tra i maschi (27,3% vs 20,8% femmine). Tali differenze non sussistono tra i bambini di 6-10 anni, mentre si osservano in tutte le altre classi di età. L’eccesso di peso raggiunge la prevalenza più elevata tra i bambini di 6-10 anni, dove raggiunge il 32,9%. Al crescere dell’età, il sovrappeso e l’obesità vanno tuttavia diminuendo, fino a raggiungere il valore minimo tra i ragazzi di 14-17 anni.
Obesity Monitor "1st Italian Obesity Barometer Report"
La Repubblica "Obesità in crescita in Italia. 23 milioni in sovrappeso: uno su 4 ha meno di 17 anni"
AGI "Lockdown e smart working hanno fatto ingrassare gli italiani: il 44% è in sovrappeso"
Corriere della Sera "Adolescenti obesi (e dipendenti)"
La Repubblica "Obesità in Italia: riguarda il 36% della popolazione tra i 5 e i 19 anni"
Obesity Review "Individuals with obesity and COVID‐19: A global perspective on the epidemiology and biological relationships"
La Repubblica "L’obesità raddoppia il rischio di ricovero per Covid 19"
JAMA Network "Large Meta-analysis Digs Into Obesity’s COVID-19 Risks"
Fanpage "L’obesità può aggravare l’infezione da coronavirus nei giovani"
La Stampa "Scatta l’allarme obesità: è la regina di ogni malattia eppure la sottovalutiamo"
Agi " Gli obesi sono più a rischio Coronavirus "
OK Benessere e Salute " Obesità: in Italia un morto ogni 10 minuti. Serve una svolta "
OK Benessere e Salute " Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono" "Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono "
Società Italiana Obesità (SIO)
Società Italiana di chirurgia dell'Obesità e delle Malattia Metaboliche (SICOB.)
Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)
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300mila italiani, soprattutto donne (7 su 10), soffrono di artrite reumatoide e ogni anno si registrano 5mila nuovi casi. Comune tra i 40 e i 70 anni, sebbene il picco di comparsa dei primi sintomi avvenga tra i 35 e i 45 anni. Tuttavia, durante l’inverno dolori e fastidi si accentuano ancor più. Tra le categorie più a rischio ci sono anche le persone obese o in sovrappeso, questo perché l’aumento di peso sovraccarica le articolazioni aumentando il rischio di infiammazione. Per quanto riguarda i segni poi, tra i principali da non trascurare: dolore persistente alle articolazioni (colpisce spesso le giunture di mani e piedi), talvolta accompagnato da gonfiore, in particolare di notte e al mattino, per poi attenuarsi nel corso della giornata. Talvolta i sintomi di questa patologia possono essere intermittenti, manifestarsi con diversi gradi di intensità o rimanere latenti anche per anni per poi peggiorare nel tempo. Controllo della malattia e riduzione dei sintomi, in altre parole: remissione. Uno spiraglio in fondo al tunnel per almeno la metà dei malati, soprattutto quando la diagnosi è precoce. Difatti, come dimostrano le recenti evidenze scientifiche, con l'inizio delle cure entro un anno dalla comparsa dei primi sintomi, controllare la patologia è un traguardo raggiungibile per il 50-60% dei pazienti. Fondamentale è quindi diagnosticarla e intervenire tempestivamente, come già detto, entro un anno dalla comparsa dei primi sintomi. Acuta o cronica è senza dubbio, la più nota è quella reumatoide. Un’infiammazione che colpisce un gran numero di persone che si trovano alle prese con dolore, gonfiore, arrossamento della cute e rigidità articolare. Valido alleato contro questa nemica comune: l’alimentazione. Come suggerito dal dottor Gianfrancesco Cormaci, specialista in biochimica clinica «il regime alimentare previsto per alleviare questi sintomi è la dieta antinfiammatoria che si basa essenzialmente sui cibi ad alto contenuto di antiossidanti, polifenoli, carotenoidi, acidi grassi omega 3, cibi a basso indice glicemico». In questo regime alimentare viene favorito anche l’utilizzo dell’olio extravergine di oliva come principale fonte di grassi ed è altresì consigliata la riduzione o la minimizzazione dei carboidrati raffinati, fast food, bevande alcoliche e bevande zuccherate.
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Una dieta a ridotto contenuto infiammatorio è associata a una maggiore perdita di peso, riduzione dell’infiammazione, migliori prestazioni fisiche e minore dolore articolare. Difatti, nei pazienti con artrite reumatoide che seguivano lo stile alimentare consigliato si riscontravano la riduzione del dolore e il miglioramento delle funzioni fisiche rispetto a quelli che non seguivano una dieta a basso contenuto infiammatorio. Ad oggi si contano più di 100 tipologie di artrite, che possono colpire persone di ogni età e di entrambi i sessi, anche se una maggior incidenza si riscontra negli anziani e nelle donne. Tra le più note ci sono sicuramente l’osteoartrite e l’artrite reumatoide. Le meno comuni sono, invece, la fibromialgia, il lupus eritematoso sistemico, la gotta, l'artrite psoriasica, ecc.
L'artrite reumatoide può essere curata e tenuta sotto controllo e ora persino fermata prima che porti alla progressiva perdita di funzioni fondamentali che comportano, negli anni, l’invalidità dei pazienti» precisa Luigi Sinigaglia, past president della Società Italiana di Reumatologia. «Noi specialisti - prosegue l’esperto - abbiamo a disposizione cure efficaci, messe a punto negli ultimi 15-20 anni, che possono consentire in un’elevata percentuale di casi la remissione completa: che significa permettere al paziente di fare una vita normale». «l problema resta – sottolinea Senigallia -, però, la diagnosi precoce che, nel nostro Paese, può avvenire anche uno o due anni dopo la comparsa dei primi sintomi. Oggi riusciamo a raggiungere la remissione nel 50-60% dei pazienti se la malattia viene diagnosticata tempestivamente, ovvero entro un anno dalla comparsa dei primi sintomi. Sfruttando la cosiddetta “finestra di opportunità”, quella fase cioè che intercorre tra l'esordio della patologia e l'instaurarsi di danni irreversibili, in cui è fondamentale iniziare con il corretto trattamento farmacologico per garantire maggiori possibilità di remissione e migliori risultati clinici.
L’inverno è la stagione in cui le malattie reumatiche si accentuano.
Le malattie reumatiche sono una grossa famiglia di patologie che comprende sia malattie di degenerazione articolare, come l’artrosi, sia malattie più infiammatorie, in cui l’infiammazione precede il danno articolare. L’infiammazione, per definizione, tende a migliorare con le temperature più calde o con l’utilizzo dell’articolazione interessata» spiega a Obiettivo salute su Radio24, Carlo Selmi, responsabile di Reumatologia e Immunologia clinica di Humanitas. Certamente – precisa Selmi -, il peggioramento durante l’inverno è più comune nei pazienti con artrosi, quel dolore più meccanico che può colpire ginocchia, pollice e alluce e che aumenta proprio con il freddo». Tra le parti più colpite, indubbiamente le nostre mani. «Le mani sono estremamente importanti in Reumatologia – continua -, la temperatura fredda può causare, per esempio, il fenomeno di Raynaud, una costrizione dei vasi che porta le dita di mani o piedi a diventare prima bianche, poi blu, poi rosse; un disturbo frequente soprattutto nelle giovani donne». «Le mani – sottolinea l’esperto - sono poi spesso sede sia di artrite sia di artrosi ed è tipica la manifestazione più iniziale dell’artrite reumatoide a livello delle articolazioni delle mani. Quello che distingue queste due condizioni è il tipo di dolore: nel caso dell’artrite il dolore migliora con l’uso dell’articolazione, mentre nel caso dell’artrosi è l’esatto opposto e dunque l’uso delle articolazioni – per scrivere o per afferrare qualcosa – porterà a un aumento del dolore». Non dimentichiamo un altro grande fastidio che ci accompagna nella stagione fredda: il mal di schiena. «Nel caso del mal di schiena oltre al problema articolare, contribuisce anche la componente muscolare; in questo senso il freddo è un pessimo compagno di viaggio per quanto riguarda le contratture muscolari che possono essere alla base di alcuni mal di schiena, soprattutto in regione cervicale.
Partendo da presupposto che il peggioramento di queste patologie avviene sicuramente nei mesi invernali, ci sono anche altri tre fattori che incidono e che contribuiscono al peggioramento. Primo tra tutti, la scarsa attività fisica con conseguenze sia per l’aumento di peso che per la dimensione immunologica. Seguita poi da una sporadica esposizione ai raggi solari, e quindi, a un minor assorbimento di vitamina D, causa di un aumento dell’infiammazione locale. E per ultimo, ma non per importanza, anche insonnia e disturbi del sonno che favoriscono anch’esse stati infiammatori all’interno dell’organismo. Inoltre, le artriti provocano un senso di affaticamento, astenia e stanchezza.
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Se non opportunamente trattata questa malattia può avere un pesante impatto negativo sulla vita dei pazienti, oltre ad essere fortemente invalidante – sottolinea Silvia Tonolo, presidente ANMAR –. Per le ripercussioni sulla sfera personale e di relazione, un paziente su due ritiene addirittura di sentirsi escluso dalla società. C’è quindi un gran bisogno di un corretto percorso diagnostico terapeutico per questi pazienti che si basi su diagnosi precoce e tempestiva, presa in carico e appropriatezza terapeutica: sono fondamentali per garantire la remissione dalla malattia che dev’essere un obiettivo, non una speranza. Sappiamo che remissione non significa guarigione e che il mantenimento della stessa è subordinato alla continuità terapeutica e all’aderenza alle cure, ma da pazienti sappiamo altrettanto bene che quando i sintomi della patologia non interferiscono con la possibilità di vivere una vita attiva e normale l’effetto è positivo sia da un punto di vista fisico, che psicologico. Ecco perché noi pazienti, insieme al nostro reumatologo dobbiamo prenderci cura ogni giorno di noi stessi.
L’artrite reumatoide è una patologia infiammatoria cronica autoimmune che attacca i tessuti articolari di una persona il cui sistema immunitario, invece di proteggere l’organismo dagli agenti esterni come virus e batteri, si attiva in maniera anomala contro di esso» spiega al Corriere della Sera Roberto Gerli, presidente della Società Italiana di Reumatologia. «Sin dagli esordi – continua l’esperto -, la malattia si manifesta in maniera subdola, variabile, graduale o acuta, presentando dolore e tumefazione inizialmente alle articolazioni di mani e piedi, associati a rigidità al risveglio». «Con il tempo, l’infiammazione può coinvolgere potenzialmente ogni distretto dell’organismo (come polmoni, reni, cuore, sistema nervoso, vasi sanguigni, occhi) divenendo sistemica. La prognosi della malattia è decisamente migliorata a partire dagli anni '80, ma enormi progressi sono stati fatti negli ultimi 20 anni. Siamo passati dal sollievo sintomatico al rallentamento, o alla prevenzione, di ulteriori danni, fino alla possibilità di ottenere la remissione.
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Oggi, l’innovazione terapeutica continua a fornire opzioni in grado di cambiare l’evoluzione dell’artrite reumatoide, [...] che saranno sempre più in prima linea per il trattamento precoce di questa patologia volto a raggiungere l’obiettivo della remissione clinica. Utili pure a raggiungere il traguardo della remissione, condizionato da una stretta collaborazione fra paziente e medico» evidenzia il presidente della Società Italiana di Reumatologia. «Oltre all’inizio precoce del trattamento, è necessario uno stretto monitoraggio del paziente, con frequenti visite specialistiche, al fine di “misurare” il grado della risposta alla terapia - conclude Sinigaglia -. Attualmente, a fronte dell’ondata che ha investito gli ospedali legata all’emergenza Covid-19, molti pazienti hanno visto rinviare esami di controllo e visite con gli specialisti, ma ci sono prestazioni e terapie che non possono essere considerate differibili, con l’inevitabile effetto di un peggioramento del quadro clinico che, oltre a compromettere la possibilità di regressione, provoca anche un incremento dei costi sanitari e sociali - conclude Gerli.
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Leggo "Lotta all'Artrite reumautoide"
Today "Medici: esperti Sir, 'remissione artrite reumatoide traguardo possibile'"
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Ravenna Today "Artrite: è possibile alleviare i sintomi con una dieta mirata"
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Ministero della Salute "Osteoporosi"
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PubMed "Compromised Vitamin D Status Negatively Affects Muscular Strength and Power of Collegiate Athletes"
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MDPI "Special Issue "Vitamin D and Sport Performance"
PubMed "The Effect of Vitamin D Supplementation in Elite Adolescent Dancers on Muscle Function and Injury Incidence: A Randomised Double-Blind Study"
MDPI "Vitamin D and Sport Performance"
Gazzetta dello Sport "Vitamina D: preziosa per ossa, muscoli e prestazioni sportive"
Quotidiano "Vitamina D, il segreto delle prestazioni sportive"
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Nella lotta al coronavirus un altro potente alleato del nostro organismo. Dopo la lattoferrina e la vitamina D, un’altra sostanza è oggetto di studio per il potenziale ruolo contro il coronavirus, ora è il turno della melatonina che, secondo uno studio statunitense, potrebbe aiutare ad abbassare il rischio di contrarre l’infezione. Dopo le numerose indagini e delle evidenze scientifiche circa il rapporto tra vitamina D e SARS-CoV2 ora, la scoperta dei ricercatori della Cleveland Clinic (Ohio) che identificando nell’ormone che regola il ciclo sonno-veglia, solitamente utilizzato come integratore alimentare per risolvere i problemi di insonnia una possibile opzione di trattamento per il Covid. Secondo gli studiosi, l’uso regolare di questo ormone che regola il ciclo sonno-veglia, comunemente utilizzato come integratore contro l’insonnia, è associato a una «probabilità ridotta di quasi il 30% di positività al test diagnostico per Sars-Cov-2», una percentuale può arrivare a coprire più della metà dei casi (52%) nella popolazione afroamericana. Nella ricerca pubblicata sulla rivista Plos Biology, i ricercatori hanno utilizzato i dati delle cartelle cliniche di quasi 27mila pazienti con Covid-19 per identificare le manifestazioni cliniche e le patologie comuni tra l’infezione da coronavirus e altre malattie, integrando queste informazioni con tecnologie di analisi utili alla descrizione e l’interpretazione del sistema biologico sottostante. In particolare gli studiosi hanno valutato l’associazione con altre 64 malattie (cancro, malattie autoimmuni, cardiovascolari, metaboliche, neurologiche e polmonari) individuando il nesso tra le diverse patologie. L’analisi ha evidenziato che, ad esempio, alcune proteine associate alle difficoltà respiratorie e alla sepsi (due delle principali cause di morte nei pazienti con forme gravi di Covid-19) erano altamente correlate con più proteine di Sars-Cov-2.
Nell’insieme, gli studiosi hanno determinato che le malattie autoimmuni (come ad esempio la malattia infiammatoria intestinale), polmonari (come la broncopneumopatia cronica ostruttiva e fibrosi polmonare) e neurologiche (depressione e disturbo da deficit di attenzione e iperattività) mostravano una significativa associazione con geni e proteine coinvolte nell’infezione da SARS-CoV-2. L’indagine ha analizzato circa 3.000 sostanze, individuandone 34 interessanti per la loro potenziale azione antivirale e fra queste, prima tra tutte, la melatonina. «Questo ci ha indicato – precisa Feixiong Cheng del Genomic Medicine Institute della Cleveland Clinic e autore dello studio – che farmaci già approvati per il trattamento di queste condizioni respiratorie potrebbero avere qualche utilità nel trattare anche l’infezione da coronavirus agendo su quei bersagli biologici condivisi». Anche gli scienziati del Life Science avevano già indagando il potenziale effetto terapeutico nei pazienti affetti da Covid-19. La review pubblicata su Life Science dal titolo “Lungs as target of COVID-19 infection: Protective common molecular mechanisms of vitamin D and melatonin as a new potential synergistic treatment” ha indagato il potenziale terapeutico dell’azione sinergica della vitamina D e della melatonina nei pazienti affetti da coronavirus. Secondo la ricerca, sia la vitamina D che la melatonina, grazie alle notevoli proprietà che le contraddistinguono tra cui quelle antinfiammatorie, antifibrotiche e antiossidanti, svolgono un’azione regolatrice nei confronti del sistema renina-angiotensina-aldosterone, influendo positivamente sulla “tempesta delle citochine”, causa di infiammazioni e fibrosi dei tessuti a livello polmonare, e più in generale sul sistema immunitario. Quindi non solo l’ipovitaminosi tra le cause di maggior rischio. La review pone l’attenzione su come la carenza di queste sostanze potrebbe influire sugli stati di infiammazione acuta causati da Covid-19, provocando sintomi più gravi rispetto a quelli registrati nei pazienti con livelli ematici di vitamina D e melatonina più alti.
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Dalla capacità di modulare e influenzare meccanismi fisiologici dell’organismo al mantenimento di ossa e denti in salute, dal buon funzionamento dei muscoli al rinforzo del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è ormai da anni oggetto di ricerca. Non meno interessante è la correlazione fra la carenza di vitamina D con i disturbi del sonno, condizione che ha registrato una vera e propria impennata nella popolazione italiana soprattutto nel periodo del lockdown marzo-maggio 2020, nel pieno della prima ondata. Altra grande protagonista nella regolazione del ritmo circadiano del sonno è la melatonina. Questo ormone viene prodotto naturalmente dalla ghiandola pineale e a livello mitocondriale, a cui sono state attribuite, secondo quanto dimostrano le ricerche di diversi studi clinici e review, anche proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e immunomodulanti. E proprio a questa esigenza rispondono i nutraceutici e gli integratori alimentari a base di vitamina D e melatonina efficaci per aiutarci a ritrovare benessere e serenità.
Tuttavia, anche se il legame fra melatonina e coronavirus è ancora da esplorare, e se i ricercatori hanno individuato alcuni processi fisiologici che potrebbero entrare in gioco, la sostanza potrebbe giovare ai pazienti anziani, ovvero a quelli a rischio di forme di infezione più gravi. Inoltre, la melatonina, sopprime alcuni processi infiammatori, anche a livello polmonare, ad esempio aumentando le citochine anti-infiammatorie. Senza trascurare poi, come risaputo, che un buon riposto (almeno 8 ore a notte) aiuta ad abbassare i livelli dello stress. Inoltre, nell’indagine che ha indagato il rapporto tra melatonina e coronavirus è emerso che l’uso di melatonina era associato a una probabilità ridotta di quasi il 30% di risultare positivo al Covid-19 dopo l’adeguamento per età, razza e varie comorbidità della malattia. In sostanza, l'uso adiuvante della melatonina ha un potenziale per migliorare i sintomi clinici dei pazienti COVID-19 e contribuire a un più rapido ritorno dei pazienti alla salute di base. Considerate le alte prestazioni della melatonina, la sua prescrizione nella profilassi del COVID-19 è fortemente raccomandata.
Authorea "Efficacy of a Low Dose of Melatonin as an Adjunctive Therapy in Hospitalized Patients with COVID-19: A Randomized, Double-blind Clinical Trial"
Fanpage "La melatonina potrebbe prevenire e curare l’infezione da coronavirus"
Leggo "Vitamina D e Melatonina: Life Science indaga il potenziale terapeutico nei pazienti affetti da Covid-19"
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Irresistibile e ricco di vitamina D. Dal burro di cacao al cioccolato fondente: facciamo la scorta di benessere. Uno studio tedesco mostra che cacao e derivati contengono una quantità notevole di vitamina D2, meglio nota come ergocalciferolo. Infatti, secondo quanto dimostrato dall’indagine condotta dai ricercatori della Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg, il cacao non solo fa bene alla nostra salute, ma è anche ricco di vitamina D. Analizzando i nutrienti presenti in questo alimento, gli esperti hanno scoperto che i chicchi di cacao vengono essiccati al sole per un tempo medio-lungo, solitamente attorno alle due settimane. È proprio questo particolare procedimento a renderli ricchi di vitamina D2. Questa ricerca evidenzia l’importanza di questa vitamina ed evidenzia la possibilità di pensare al cacao, ma ancora più al cioccolato fondente come a un integratore da utilizzare in combinazione con altri alimenti per incrementare l’apporto di vitamina D. «La vitamina D è fondamentale per il corpo umano ed è disponibile in due tipi: vitamina D2 e D3», spiega Gabriele Stangl della Martin Luther University.
Antiossidante, energetico, antidepressivo, protettivo. «La vitamina D3 - prosegue - è prodotta dalla pelle attraverso l'esposizione al sole. Gli esseri umani ottengono il 90% del loro fabbisogno di vitamina D in questo modo. Il resto viene consumato attraverso il cibo, come il pesce grasso o le uova di gallina. La vitamina D2 si trova invece nei funghi: le fave di cacao sono sensibili alla contaminazione da funghi e spesso contengono quantità considerevoli di ergosterolo, il precursore della vitamina D2, proprio per questo motivo». Inoltre, Stangl e colleghi hanno ipotizzato che l'essiccazione al sole delle fave di cacao fermentate porterebbe alla conversione dell'ergosterolo in vitamina D2. Per testare questa idea, i ricercatori hanno analizzato fave di cacao e alimenti a base di cacao utilizzando un sistema di spettrometria di massa all'avanguardia. «Abbiamo dimostrato – spiegano gli esperti alla rivista Food Chemistry - che le fave di cacao provenienti da diversi luoghi contengono vitamina D2. Un contenuto particolarmente elevato di questa sostanza è rilevato nel burro e nella polvere di cacao». Fra i prodotti analizzati, il cioccolato fondente presentava un contenuto di vitamina D2 compreso tra 1,90 e 5,48 μg/100 g, mentre quello bianco tra 0,19 e 1,91 μg/100 g.
Gustosa fonte di nutrienti, la sua versione fondente si aggiudica il podio per la presenza di maggiori quantitativi di vitamina D2. Dalle origini antichissime (più di 6.000 anni) la sua storia si interseca con quella dei Maya, che furono i primi agricoltori a coltivare la pianta del cacao. Seguiti poi dagli Aztechi che cominciarono questa coltura e, in seguito, la produzione di cioccolata. Poco dopo, ad opera loro, la nascita della prima “fabbrica di cioccolato”. Tra il mistico e il religioso, all’epoca veniva consumato dai nobili in occasione delle cerimonie importanti, offerto insieme con all'incenso, come sacrificio alle divinità. Ancora oggi, l'antica città Maya di Kulubà (dove sorsero le prime piantagioni di cacao) è considerata la "culla del cioccolato". Ricavato dai semi della pianta di Theobroma cacao, è un nostro grande alleato. Insomma, un cioccolatino al giorno, toglie il medico di torno! Soprattutto quello fondente, è fonte di importanti nutrienti in grado di ridurre il rischio di diabete di tipo 2 e abbassare il colesterolo “cattivo” (LDL). Dal punto di vista nutrizionale, il cioccolato fondente, si contraddistingue per un basso contenuto calorico, un’importante funzione rilassante e un’interessante azione antidepressiva. Considerato lo “scaccia tristezza” per eccellenza, incide positivamente sul nostro umore (grazie al rilascio di endorfine).
La Filiera Etica del Cioccolato "LIFE 120" con SILVIO BESSONE (Maestro cioccolatiere)
E poi, non dimentichiamo che il cioccolato fa bene al cuore. Lo sostiene uno studio del 2003 promosso dell'Istituto Nazionale Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (Inran) di Roma. I risultati dell’indagine hanno rivelato che il cioccolato fondente aumenta del 20% le concentrazioni di antiossidanti nel sangue, grazie alla presenza dei flavonoidi. Inoltre, una ricerca dell’Università di Harvard durata cinque anni, su un campione di 7.841 persone di 65 anni, ha dimostrato che coloro che mangiavano cioccolato tre volte al mese vivevano più a lungo, per questi soggetti, infatti, il rischio di mortalità si riduceva del 36% rispetto a quelli che non la consumavano. Non dimentichiamo poi che il cacao e, di conseguenza, il cioccolato, rappresentano un’ottima fonte di magnesio. Se combinati a un’alimentazione sana ed equilibrata, cacao e derivati, ovviamente consumati in maniera adeguata, contribuiscono all’apporto giornaliero di oligonutrienti. Il cioccolato si presenta come un ottimo alleato per ridurre il rischio di malattie cardiache e di ipertensione e per mantenere pulite le arterie, grazie alla teobromina. E non solo. Questo cibo, favorisce l’afflusso di ossigeno al cervello, migliorandone, di conseguenza, memoria e concentrazione e riducendone il senso di fatica. Ultimo mito da sfatare: il cioccolato non fa ingrassare!
Senza tralasciare poi la preziosa funzione svolta dalla vitamina D. Di pronta risposta Vitalife D, un integratore alimentare con vitamina D3 (composta da colecalciferolo) più adatta all'uomo dopichè di provenienza animale. Inoltre, per facilitarne l'assimilazione è inserita in olio extravergine di oliva. La sua principale differenza sta proprio nelle composizione, poichè, ad esempio, la vitamina generalemente proposta negli integratori alimentari in commercio è la D2, composta invece da ergocalciferolo, e quindi, di provenienza vegetale che si differenzia a sua volta dal calcitriolo che è invece di difficile assimilazione. Quindi di fondamentale importanza per fissare il calcio nelle ossa. Previene, inoltre, sia lo sviluppo del rachitismo nei bambini, che dell’osteoporosi negli anziani. Agisce come un ormone, controllando vari organi e sistemi e ha un'azione regolante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario. La sua carenza potrebbe, infine, essere associata a diverse patologie, quali il diabete, l’Alzheimer, l’asma e la sclerosi multipla.
Il Giornale "Il cioccolato fondente è ricco di vitamina D"
Ansa "Il cacao, fonte sconosciuta e golosa di vitamina D"
SkyTg24 "Scoperta una nuova qualità del cacao: è fonte di vitamina D"
Fanpage "Il cioccolato fondente contiene vitamina D: la verità sullo studio che ci ha fatto sognare"
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500mila l’anno in Italia. Scatta l’SOS per le fratture da fragilità. In pole position, sicuramente tra le più temibili e quelle a cui prestare particolare attenzione c’è proprio quella del femore che spesso coinvolge anche vertebre, mani, polsi, braccia e caviglie. Ma poi si sa, i guai non vengono mai da soli. Difatti a questa condizione critica si accompagna molto spesso conseguenze e fastidi non trascurabili con ripercussioni su altre parti del nostro corpo. Quindi ossa delicate come “porcellana” non sono poi una rarità, soprattutto quando si soffre di osteoporosi. Tra i primissimi segnali di questa patologia e, di conseguenza, di uno scheletro più debole, c’è quasi sempre una frattura. Infatti, quando le ossa perdono massa e diventano sempre più porose può bastare poco a romperle. Il risultato? Una disabilità grave e permanente senza considerare la notevole difficoltà nel quotidiano, in primis la perdita di autonomia, fino ad arrivare perfino a un incremento della mortalità, soprattutto nel caso delle fratture di femore, in cui il tasso di letalità nell’anno successivo oscilla tra il 15 e il 25%. Tuttavia, evitarle è possibile attraverso un’adeguata prevenzione seguita da buone abitudini.
L'OSTEOPOROSI, dalle vere cause ai rimedi naturali
Diversi meccanismi d’azione contribuiscono alla prevenzione con l’obiettivo di fondo di incidere sul processo di rimodellamento osseo. Infatti, se da un lato il tessuto osseo viene continuamente riassorbito, dall’altro si adopera per una sua ricostruzione. In pratica, l’importante è riuscire a mantenere un rapporto bilanciato e che non porti, quindi, a una perdita di massa e di conseguenza a un’eccessiva fragilità. «Innanzitutto abbiamo la vitamina D: [...] va sempre assunta come supplemento con qualsiasi tipo di terapia perché è fondamentale per la mineralizzazione ossea», spiega al Corriere della Sera Maria Luisa Brandi, presidente della Fondazione Firmo per le Malattie delle Ossa. Maggiore propensione alle fratture? Ecco chi rischia di più. Sicuramente anziani, donne dopo la menopausa, pazienti con menopausa precoce o amenorrea, chi ha parenti stretti con osteoporosi, chi segue terapie che potrebbero portare a osteoporosi come le cure croniche a base di cortisonici oppure quelle ormonali a seguito di un tumore al seno.
«L'osteoporosi – si legge in una nota del Ministero della Salute - è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea legato prevalentemente all’invecchiamento. Questa situazione porta, conseguentemente, a un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. Inoltre, l’incidenza di fratture da fragilità aumenta all’aumentare dell’età, soprattutto nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura di femore, vertebra o polso. I più colpiti poi, sono gli over 65. In Italia, il 23% delle donne oltre i 40 anni e il 14% degli uomini con più di 60 anni è affetto da osteoporosi e questi numeri sono in continua crescita, soprattutto in relazione all'aumento dell'aspettativa di vita. Si stima che in Italia l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le fratture da fragilità per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. La mortalità da frattura del femore è del 5% nel periodo immediatamente successivo all’evento e del 15-25% a un anno. Nel 20% dei casi si ha la perdita definitiva della capacità di camminare autonomamente e solo il 30-40% dei soggetti torna alle condizioni precedenti la frattura».
VITAMINA D e OSTEOPOROSI: la correlazione che non tutti conoscono
Inoltre, per proteggere la salute dell’osso è fondamentale il contributo dell’alimentazione, equilibrata e corretta oltre a uno stile di vita sano. Non solo per anziani e donne in menopausa, s’intende. Per "costruire l’osso" in età pediatrica è molto importante l’assunzione di calcio e vitamina D, ma quantità adeguate di questi nutrienti con la dieta sono necessarie anche successivamente, per minimizzare la perdita della massa ossea, in entrambi i sessi. E allora vediamo come intervenire. Cinque mosse per preservare le ossa in salute: mantenere uno stile di vita sano e svolgere regolarmente attività fisica, seguire una dieta varia ed equilibrata per prevenire e contrastare sovrappeso e obesità, integrare l’alimentazione con calcio e vitamina D, ridurre il consumo di sale (che contribuisce all’aumento dell’eliminazione del calcio con l’urina). E ancora, non fumare e limitare il consumo di alcolici. Insomma, aiuta le tue ossa! A tavola, con cibo e integratori, come all’aperto, con attività fisica e sole.
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Estremamente contagioso e non risparmia nessuno. Parliamo di Covid, il virus che da mesi sta mettendo a rischio la nostra salute.Come tutti sappiamo ormai, i soggetti più esposti sono sicuramente le categorie più deboli: anziani e malati. Ma non sono solo loro ad essere alla mercé di un nemico invisibile. Infatti, oltre alle persone avanti con gli anni o affette da diverse patologie croniche ci sono tutti gli altri. Bambini, adolescenti e adulti. Tra i fattori che incidono maggiormente sulla probabilità di contrarre questo virus c'è sicuramente l'obesità . Uno studio pubblicato su Jama, ha dimostrato che le persone obese hanno un rischio più che doppio di ospedalizzazione per Covid 19 rispetto ai normopeso e un 50% di probabilità in più di complicanze. L'indagine, condotta da Barry Popkin, nutrizionista ed esperto di obesità dell'università del North Carolina a Chapel Hill ha analizzato 75 studi internazionali sul tema, per indagare i dati disponibili sul rapporto tra obesità e Covid 19. I risultati della loro analisi hanno poi fugato ogni dubbio precedente: un obeso avrebbe il 46% di probabilità in più di contrarre la malattia, il 113% in più (un rischio più che doppio quindi) di essere ricoverato in caso di contagio, il 74% in più di finire in terapia intensiva, e il 48% in più di morire a causa di Covid 19 .
Il 46% della popolazione italiana tra sovrappeso e obesità. La prevalenza, inoltre, aumenta al crescere dell’età, ed è maggiore nel genere maschile: la prevalenza massima riguarda la fascia d’età dei 65-74enni, con un 68,2% di soprappeso e obesi tra gli uomini e un 54,9% tra le donne. Inoltre, nel nostro Paese è obeso l’11% della popolazione. È quanto riportato dall’ultimo Italian Obesity Barometer Report, realizzato dall’Italian Barometer Diabetes Observatory foundation in collaborazione con l’Istat. «Nella gestione di questa epidemia la questione dell’obesità è stata per lo più ignorata e dobbiamo ricordare che nel mondo abbiamo più di due miliardi di persone obese e in sovrappeso, che presto saliranno a due miliardi e mezzo» ricorda su Jama Popkin. «L’obesità è uno dei grandi problemi che affronta oggi la sanità, e sapevamo che l’obesità avrebbe avuto una relazione importante con Covid – continua - eppure il tema è stato ignorato dai decisori politici e molti ricercatori, con un’attenzione molto maggiore riservata al diabete, all’ipertensione e disturbi cardiovascolari come problemi per chi contrae Covid».
La prevalenza di individui con sovrappeso o obesità è ai massimi storici e sta aumentando in tutto il mondo. Questo è vero non solo nei paesi a reddito più elevato, ma anche nei paesi a reddito medio e basso con alti livelli di malnutrizione che portano al doppio fardello della malnutrizione. Pochi paesi a basso e medio reddito hanno una prevalenza di individui con sovrappeso o obesità inferiore al 20% tra la popolazione adulta. Questa prevalenza non è in calo in nessun paese. Nei paesi a reddito più elevato, la prevalenza di individui con sovrappeso/obesità era già elevata negli anni '90 e ha continuato ad aumentare. Infatti, porzioni più ampie delle loro popolazioni sono diventate individui con obesità patologica con indici di massa corporea (BMI) superiori a 35-40 kg m −2. L'obesità è intrinsecamente una malattia metabolica caratterizzata da alterazioni del metabolismo sistemico, tra cui resistenza all'insulina, aumento del glucosio sierico, adipochine alterate (ad esempio l'aumento della leptina e diminuzione dell'adiponectina) e infiammazione cronica di basso grado. Una forte evidenza dimostra come la disregolazione degli ormoni e dei nutrienti negli individui con obesità possa compromettere la risposta alle infezioni. L'iperglicemia, un segno distintivo chiave del T2D, è altamente associata agli individui con obesità. È importante sottolineare che è stato dimostrato che il glucosio sierico non controllato aumenta significativamente la mortalità per COVID-19. Durante i periodi di infezione, il glucosio sierico incontrollato può compromettere la funzione delle cellule immunitarie direttamente o indirettamente tramite la generazione di ossidanti e prodotti di glicazione. Allo stesso modo, sia la segnalazione dell'insulina che della leptina sono fondamentali nella risposta dell'effettore infiammatorio dei linfociti T in quanto regolando la glicolisi cellulare, supportando la produzione di citochine effettrici. Questi fattori metabolici si combinano per influenzare il metabolismo delle cellule immunitarie, che determina la risposta funzionale ai patogeni, come SARS ‐ CoV ‐ 2. Inoltre, le persone obese hanno effetti modulatori su popolazioni di cellule immunitarie chiave critiche nella risposta a SARS ‐ CoV ‐ 2. In particolare, un aumento dell'IMC è associato a una maggiore frequenza dei sottoinsiemi di cellule T CD4 antinfiammatorie Th2 e cellule T regolatorie.
«I dati di letteratura disponibili confermano senz’altro l’aumentato rischio di ricoveri e decessi negli obesi», spiega Paolo Sbraccia, professore di Medicina Interna e direttore dell’Unità di medicina interna – centro medico dell’obesità dell’Università Tor Vergata di Roma. «I motivi sono molti: il tessuto adiposo, come le cellule dei polmoni, esprime la famosa proteina Ace 2 a cui si lega il virus, e queste proteine possono facilmente staccarsi e raggiungere i polmoni, facilitando l’invasione di Sars-Cov-2. L’organismo degli obesi presenta poi uno stato di infiammazione cronica che facilita l’insorgenza della tempesta di citochine, tra le complicazioni più gravi di questa malattia. L’obesità in sé, inoltre, crea problemi di respirazione e complica le procedure di ventilazione messe in pratica nelle terapie intensive, rendendo così più probabile un quadro clinco più grave. Ci sono meno certezze invece sulla possibilità che l’obesità renda anche più alto il rischio di infezione da Sars-Cov-2, anche se esistono indizi di un’alterazione del funzionamento del sistema immunitario legato all’obesità che potrebbero spiegare questa evenienza. E purtroppo, presagirebbero anche una minore efficacia dei vaccini nelle persone obese». Anche il consumo alimentare di acidi grassi può influenzare le risposte infiammatorie. Le prostaglandine, i derivati degli acidi grassi a catena lunga, sono pirogeni di fase acuta che danno inizio alla risposta infiammatoria locale durante l'infezione.
La pericolosità del virus per le persone in sovrappeso, d’altronde, è emerso chiaramente in zone come gli Stati Uniti, dove la prevalenza dell’obesità è notevolmente più alta di quella del nostro paese: «A New York – sottolinea Sbarca – si è vista da subito un’alta letalità del virus nelle comunità più disagiate, in cui l’obesità è un problema più comune. Da noi nella prima ondata la letalità dell’epidemia è risultata più alta nelle persone molto anziane, ma anche questo sta cambiando». «Dati certi non sono ancora disponibili – continua Sbraccia – ma parlando con i colleghi che si occupano delle terapie intensive sembra che l’età media dei ricoverati sia scesa di almeno 10 anni, e in moltissimi casi questi pazienti, che hanno ormai un’età media che si aggira attorno ai 70 anni, soffrono di obesità».
Oltre al raffreddore c'è di più! Non solo per contrastare i sintomi influenzali, ma anche come valido supporto per la tonicità muscolare. E di conseguenza, per tenere alla larga altri disturbi legati alla muscolatura come ad esempio osteoporosi, menopausa e stress. Quindi, la vitamina C non fa bene solo al nostro sistema immunitario. È quanto dimostrato da un recente studio condotto dalla East Anglia University. Infatti, secondo l’indagine, una sua assunzione costante aiuterebbe anche i muscoli, con un’azione anti-età soprattutto nelle donne over 50. Questo prezioso contributo apportato dall’acido ascorbico al nostro organismo faciliterebbe il contrasto della sarcopenìa, ossia la diminuzione della massa muscolare. Questa patologia è legata ai cambiamenti ormonali che entrano in gioco durante la menopausa e al conseguente passaggio a uno stile di vita più sedentario o a una riduzione dell’attività fisica. A questa poi, subentrano altri fastidi non trascurabili tra cui l'osteoporosi (la fragilità ossea), il diabete mellito di tipo 2. Altro nemico dei nostri muscoli è proprio lo stress. La vitamina C, aiuterebbe anche a combattere lo stress grazie alla produzione dei cosiddetti ormoni del buonumore, come le endorfine, che aiutano a rilassare la muscolatura.
Solitamente, la sarcopenia si manifesta in soggetti sedentari a seguito di un lungo periodo di inattività fisica oppure può accentuarsi semplicemente con l’avanzare dell’età. Tuttavia, la sarcopenia non è solo una conseguenza inevitabile dell'età, ma si verifica anche in condizioni di stress ossidativo crescente nel tempo con la formazione di radicali liberi. Per quel che riguarda l’osteoporosi, invece, si tratta di una malattia sistemica dello scheletro che aumenta la fragilità delle ossa e la predisposizione alle fratture, causato dal deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo e una riduzione della massa ossea. Anche l’osteoporosi, o osteopenia nella sua fase iniziale, è correlata a diversi fattori, primo fra tutti l'invecchiamento, seguito poi dalla riduzione della densità minerale ossea, dalla menopausa, dalla limitata attività motoria. Oltre alla perdita della tonicità muscolare, la sarcopenìa porta a uno stato di debolezza, alla possibile perdita di equilibrio, oltre a una maggiore probabilità di andare incontro a diabete di tipo 2.
Oltre 50 milioni di persone soffrono di indebolimento muscolare. «Era già dimostrato che la vitamina C non solo stimola le difese immunitarie, ma agevola anche il recupero muscolare dopo uno sforzo fisico, perché neutralizza i radicali liberi che sono responsabili anche dell’invecchiamento cellulare» spiega in un’intervista a Donna Moderna Luca Piretta, nutrizionista e gastroenterologo dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. L’associazione di questo importante nutriente a due preziosi aminoacidi (lisina e metionina) favorisce la sintesi della carnitina, considerato un vero e proprio carburante per il sistema muscolare. Inoltre, contribuisce anche alla produzione dell’elisir dell’eterna giovinezza: il collagene. Non trascurabile il suo ruolo anti-età su pelle e tessuti. «Lo studio britannico – si legge nell’intervista - ora ha indagato un aspetto nuovo, che riguarda il rapporto tra le quantità di vitamina C assunte da un campione di persone molto vasto e la probabilità di andare incontro a sarcopenìa, ossia il depauperamento muscolare». E poi ancora il sostegno contro il nemico di tutti i giorni: lo stress. «Si tratta dello stress, responsabile dell’aumento del cortisolo, che a sua volta depaupera il muscolo e ne facilita l’atrofia» continua il nutrizionista.
VITAMINA C, un concentrato di proprietà e benefici
Lo studio è stato condotto su 13 mila donne e uomini tra i 42 e gli 82 anni che avevano aderito al progetto European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition. Sono stati analizzati la massa muscolare, la quantità di grasso e acqua nell’organismo e i livelli di vitamina C: «I gruppi che avevano assunto più vitamina C avevano massa muscolare migliore e muscoli più tonici» spiega Ailsa Welch, epidemiologa e principale autrice dello studio. La ricerca dimostra che anche che le persone con maggiori livelli di vitamina C potevano avere fino al 3% di muscoli in più. Dato importante considerato che, dopo i 50 anni, si può arrivare alla perdita annua dello 0,5-1% di massa tonica. L’indagine mostra l’incofutabile importanza dell’acido ascorbico soprattutto negli over 50, negli anziani e in particolare nelle donne, dove la menopausa porta al maggior rischio di fragilità ossea. Inoltre, è scientificamente dimostrato che a un miglioramento della massa muscolare segue anche un miglioramento anche dello stato osseo. Questo meccanismo si verifica perché un sistema muscolare in piena attività stimola il supporto dell’apparato scheletrico. Senza dimenticare poi, che migliorando la tonicità muscolare, si riduce il rischio sia di cadute che di fratture. Frequenti nei soggetti in età avanzata e, ancor più in quelli affetti da osteoporosi o anche solo nelle donne alle prese con la menopausa. Insomma, superati i 50 anni, sembra che, grazie alla sua azione anti-invecchiamento dei muscoli, l’assunzione di vitamina C, con l’alimentazione e l’integrazione, sia fondamentale per mantenersi in forma, soprattutto a livello muscolare.
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Donna Moderna "Vitamina C per i muscoli delle over 50"
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Al via con il decalogo della vitamina D. «Il 60% dei bambini italiani ha una ipovitaminosi: una carenza di vitamina D. Una percentuale molto alta che deve far riflettere noi clinici. I fattori di rischio sono: ridotta esposizione alla luce solare, elevata pigmentazione cutanea, allattamento al seno esclusivo senza profilassi, adolescenza e obesità» spiega in un’intervista a Dire Giuseppe Saggese, professore ordinario di Pediatria all’Università di Pisa (Unipi) e direttore responsabile di ‘Sipps’, la rivista ufficiale della Società italiana di Pediatria preventiva e sociale. Non solo l’infanzia, infatti, anche l’adolescenza è una fase a rischio ipovitaminosi D. Questo fenomeno è dovuto soprattutto dall’elevato numero di ore, nell’arco della giornata, che i ragazzi trascorrono a casa tra social network e serie televisive a discapito delle passeggiate all'aria aperta e sotto al sole. Altro fattore di rischio e strettamente correlato con l’ipovitaminosi è l’obesità. Infatti, l’insuccesso della perdita di peso potrebbe essere dovuto a una carenza di vitamina D. Numerosi studi dimostrano che i soggetti obesi o in sovrappeso presentano bassissimi valori di vitamina D nel sangue. In altre parole, riportare la vitamina D a livelli ottimali promuove la perdita di peso, potenzia gli effetti di una dieta ipocalorica e migliora il profilo metabolico. Quindi, «tutte le persone obese dovrebbero controllare i propri livelli di vitamina D e, in caso di deficit, assumere supplementi» spiega Luisella Vigna, a capo dell’indagine e responsabile del Centro Obesità e Lavoro del Dipartimento di Medicina Preventiva, Clinica del lavoro dell’Ospedale Maggiore Policlinico. Inoltre, aggiunge l’esperto nell’intervista a Dire «la vitamina D svolge un’azione precisa e specifica a livello scheletrico e, in caso di carenza, possono presentarsi problemi di rachitismo e un difetto di acquisizione di massa ossea».
Ovviamente non sono esclusivamente i più piccoli a soffrire di questo deficit. Ben il 70% degli italiani presenta una carenza di questo prezioso micronutriente con il conseguente rischio di osteoporosi. Percentuale che sale al 100% per le persone ospedalizzate. Prevenire l’ipovitaminosi D? Le fonti naturali di approvvigionamento di vitamina D sono due, la luce solare e gli alimenti. Il cibo è la seconda fonte: succo d’arancia, uova, fegato e olio di merluzzo. Tuttavia, la quantità di vitamina D presente in quello che mangiamo è di per sé insufficiente ad ovviare questo deficit, poiché bisognerebbe mangiare questi cibi in quantità troppo elevata. Da qui la necessita di avvalersi del prezioso sostegno degli integratori. «La sintesi di essa da parte dell’organismo, attivata dall’esposizione alla luce solare, contribuisce all’80-90% dell'apporto di vitamina D. La sua assunzione con gli alimenti copre il 10–20 % del fabbisogno. Ne consegue che l’assunzione con la sola dieta non è generalmente sufficiente a mantenere il giusto apporto di vitamina D» spiega Renato Masala, endocrinologo della piattaforma di esperti di Top Doctors. Inoltre, non dimentichiamo che, non solo la sua carenza è associata a un aumentato rischio di infarto miocardico e relativa insufficienza cardiaca acuta, ma ne peggiora addirittura gli esiti e le conseguenze.
1) La vitamina D è un fattore importante per la salute del bambino e dell’adolescente;2) La principale fonte di approvvigionamento di vitamina D è rappresentata dall’esposizione alla luce solare. La dieta fornisce quantità trascurabili di Vitamina D;3) La maggioranza degli organismi scientifici internazionali considera come sufficienti/normali i valori di vitamina D (25-OH-D) = 30 ng/m (=75 nmol/L), insufficienti i valori compresi tra 20 e 30 ng/ml (50 – 75 nmol/L) e come indicativi di deficit quelli =20 ng/ml (= 50 nmol/L), (deficit severo = 12 ng/ml: =30 nmol/L);4) E’ stata dimostrata un’elevata prevalenza di ipovitaminosi D (= 30 ng/ml = insufficienza + deficit) in età pediatrica. I principali fattori di rischio sono: ridotta esposizione al sole, elevata pigmentazione cutanea, allattamento al seno esclusivo senza profilassi, adolescenza, obesità, specifiche patologie (es. insufficienza epatica o renale), farmaci interferenti con il metabolismo della vitamina D (es.antiepilettici, corticosteroidi);5) La vitamina D svolge un’azione favorevole e ben definita a livello scheletrico. Il deficit di vitamina D influenza negativamente la salute ossea del bambino e dell’adolescente potendo determinare rachitismo e alterazione del processo di acquisizione della massa ossea;
Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D
6) La Vitamina D svolge diverse azioni extra-scheletriche, contribuendo in particolare alla regolazione del sistema immunitario. L’ipovitaminosi D è stata associata ad un aumentato rischio di infezioni respiratorie e a un peggiore controllo dell’asma. Al momento, nonostante l’interesse degli studi, l’eterogeneità degli stessi non permette di evidenziare un ruolo causale e/o terapeutico della vitamina D in tali condizioni patologiche;7) Il dosaggio della vitamina D non è indicato di routine, ma deve essere limitato ai casi con patologie scheletriche o altre condizioni in cui è clinicamente lecito sospettare una ipovitaminosi D. I risultati del dosaggio devono essere individualizzati nel singolo bambino in quanto sono influenzati da diversi fattori come il periodo dell’anno, l’esposizione al sole, l’ernia, l’indice di massa corporea, fattori genetici e la metodica di dosaggio;8) Nel primo anno di vita tutti i bambini devono ricevere la profilassi con 400 UI di Vitamina D, indipendentemente dal tipo di allattamento. Il nato pretermine (peso > 1.500 gr) necessita di dosi superiori (600-800 UI/die) fino al compimento di un’età post-concezionale pari a 40 settimane;9) Dopo il primo anno di vita, la profilassi (600 UI/die) deve essere individualizzata in base alla presenza o meno di fattori di rischio: durante il periodo invernale in Italia non è attiva la sintesi cutanea di vitamina D; particolare attenzione deve essere rivolta al periodo adolescenziale, quando si realizza il picco di massa ossea. Il mandato del pediatra è quello di valutare clinicamente (anamnesi, es. clinico) l’opportunità della supplementazione, in modo particolare da novembre ad aprile;10) L’assunzione di adeguati apporti di calcio è fondamentale per la salute ossea di bambini e adolescenti.
Numerosi studi dimostrano la maggiore efficacia della vitamina D nella prevenzione delle malattie. Nella lunga lista di patologie causate dalla deficienza di questa vitamina possiamo elencare: infezioni respiratorie acute, anafilassi, anemia, ansia, artrite, asma, arteriosclerosi, autismo, malattie autoimmuni, disordine bipolare, danni cerebrali, densità del tessuto mammario, fatica e dolore cronico, abilità cognitive, raffreddori, livelli della proteina C-reattiva, morbo di Crohn, fibrosi cistica, carie, depressione, diabete, dislessia, eczema, epilessia, fibromialgia, influenza, fratture, emicrania, problemi cardiaci, colesterolo alto, HIV/AIDS, ipertensione, disfunzioni del sistema immunitario, infiammazioni, infiammazioni intestinali, insonnia, patologie renali, leucemia, lombalgia, melanoma, meningite, sindrome metabolica, sclerosi multipla, miopia, dolori muscolari, obesità, osteoporosi, morbo di Parkinson, polmonite, psoriasi, schizofrenia, ictus, tubercolosi, etc…
Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D
Questo fondamentale nutriente ha un effetto benefico anche sulla longevità ed è fondamentale per il corretto funzionamento del sistema cardiocircolatorio e per la protezione di cuore e cervello, oltre ad essere utile per aumentare le difese del sistema immunitario, riducendo così il rischio di ammalarsi. Inoltre, previene gravi patologie tra cui diversi tipi di tumori ed è essenziale per il sistema nervoso. In ultimo, ma non meno importante, la vitamina D contribuisce anche alla riduzione di ansia e depressione. Quindi non solo per rinforzare la risposta, ma come miglior difesa contro ogni malattia e componente cruciale del nostro sistema immunitario.
Ruolo della vitamina D sul sistema immunitario e nelle malattie dermatologiche
Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"
Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"
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