Meno chili e più salute. Stop a diabete, obesità, morbo di Parkinson, patologie cardiovascolari e tumori. Al via con l’alimentazione povera di carboidrati e ricca di grassi per uno stile alimentare preventivo delle patologie figlie del benessere. Secondo uno studio condotto dall'Università della California San Francisco (UCSF) (UCSF) la dieta con una minima presenza di carboidrati, avrebbe un impatto decisivo sui microbi che risiedono nell'intestino umano, collettivamente indicati come il microbioma. Indagini più recenti hanno dimostrato che i cosiddetti "corpi chetonici", un sottoprodotto molecolare, incidono direttamente sul microbioma intestinale spegnendo definitivamente l'infiammazione. Questo processo avviene perché, in questo regime alimentare, il consumo di carboidrati è drasticamente ridotto al fine di costringere l’organismo ad alterare il suo metabolismo usando molecole di grasso, invece dei carboidrati, come fonte di energia primaria.
3a Puntata "I CARBOIDRATI FANNO BENE O MALE?" de IL CERCA SALUTE
Teoria - quella dei grassi utilizzati per l'energia necessaria all'organismo - ampiamente supportata e dimostrata nello stile Life 120 ideato da Adriano e Roberto Panzironi. Questa, tuttavia, a differenza della dieta chetogenica, non porta alla chetosi poiché prevede un apporto di carboidrati provenienti da verdure (consumate a sazietà durante i pasti) e dalla frutta (uno al mattino). Inoltre, prevede anche una quantità di zuccheri giornaliera, funzionale ai soli due organi che utilizzano come fonte di energia, ovvero cuore e cervello. Tra le altre patologie, secondo quanto conferma uno studio dell'Università di Bonn pubblicato sulla rivista scientifica Immunity, una dieta a basso contenuto di carboidrati potrebbe aiutare anche nel contrasto dell’asma. «La prevalenza di asma è aumentata drammaticamente negli ultimi decenni forse, questo è anche correlato a una dieta sempre più comune ad alto contenuto di zuccheri [...]», ipotizza Christoph Wilhelm, esperto di chimica e farmacologia clinica dell’Università di Bonn.
L'infiammazione postprandiale che si verifica in concomitanza con iperglicemia e iperlipidemia dopo l'ingestione di un pasto ad alto contenuto di carboidrati (HFCM) è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (CVD). Quindi, alimenti, più di altri, innescano meccanismi che aumentano il rischio dell’insorgenza di una lunga serie di malattie. «Alla base ci sono quegli alimenti che vanno a contrastare i processi infiammatori innescati dallo squilibrio tra citochine pro-infiammatorie e citochine anti-infiammatorie. Ritrovando l’equilibrio si spegne l’infiammazione a livello cellulare» spiega a Gazzetta Act!ve Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e RAF First Clinic di Milano. Oltre l’asma, anche il Parkinson.
«Nella malattia di Parkinson – evidenzia Christian Orlando, biologo - l'importanza dell’alimentazione è ormai nota a tutti. In presenza di malattie croniche un’alimentazione corretta diventa condizione fondamentale per il benessere dell’individuo e influisce positivamente sull’efficacia della terapia farmacologica e sullo stato di salute generale». Inoltre, «un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati insulinici ha un enorme potenziale nella prevenzione e nella gestione delle patologie neurodegenerative come il Parkinson. Gli studi clinici che esplorano l’effetto dei cambiamenti dietetici a livello neuronale sono pochi e lontani tra loro, ma esiste già un’enorme quantità di materiale scientifico che dettaglia come le diete ad alto contenuto di zucchero mettono a repentaglio la salute del cervello e quanto invece, al contrario, le diete a basso contenuto di carboidrati supportano la salute del cervello. Infatti nella patologia del Parkinson la funzione mitocondriale indebolita si suppone sia coinvolta nella morte dei neuroni che forniscono la dopamina. I ricercatori ipotizzano che i corpi chetonici, utilizzati come fonte energetica in caso di ridotto apporto di carboidrati, possono proteggere i mitocondri e sostenere la loro funzione» conclude l’esperto.
L'INFIAMMAZIONE CRONICA, le vere cause del killer silenzioso
Facciamo ora un passo indietro e vediamo cosa sono i carboidrati. Una definizione viene fornita da Adriano Panzironi nel libro “Vivere 120 anni. Le verità che nessuno vuole raccontarti”: «I carboidrati (zuccheri) si distinguono in semplici o complessi, in base alla lunghezza della catena di atomi di cui sono formati. Gli zuccheri semplici contengono una catena corta di facile scomposizione. Al contrario gli zuccheri complessi hanno una catena più lunga (si necessita di più tempo per l’assimilazione). Della prima categoria fanno parte molti zuccheri, i più conosciuti dei quali sono, quello di barbabietola (lo zucchero bianco che abbiamo tutti in casa) o di canna (si riconosce dalla composizione di cristalli marroncini). Della seconda categoria fanno parte gli amidi come la farina (e tutti i suoi derivati: pane, pasta, pizza, etc.), il riso, il mais, le patate ed i legumi. Tutti i carboidrati una volta scomposti si trasformano in glucosio che serve poi alle cellule solo per produrre energia tramite il processo della glicolisi (o dopo la sua trasformazione in piruvato, anche nei mitocondri). Gli zuccheri incamerati in eccesso, sono trasformati dal fegato in grasso saturo e stipati nelle cellule adipocite (soprattutto nella pancia, nei fianchi e sui glutei)».
Tuttavia i danni fatti dai carboidrati non finisco qui. Sul rapporto tra fertilità e consumo di carboidrati insulinici interviene la dottoressa Daniela Pelotti, medico specialista in ostetricia e ginecologia:
«Purtroppo, assolutamente sì, nel senso che il lavoro non è svolto solo da me, ma ci sono altri miei colleghi che hanno verificato, che una dieta che porta all'eliminazione dei carboidrati ad alto indice glicemico e soprattutto i cibi contenenti glutine, fa avere alle pazienti che hanno irregolarità del ciclo mestruale o anche menometrorragie una regolarizzazione del ciclo. Tra l'altro, tra i cibi come i cereali ad alto indice glicemico, ci sono quelli che contengono glutine che è tossico per alcune pazienti, geneticamente predisposte, perché può scatenare malattie autoimmuni, tra cui anticorpi, anti riserva ovarica. Quindi diciamo che lentamente l'ovaio perde la sua capacità di ovulare e le pazienti, la prima cosa che manifestano, è un blocco della mestruazione. Quando i medici vanno a fare i dosaggi ormonali e la riserva ovarica diminuisce, i valori FSH ed LH aumentano, come ad indicare l'ingresso in una menopausa precoce, ma i miei colleghi non sanno di questa correlazione, ma non è che ne hanno colpa, non sono informati o non sono incuriositi e non vanno a leggere, oppure non mettono in dubbio quella che è la Medicina ufficiale e suggeriscono ovviamente una integrazione con una terapia ormonale sostitutiva. La paziente, di solito, è disperata, alcune sono anche molto giovani e temono ovviamente di non poter avere figli; ma messe a dieta e con gli anticorpi “antiovarici” che man mano si abbassano, portano l’ovaio a rifunzionare. Quindi, il ciclo ritorna».
INDICE GLICEMICO e alimenti: tutto quello che dobbiamo sapere
La ginecologa illustra poi, i diversi risultati ottenuti con una modifica dello stile alimentare nei soggetti affetta da papilloma virus.
«Sì, ho avuto dei risultati, nel senso che quando si ha un’infiammazione o un virus attacca un tessuto dell'uomo, significa che vi è un’alterazione delle difese immunitarie. I cibi che creano infiammazione sono i cibi ad alto indice glicemico, non a caso dico che i semi sono per gli uccelli, le erbe per gli erbivori e l'uomo è prettamente un carnivoro. Se definito onnivoro, vuol dire che mangia di tutto, ma non gli è permesso, obiettivamente, di trasformare i cibi che non riesce a digerire. Per tale motivo li cuoce e non si rende conto che non sono idonei al suo tipo di DNA e a ciò che ha stabilito la natura geneticamente. Alcuni vanno avanti comunque, altri realizzano delle patologie, fra queste quella del colon irritabile. A proposito, ultimamente si parla molto di comorbilità, cioè di patologie che riguardano l'intestino e la connessione con altri distretti, come il cervello, ma soprattutto la contiguità dell'intestino con l'apparato uro ginecologico, questo fa pensare, in effetti, ho la verifica, che vi sia un’infiammazione da parte dell'apparato uro ginecologico partendo dall'intestino. Fino ad oggi, i ginecologi pensavano: “Hai una vaginite, hai una cistite che viene da fuori”, invece no! Viene da dentro. Quindi, il papilloma virus può venire da fuori ma attecchisce là, dove ci sono un terreno favorevole e le difese immunitarie indebolite: l'intestino infiammato. Questo altera il sistema immunitario, tra l'altro si è scoperta una patologia per cui batteri e sostanze infiammatorie, da un intestino ormai infiammato, lo fanno diventare come un colabrodo. Questi batteri e queste infiammazioni come le candide, attraversano l'utero e vanno al collo dell'utero. Ovviamente, un’infiammazione cronica fa sì che la mucosa non ha difese e attecchisce facilmente il papilloma. Ho verificato tutto questo su alcune pazienti, in cui era presente il papilloma, ma avendo una displasia lieve e non essendo il papilloma già entrato nelle cellule e non avendo dato un’alterazione delle cellule; c'era l’attesa di verificare se l'organismo era in grado di respingere questo virus con una dieta a basso indice glicemico. Il papilloma è scomparso!»
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Altri importanti risultati sono stati ottenuti anche con la mastopatia fibrocistica (MFC), un'affezione di natura benigna caratterizzata dalla presenza, nel tessuto mammario, di noduli composti da microcisti e aree fibrose di varie dimensioni.
«Purtroppo sì. La cosiddetta mastopatia fibrocistica è un’infiammazione dell’apparato mammario dovuta a un’iperstimolazione estrogenica, che parte da un intestino infiammato dai molti carboidrati mangiati; quindi un’infiammazione a livello ovarico, con l’ovaio infiammato, che viene iperstimolato dall’ipofisi e porta alla produzione di molti estrogeni. Quindi, a livello dell’utero può comportare un utero fibromatoso, mestruazioni molto abbondanti; mentre a livello del seno può portare a un’iperstimolazione delle cellule del tessuto mammario, con formazione di cisti. La terapia solo a base di eliminazione dei carboidrati, fa sì che il primo segnale è che la paziente non avverte più il dolore e la mastodinia. A livello ecografico, invece, noto una riduzione o addirittura la scomparsa della mastopatia fibrocistica. Quindi, un messaggio che vorrei dare a tutte le donne è quello di tenere sotto controllo un organo, ma forse sarebbe meglio eliminare la causa» conclude Pelotti.
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Per approfondimenti:
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The Journal of Nutrition "Spices in a High-Saturated-Fat, High-Carbohydrate Meal Reduce Postprandial Proinflammatory Cytokine Secretion in Men with Overweight or Obesity"
Università di Toronto "Ecco perché una dieta ricca di carboidrati aumenta il rischio di cancro al colon"
Il Messaggero "Dieta chetogenica, può avere effetti benefici nelle persone che soffrono di asma"
The Italian Times "Dieta chetogenica: cos'è, come funziona ..."
Immunity "Lipid-Droplet Formation Drives Pathogenic Group 2 Innate Lymphoid Cells in Airway Inflammation"
Universität Bonn "Researchers suggest a special diet against asthma"
Il Messaggero "Una dieta con pochi carboidrati potrebbe aiutare contro l'asma"
Ansa "Dieta con pochi carboidrati potrebbe aiutare contro l'asma"
Il Giornale "Asma, una dieta con pochi carboidrati potrebbe essere di aiuto"
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Circondati e dipendenti dagli zuccheri. Tra snack e cibi già pronti, passando poi per la dieta mediterranea caratterizzata dagli alimenti composti per la gran parte da zuccheri come pane, pasta, riso, pizza e biscotti. Oltre ai dannosi picchi glicemici, lo zucchero innesca nel nostro corpo sonnolenza e inerzia, senza trascurare il rischio di serie patologie come l’invecchiamento precoce, il diabete, l’obesità, la carie e varie tipologie di tumore, stati infiammatori e, secondo alcuni, anche depressione causata dai cosiddetti picchi insulinici. Dannoso per la salute e se consumato in alte dosi produce dipendenza, proprio per questo viene considerato, da vari nutrizionisti come una vera e propria droga. Dal diabete alla steatosi epatica, fino ad alcuni tipi di tumore. Da non sottovalutare le conseguenze di una dieta ricca di zuccheri. Perché gli zuccheri fanno così male?
«Questo perché abbiamo visto che gli zuccheri fanno più male dei grassi», sottolinea a Gazzetta Active la dottoressa Claudia Delpiano, dietista e biologa nutrizionista presso l’IRCCS Policlinico San Donato e il Policlinico San Pietro. Unica eccezione per la frutta: anche se contiene il fruttosio non fa male. «Sono gli zuccheri aggiunti che fanno male. Il fruttosio della frutta è presente nell’alimento insieme ad altri composti bioattivi: sali minerali, vitamine, acqua, fibra. E la fibra alimentare va a modulare l’assorbimento dello zucchero presente nel frutto, evitando picchi glicemici». Oltre alla frutta c’è di più. Consentiti anche il dolci! «Oltre alla frutta [...], si possono mangiare il cioccolato fondente almeno all’80%, […] la frutta fresca, la polvere di cacao amaro o di cannella, la frutta disidratata al naturale, - ma rigorosamente - senza zuccheri aggiunti».
L'amara verità dello ZUCCHERO: tutti i rischi per la nostra salute
Nel 2016, un’interessante ricerca pubblicata sul British Medical Journal, dimostrava come l’assunzione di zuccheri o di bevande zuccherate fosse un fattore determinante nell’aumento del peso. Inoltre, lo zucchero sembra avere influenza anche sui meccanismi biologici che regolano l’appetito. Avendo la capacità di digerire molto velocemente gli alimenti e le bevande contenenti zuccheri, lo stimolo della fame tende a tornare più frequentemente, innescando così un circolo vizioso. Ovvero, l’organismo scompone tutti i carboidrati nei loro elementi costitutivi e ciò che resta è il glucosio che viene poi metabolizzato grazie all’insulina. Quest’ultima permette l’apporto di zuccheri alle cellule sotto forma di energia. In sintesi, più zuccheri mangi, più insulina verrà prodotta. E di conseguenza, un consumo eccessivo di zuccheri altera il livello di insulina nel sangue facendolo aumentare drasticamente. Dopo aver ridotto la combustione del grasso corporeo, il tasso di insulina scende al minimo, causando così, un nuovo attacco di fame. Altra correlazione evidenziata è quella tra il consumo di bevande zuccherate e il diabete di tipo 2. Tuttavia lo zucchero, in sé, non provoca l’insorgenza del diabete, ma ne aumenta il rischio. Uno studio pubblicato nel 2010, condotto su un campione di oltre 300mila persone, ha svelato che i soggetti che consumano 1 o 2 bevande zuccherate al giorno avevano un rischio di sviluppare il diabete maggiore del 26% rispetto a quelli che ne consumano meno o non ne consumano affatto. Ancora una volta, quindi, la raccomandazione è di evitarle. Tra le causa più comuni di morte precoce associate al consumo di bevande zuccherate sono le malattie cardiovascolari. A risentire della dieta ad alto contenuto di zuccheri, anche il cuore aumentando, di conseguenza, il rischio di disturbi cardiovascolari. Scientificamente dimostrato dall’American Heart Association, altresì che, chi segue un’alimentazione ricca di zuccheri può soffrire di malattie cardiache con frequenza significativamente maggiore rispetto a chi ne assume meno. La ricerca dimostra che le persone che bevono abitualmente bevande zuccherate corrono maggiori rischi rispetto a chi le consuma sporadicamente. Le donne poi, sembrano essere più a rischio degli uomini. Non dimentichiamo poi che i batteri presenti nella bocca reagiscono con la sostanza zuccherata ingerita e formano uno strato di placca sui denti: questa reazione provoca il rilascio di un acido che, a lungo andare, danneggia i denti, provocando carie e cavità dentali.
Ma forse è meglio fare un passo indietro per capire quello che si nasconde dietro un alimento tanto contestato.
«Lo zucchero è un glucide composto da una o due unità, i saccaridi, che sono molecole base che compongono i carboidrati. Se ne abbiamo una o due unità abbiamo, appunto, uno zucchero. Gli zuccheri sono gli elementi base dei carboidrati, che possono essere monosaccaridi o zuccheri semplici (come fruttosio, glucosio e galattosio), disaccaridi (come saccarosio, lattosio e maltosio), o polisaccaridi o carboidrati complessi (come amidi e maltodestrine). Quando parliamo di zuccheri parliamo essenzialmente di glucosio e fruttosio».
Ecco perché lo ZUCCHERO potrebbe essere rischioso per la salute
Secondo quanto dimostra un’evidenza scientifica, la lavorazione industriale (estrazione, purificazione o alterazione) dei cosiddetti cibi ultraprocessati costituirebbe un rischio per salute. In particolare lo zucchero è responsabile del 40% dell’aumento di rischio. Catalogati come “nocivi”, parliamo proprio degli zuccheri semplici.
«Quello che davvero è nocivo è lo zucchero nascosto nel cibo raffinato, o aggiunto in modo discrezionale. Lo zucchero si trova nelle bevande gassate, per esempio, in molti prodotti da forno, anche se portano la dicitura ‘senza zucchero’. Nel 2015 le nuove linee guida per una sana alimentazione hanno ridotto dal 15 al 10% la quota quotidiana suggerita di zuccheri semplici a rapido assorbimento rispetto al fabbisogno calorico giornaliero. E una ulteriore riduzione del 5% va ad apportare ulteriori benefici per la salute». «Gli zuccheri si nascondono proprio nelle etichette. Vengono identificati con vari termini, solitamente che finiscono in -osio: glucosio, saccarosio, destrosio, fruttosio, maltosio, lattosio. Ma anche gli sciroppi, come quello di fruttosio, di glucosio, di mais, di caramello, d’agave, d’acero sono zuccheri. O anche gli zuccheri della frutta, ovvero il fruttosio, lo zucchero d’uva, zucchero della mela sono zuccheri».
Dagli effetti dannosi sul nostro corpo ai notevoli benefici di una dieta priva di zuccheri. Infatti, le cellule tumorali si nutrono di glucosio e muoiono in assenza di esso perché, da sole, non riescono a sintetizzare lo zucchero.
«Il fruttosio è metabolizzato quasi esclusivamente dalle cellule del fegato. Un alto contenuto di fruttosio impatta fortemente sulla risposta insulinica, manifestando poi l’insulino-resistenza: l’insulina lavora meno e non è in grado di fare entrare il glucosio nelle cellule che lo metabolizzano e digeriscono. Il glucosio resta così in circolo, creando iperglicemia, fino ad arrivare al diabete di tipo 2, alla steatosi epatica e alla sindrome metabolica, ad uno stato infiammatorio generale dell’organismo».
ZUCCHERO e TUMORE: ecco come ne influenza la nascita
E di conseguenza, stimolando l’infiammazione generale dell’organismo, una dieta ricca di zuccheri potrebbe incrementare l’insorgenza di forme tumorali.
«Certo, un eccessivo consumo di zuccheri può portare, a lungo termine, anche allo sviluppo di alcuni tipi di tumore, perché il tumore si nutre di zucchero. Nel caso di recidive di tumore, infatti, si consiglia proprio l’abolizione di zuccheri a rapido assorbimento». Per contro «Una dieta priva di zuccheri aggiunti abbassa il rischio di tutte queste patologie. Tra gli effetti ci sono anche una pelle più sane e bella, un calo ponderale, un miglioramento del tono dell’umore e delle funzioni cerebrali, ma anche della digestione e dell’assorbimento dei nutrienti, e si hanno meno problemi di gonfiore addominale».
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Fondazione AIRC "Lo zucchero favorisce la crescita dei tumori?"
Il Messaggero "I cibi industriali aumentano il rischio di morte, zucchero responsabile del 40%"
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Prima il lockdown poi lo smart working. Dal Covid alla bilancia: tutte le cattive abitudini che hanno fatto ingrassare gli italiani. Tra le conseguenze di questa pandemia proprio il cambio dello stile di vita. Le limitazioni imposte, in ultimo, con il coprifuoco, il lavoro all’interno delle mura domestiche, la sporadica attività fisica e la maggiore tendenza a dedicarsi alla cucina. È quanto emerge da una analisi di Coldiretti su dati Crea, il centro di ricerca alimenti e nutrizione. Computer, divano e tavola hanno, infatti, allontanato dall’attività motoria e dallo sport il 53% degli italiani. La situazione peggiora poi per le persone obese soprattutto per quelle alle prese con il cosiddetto smart working e in cassa integrazione, che nel 54% dei casi ha registrato un aumento medio di peso di ben 4 Kg, secondo i dati riportati da una ricerca della Fondazione Adi dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica. Insomma, soprattutto in questa fascia della popolazione, il lavoro agile ha favorito l’adozione di comportamenti poco salutari. Da non dimenticare poi che questo fenomeno si verifica in un Paese dove peraltro più di un terzo della popolazione italiana adulta è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%) con il 45,1%. Il rischio obesità non risparmia neanche bambini e adolescenti duramente provati dal lockdown. In Italia si stimano – conclude la Coldiretti – circa 2 milioni e 130 mila bambini e adolescenti in eccesso di peso, pari al 25,2% della popolazione di 3-17 anni secondo l’Istat.
Le vere causa dell'obesità
Dal 1980 ad oggi l’obesità nel mondo è più che raddoppiata. Questa la rivelazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Gli adulti in sovrappeso raggiungono il 39% e gli obesi sono il 13%. Secondo le più recenti stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, 2017) il 65,1% della popolazione adulta degli Stati Uniti ha un problema di eccesso di peso e tra questi, quasi la metà è obesa. L’epidemia dell’obesità si è diffusa negli ultimi decenni anche in Europa. A peggiorare un quadro già drammatico gli ultimi mesi della pandemia. Dal lockdown al coprifuoco, passando per mesi di smart working e quasi totale assenza di attività motoria. Un fattore che ha senza dubbio peggiorato la situazione delle persone obese o in sovrappeso, costrette a casa tra lavoro e Dpcm.
L’obesità è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come «l’epidemia del XXI secolo». Inoltre, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come «un’epidemia estesa a tutta la regione europea» poiché circa la metà della popolazione adulta è in sovrappeso ed il 20-30 % degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso. Rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo, sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena) con progressiva aterosclerosi, aumentato rischio di eventi cardio/cerebrovascolari e tumori. Sovrappeso e obesità sono responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive tra gli adulti; sono condizioni associate a morte prematura e ormai universalmente riconosciute come fattori di rischio per le principali malattie croniche. L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi) con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie nei depositi di tessuto adiposo. E’ causata nella maggior parte dei casi da stili di vita scorretti: da una parte, un’alimentazione non equilibrata e ipercalorica e dall’altra un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica. L’obesità è quindi una condizione ampiamente prevenibile. Un’emergenza socio-sanitaria quella dell’obesità che sia l’OMS che l’European Association for the Study of Obesity ha ripetutamente evidenziato. Inoltre, non dimentichiamo che questa malattia, «potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di 10 anni» sostiene Andrea Lenzi, presidente Health City Institute e del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Via della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Obesità e ipertensione arteriosa
Sovrappeso e obesità affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minor reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette e si accompagna dunque alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso. Un problema particolarmente grave è quello dell’insorgenza dell’obesità tra bambini e adolescenti, esposti fin dall’età infantile a difficoltà respiratorie, problemi articolari, mobilità ridotta, ma anche disturbi dell'apparato digerente e di carattere psicologico. Inoltre, chi è obeso in età infantile lo è spesso anche da adulto: aumenta quindi il rischio di sviluppare precocemente fattori di rischio di natura cardiovascolare (ipertensione, malattie coronariche, tendenza all’infarto) e condizioni di alterato metabolismo, come il diabete di tipo 2 o l’ipercolesterolemia - evidenzia Andrea Urbani Ministero della Salute, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria.
Una corretta strategia di prevenzione del sovrappeso e dell’obesità rientra nell’ambito più generale della prevenzione e controllo delle patologie croniche nel loro complesso. E’ importante perseguire un approccio di promozione della salute e di sensibilizzazione dei soggetti con incremento ponderale sui vantaggi collegati all’adozione di stili di vita sani, in una visione che abbracci l’intero corso della vita. Inoltre, il rapporto dell’Italian Diabetes & Obesity Barometer evidenzia tra gli altri, due aspetti su cui porre particolare attenzione. In primo luogo, la persistente ed elevata prevalenza di obesità e sovrappeso tra i bambini la cui salute rischia di essere seriamente compromessa dall’aumento dei fattori di rischio. Su questo aspetto l’Italia si colloca tra i paesi europei con la più elevata prevalenza. La raccomandazione, a livello nazionale, è quella di seguire stili alimentari adeguati, riducendo il consumo di alimenti ricchi di zuccheri e promuovendo un maggiore consumo di frutta e verdura, oltre a sensibilizzare le industrie alimentari verso la produzione di alimenti più sani ed equilibrati. In secondo luogo, il rapporto documenta ampiamente come la prevalenza di obesità sia fortemente associata a condizioni di svantaggio socioeconomico. I dati relativi alle diseguaglianze sociali nell’alimentazione e nell’attività fisica concorrono a indicare che la maggior parte delle abitudini insalubri sono inversamente correlate con il livello di istruzione e la classe sociale.
(Fonte: Il Sole 24Ore)
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il numero di persone obese nel mondo è raddoppiato a partire dal 1980: nel 2014 oltre 1,9 miliardi di adulti erano in sovrappeso, tra cui oltre 600 milioni obesi. Nella Regione Europea dell’Oms, nel 2013, oltre il 50% della popolazione adulta era in sovrappeso e oltre il 20% obesa. Dalle ultime stime fornite dai Paesi Ue emerge che il sovrappeso e l’obesità affliggono, rispettivamente, il 30-70% e il 10-30% degli adulti. Si ritiene che l’obesità sia responsabile del 10-13% dei decessi. Ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile della perdita di 12 milioni di Dalys (anni di vita in salute persi per disabilità o morte prematura). In Italia, secondo il rapporto Osservasalute 2016 (che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana”) emerge che, nel 2015, più di 1/3 della popolazione adulta (35,3%) era in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%); complessivamente, il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni risultava in eccesso ponderale. Le differenze sul territorio confermano un gap Nord-Sud in cui le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone maggiorenni obese (Molise 14,1%, Abruzzo 12,7% e Puglia 12,3%) e in sovrappeso (Basilicata 39,9%, Campania 39,3% e Sicilia 38,7%) rispetto a quelle settentrionali (obese: PA di Bolzano 7,8% e Lombardia 8,7%; sovrappeso: PA di Trento 27,1% e Valle d’Aosta 30,4%). La percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età e, in particolare, il sovrappeso passa dal 14% della fascia di età 18-24 anni al 46% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità passa, dal 2,3% al 15,3% per le stesse fasce di età. Inoltre, la condizione di eccesso ponderale è più diffusa tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44% vs 27,3%; obesità: 10,8% vs 9%).
Nel 2017 in Italia, sono circa 15 milioni le persone di 18 anni e più che praticano nel tempo libero uno o più attività sportive (29,7% della popolazione di riferimento, di cui il 20,2% con continuità e il 9.5% saltuariamente). Circa il 29% della popolazione (14,8 milioni persone), pur non praticando uno sport, svolge un’attività fisica (come fare passeggiate di almeno due km, nuotare, andare in bicicletta o altro). I sedentari, ovvero coloro che non praticano alcuno sport e nemmeno attività fisica nel tempo libero, sono oltre 20 milioni e 400 mila, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più. Rispetto al 2001 la pratica sportiva è in aumento sia per gli uomini (da 32,1% a 36%) sia per le donne (da 18,8% a 23,9%) e, seppure in maniera differenziata, in tutte le classi di età. Il fenomeno appare ancor più critico se si considera la quota di popolazione adulta che, come suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, svolge almeno 150 minuti a settimana di attività fisica moderata o intensiva, ovvero i livelli considerati adeguati nella popolazione adulta per mantenersi in buona salute. Nel nostro Paese solo il 18,3% della popolazione adulta pratica attività fisica. «La sua diffusione “epidemica” favorisce l’incremento della prevalenza di svariate note patologie come diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemie che contribuiscono alla rilevante mortalità per patologie cardio e cerebrovascolari, prima causa di morte nella popolazione italiana» spiega Giuseppe Malfi, presidente Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (A.D.I.). L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico e spesa energetica con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto adiposo. L’obesità è una patologia eterogenea e multifattoriale, al cui sviluppo concorrono sia fattori ambientali che genetici (geni che si sono evoluti in ere di scarsità di cibo). A livello mondiale, l’OMS stima che circa il 58% del diabete mellito, il 21% della malattie coronariche e quote comprese tra l’8% ed il 42% di certi tipi di cancro sono attribuibili all’obesità. A queste vanno aggiunte, la sindrome delle apnee notturne (che aumenta il rischio di morte improvvisa per aritmia), artrosi, calcolosi della colecisti, infertilità e depressione. Per queste ragioni l’obesità contribuisce in modo molto significativo allo sviluppo delle malattie non trasmissibili (NCDs) che causano nel nostro paese il 92% di morti e più dell’85% di anni persi per disabilità. Si tenga presente che un obeso grave riduce la propria aspettativa di vita di circa 10 anni ma ne passa ben venti in condizioni di disabilità. E se oggi metà della popolazione è in sovrappeso o obesa, le proiezioni dell’OMS per il 2030 danno un quasi raddoppio della prevalenza di obesità che sommata al sovrappeso costituirà circa il 70% della popolazione.
Insomma, la continua crescita della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità è causa di serie preoccupazioni in tutte le regioni del mondo, e il fenomeno si configura sempre più come pandemia globale. In base alle stime dell’OMS, nel 2017 il sovrappeso e l’obesità sono stati responsabili di 4,72 milioni di decessi e di 148 milioni di anni vissuti con disabilità. Fra le cause di morte, l’eccesso ponderale è passato dal 16° posto nel 1990 al 7° posto nel 2007, fino a raggiungere il 4° posto nel 2017, preceduto soltanto da ipertensione, fumo e iperglicemia. Si stima che nel mondo ci siano oggi 2.1 miliardi di persone in sovrappeso o obese, circa il 30% della popolazione mondiale. Se l’andamento in crescita del fenomeno resterà immodificato, nel 2030 circa la metà delle persone nel mondo avrà un eccesso ponderale, con drammatici risvolti clinici, sociali ed economici. Stando ai dati riportati in un rapporto Istat, è pari al 44,9% la popolazione di 18 anni (o più) in eccesso di peso (34,1% in sovrappeso, 10,8% obeso). Il 64,7% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno: il 51,7% beve vino, il 47,8% consuma birra e il 43,2% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori. Inoltre, 20.400.000mila persone, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più, dichiarano di non praticare sport né attività fisica nel tempo libero. Elevate le differenze di genere: è sedentaria la metà delle donne contro un terzo degli uomini. Giusto per completare il quadro, in un Paese con una legge anti-fumo e con pubblicità sui pacchetti di sigarette che dovrebbero indurre a smettere o a non cominciare, nel 2016 il 19,8% della popolazione di 14 anni e più dichiara di essere fumatore (circa 10.400.000mila persone), il 22,6% di aver fumato in passato e il 56,1% di non aver mai fumato. Quindi ancora vincono gli stimoli per cattivi stili di vita. La diffusione dell’obesità tra bambini e ragazzi è un fenomeno che si sta diffondendo e sta caratterizzando non soltanto l’Italia e i Paesi europei, ma anche tutti i Paesi del resto del mondo, ad una velocità diversa a seconda del Paese e seguendo differenti modelli di sviluppo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, attualmente, più di 30 milioni di bambini in eccesso di peso. In Italia, si stima siano circa 1.700.000mila i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso pari al 24,2% della popolazione di 6-17 anni (media 2016-2017)4. Rispetto al biennio 2010-2011 si osserva una lieve tendenza alla diminuzione del fenomeno, sebbene le differenze non risultino statisticamente significative. Emergono forti differenze di genere: il fenomeno è più diffuso tra i maschi (27,3% vs 20,8% femmine). Tali differenze non sussistono tra i bambini di 6-10 anni, mentre si osservano in tutte le altre classi di età. L’eccesso di peso raggiunge la prevalenza più elevata tra i bambini di 6-10 anni, dove raggiunge il 32,9%. Al crescere dell’età, il sovrappeso e l’obesità vanno tuttavia diminuendo, fino a raggiungere il valore minimo tra i ragazzi di 14-17 anni.
Obesity Monitor "1st Italian Obesity Barometer Report"
La Repubblica "Obesità in crescita in Italia. 23 milioni in sovrappeso: uno su 4 ha meno di 17 anni"
AGI "Lockdown e smart working hanno fatto ingrassare gli italiani: il 44% è in sovrappeso"
Corriere della Sera "Adolescenti obesi (e dipendenti)"
La Repubblica "Obesità in Italia: riguarda il 36% della popolazione tra i 5 e i 19 anni"
Obesity Review "Individuals with obesity and COVID‐19: A global perspective on the epidemiology and biological relationships"
La Repubblica "L’obesità raddoppia il rischio di ricovero per Covid 19"
JAMA Network "Large Meta-analysis Digs Into Obesity’s COVID-19 Risks"
Fanpage "L’obesità può aggravare l’infezione da coronavirus nei giovani"
La Stampa "Scatta l’allarme obesità: è la regina di ogni malattia eppure la sottovalutiamo"
Agi " Gli obesi sono più a rischio Coronavirus "
OK Benessere e Salute " Obesità: in Italia un morto ogni 10 minuti. Serve una svolta "
OK Benessere e Salute " Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono" "Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono "
Società Italiana Obesità (SIO)
Società Italiana di chirurgia dell'Obesità e delle Malattia Metaboliche (SICOB.)
Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)
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300mila italiani, soprattutto donne (7 su 10), soffrono di artrite reumatoide e ogni anno si registrano 5mila nuovi casi. Comune tra i 40 e i 70 anni, sebbene il picco di comparsa dei primi sintomi avvenga tra i 35 e i 45 anni. Tuttavia, durante l’inverno dolori e fastidi si accentuano ancor più. Tra le categorie più a rischio ci sono anche le persone obese o in sovrappeso, questo perché l’aumento di peso sovraccarica le articolazioni aumentando il rischio di infiammazione. Per quanto riguarda i segni poi, tra i principali da non trascurare: dolore persistente alle articolazioni (colpisce spesso le giunture di mani e piedi), talvolta accompagnato da gonfiore, in particolare di notte e al mattino, per poi attenuarsi nel corso della giornata. Talvolta i sintomi di questa patologia possono essere intermittenti, manifestarsi con diversi gradi di intensità o rimanere latenti anche per anni per poi peggiorare nel tempo. Controllo della malattia e riduzione dei sintomi, in altre parole: remissione. Uno spiraglio in fondo al tunnel per almeno la metà dei malati, soprattutto quando la diagnosi è precoce. Difatti, come dimostrano le recenti evidenze scientifiche, con l'inizio delle cure entro un anno dalla comparsa dei primi sintomi, controllare la patologia è un traguardo raggiungibile per il 50-60% dei pazienti. Fondamentale è quindi diagnosticarla e intervenire tempestivamente, come già detto, entro un anno dalla comparsa dei primi sintomi. Acuta o cronica è senza dubbio, la più nota è quella reumatoide. Un’infiammazione che colpisce un gran numero di persone che si trovano alle prese con dolore, gonfiore, arrossamento della cute e rigidità articolare. Valido alleato contro questa nemica comune: l’alimentazione. Come suggerito dal dottor Gianfrancesco Cormaci, specialista in biochimica clinica «il regime alimentare previsto per alleviare questi sintomi è la dieta antinfiammatoria che si basa essenzialmente sui cibi ad alto contenuto di antiossidanti, polifenoli, carotenoidi, acidi grassi omega 3, cibi a basso indice glicemico». In questo regime alimentare viene favorito anche l’utilizzo dell’olio extravergine di oliva come principale fonte di grassi ed è altresì consigliata la riduzione o la minimizzazione dei carboidrati raffinati, fast food, bevande alcoliche e bevande zuccherate.
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Una dieta a ridotto contenuto infiammatorio è associata a una maggiore perdita di peso, riduzione dell’infiammazione, migliori prestazioni fisiche e minore dolore articolare. Difatti, nei pazienti con artrite reumatoide che seguivano lo stile alimentare consigliato si riscontravano la riduzione del dolore e il miglioramento delle funzioni fisiche rispetto a quelli che non seguivano una dieta a basso contenuto infiammatorio. Ad oggi si contano più di 100 tipologie di artrite, che possono colpire persone di ogni età e di entrambi i sessi, anche se una maggior incidenza si riscontra negli anziani e nelle donne. Tra le più note ci sono sicuramente l’osteoartrite e l’artrite reumatoide. Le meno comuni sono, invece, la fibromialgia, il lupus eritematoso sistemico, la gotta, l'artrite psoriasica, ecc.
L'artrite reumatoide può essere curata e tenuta sotto controllo e ora persino fermata prima che porti alla progressiva perdita di funzioni fondamentali che comportano, negli anni, l’invalidità dei pazienti» precisa Luigi Sinigaglia, past president della Società Italiana di Reumatologia. «Noi specialisti - prosegue l’esperto - abbiamo a disposizione cure efficaci, messe a punto negli ultimi 15-20 anni, che possono consentire in un’elevata percentuale di casi la remissione completa: che significa permettere al paziente di fare una vita normale». «l problema resta – sottolinea Senigallia -, però, la diagnosi precoce che, nel nostro Paese, può avvenire anche uno o due anni dopo la comparsa dei primi sintomi. Oggi riusciamo a raggiungere la remissione nel 50-60% dei pazienti se la malattia viene diagnosticata tempestivamente, ovvero entro un anno dalla comparsa dei primi sintomi. Sfruttando la cosiddetta “finestra di opportunità”, quella fase cioè che intercorre tra l'esordio della patologia e l'instaurarsi di danni irreversibili, in cui è fondamentale iniziare con il corretto trattamento farmacologico per garantire maggiori possibilità di remissione e migliori risultati clinici.
L’inverno è la stagione in cui le malattie reumatiche si accentuano.
Le malattie reumatiche sono una grossa famiglia di patologie che comprende sia malattie di degenerazione articolare, come l’artrosi, sia malattie più infiammatorie, in cui l’infiammazione precede il danno articolare. L’infiammazione, per definizione, tende a migliorare con le temperature più calde o con l’utilizzo dell’articolazione interessata» spiega a Obiettivo salute su Radio24, Carlo Selmi, responsabile di Reumatologia e Immunologia clinica di Humanitas. Certamente – precisa Selmi -, il peggioramento durante l’inverno è più comune nei pazienti con artrosi, quel dolore più meccanico che può colpire ginocchia, pollice e alluce e che aumenta proprio con il freddo». Tra le parti più colpite, indubbiamente le nostre mani. «Le mani sono estremamente importanti in Reumatologia – continua -, la temperatura fredda può causare, per esempio, il fenomeno di Raynaud, una costrizione dei vasi che porta le dita di mani o piedi a diventare prima bianche, poi blu, poi rosse; un disturbo frequente soprattutto nelle giovani donne». «Le mani – sottolinea l’esperto - sono poi spesso sede sia di artrite sia di artrosi ed è tipica la manifestazione più iniziale dell’artrite reumatoide a livello delle articolazioni delle mani. Quello che distingue queste due condizioni è il tipo di dolore: nel caso dell’artrite il dolore migliora con l’uso dell’articolazione, mentre nel caso dell’artrosi è l’esatto opposto e dunque l’uso delle articolazioni – per scrivere o per afferrare qualcosa – porterà a un aumento del dolore». Non dimentichiamo un altro grande fastidio che ci accompagna nella stagione fredda: il mal di schiena. «Nel caso del mal di schiena oltre al problema articolare, contribuisce anche la componente muscolare; in questo senso il freddo è un pessimo compagno di viaggio per quanto riguarda le contratture muscolari che possono essere alla base di alcuni mal di schiena, soprattutto in regione cervicale.
Partendo da presupposto che il peggioramento di queste patologie avviene sicuramente nei mesi invernali, ci sono anche altri tre fattori che incidono e che contribuiscono al peggioramento. Primo tra tutti, la scarsa attività fisica con conseguenze sia per l’aumento di peso che per la dimensione immunologica. Seguita poi da una sporadica esposizione ai raggi solari, e quindi, a un minor assorbimento di vitamina D, causa di un aumento dell’infiammazione locale. E per ultimo, ma non per importanza, anche insonnia e disturbi del sonno che favoriscono anch’esse stati infiammatori all’interno dell’organismo. Inoltre, le artriti provocano un senso di affaticamento, astenia e stanchezza.
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Se non opportunamente trattata questa malattia può avere un pesante impatto negativo sulla vita dei pazienti, oltre ad essere fortemente invalidante – sottolinea Silvia Tonolo, presidente ANMAR –. Per le ripercussioni sulla sfera personale e di relazione, un paziente su due ritiene addirittura di sentirsi escluso dalla società. C’è quindi un gran bisogno di un corretto percorso diagnostico terapeutico per questi pazienti che si basi su diagnosi precoce e tempestiva, presa in carico e appropriatezza terapeutica: sono fondamentali per garantire la remissione dalla malattia che dev’essere un obiettivo, non una speranza. Sappiamo che remissione non significa guarigione e che il mantenimento della stessa è subordinato alla continuità terapeutica e all’aderenza alle cure, ma da pazienti sappiamo altrettanto bene che quando i sintomi della patologia non interferiscono con la possibilità di vivere una vita attiva e normale l’effetto è positivo sia da un punto di vista fisico, che psicologico. Ecco perché noi pazienti, insieme al nostro reumatologo dobbiamo prenderci cura ogni giorno di noi stessi.
L’artrite reumatoide è una patologia infiammatoria cronica autoimmune che attacca i tessuti articolari di una persona il cui sistema immunitario, invece di proteggere l’organismo dagli agenti esterni come virus e batteri, si attiva in maniera anomala contro di esso» spiega al Corriere della Sera Roberto Gerli, presidente della Società Italiana di Reumatologia. «Sin dagli esordi – continua l’esperto -, la malattia si manifesta in maniera subdola, variabile, graduale o acuta, presentando dolore e tumefazione inizialmente alle articolazioni di mani e piedi, associati a rigidità al risveglio». «Con il tempo, l’infiammazione può coinvolgere potenzialmente ogni distretto dell’organismo (come polmoni, reni, cuore, sistema nervoso, vasi sanguigni, occhi) divenendo sistemica. La prognosi della malattia è decisamente migliorata a partire dagli anni '80, ma enormi progressi sono stati fatti negli ultimi 20 anni. Siamo passati dal sollievo sintomatico al rallentamento, o alla prevenzione, di ulteriori danni, fino alla possibilità di ottenere la remissione.
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Oggi, l’innovazione terapeutica continua a fornire opzioni in grado di cambiare l’evoluzione dell’artrite reumatoide, [...] che saranno sempre più in prima linea per il trattamento precoce di questa patologia volto a raggiungere l’obiettivo della remissione clinica. Utili pure a raggiungere il traguardo della remissione, condizionato da una stretta collaborazione fra paziente e medico» evidenzia il presidente della Società Italiana di Reumatologia. «Oltre all’inizio precoce del trattamento, è necessario uno stretto monitoraggio del paziente, con frequenti visite specialistiche, al fine di “misurare” il grado della risposta alla terapia - conclude Sinigaglia -. Attualmente, a fronte dell’ondata che ha investito gli ospedali legata all’emergenza Covid-19, molti pazienti hanno visto rinviare esami di controllo e visite con gli specialisti, ma ci sono prestazioni e terapie che non possono essere considerate differibili, con l’inevitabile effetto di un peggioramento del quadro clinico che, oltre a compromettere la possibilità di regressione, provoca anche un incremento dei costi sanitari e sociali - conclude Gerli.
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PubMed "The Effect of Vitamin D Supplementation in Elite Adolescent Dancers on Muscle Function and Injury Incidence: A Randomised Double-Blind Study"
MDPI "Vitamin D and Sport Performance"
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+ 25%. Dalla prima alla seconda ondata. Unico comun denominatore il netto peggioramento della qualità del sonno. Lo rivela l’indagine di un gruppo di psicologi dell’Università di Roma Sapienza, guidati da Maria Casagrande del Dipartimento di psicologia clinica e dinamica. Secondo i dati mostrati dallo studio, pubblicato sulla rivista Sleep Medicine, ci si è spostati da una prevalenza di disturbi del sonno nella popolazione dal 30% a oltre il 55% e sono, al tempo stesso, aumentati anche stress e disturbi d’ansia. Una catena di patologie senza fine. La ricerca ha effettuato un confronto tra i dati rilevati attraverso un questionario somministrato online a circa 2.300 persone di età superiore a 18 anni e i dati epidemiologici di base.
I risultati della nostra ricerca dimostrano che c’è stato un peggioramento delle condizioni psicologiche durante lo stato di emergenza» spiegano gli autori dello studio. «Anche se è impossibile capire se i risultati sono attribuibili alla paura dell’epidemia o alle misure restrittive – evidenziano i ricercatori -, alcune caratteristiche del nostro campione sono risultate maggiormente in relazione a peggiori condizioni psicologiche: l’età più giovane, il sesso femminile, il timore di aver contratto l’infezione o aver avuto un contatto diretto con persone infettate. Chi aveva queste caratteristiche mostrava maggiori probabilità di sviluppare problemi connessi al sonno, sintomi d’ansia e stress psicologico, proprio come è già stato osservato in studi precedenti realizzati in corso di epidemia Covid-19 o SARS.
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Non solo i postumi del lockdown che sembra essere stato particolarmente difficile il momento dell’addormentamento, la cosiddetta latenza del sonno. Così, di conseguenza, l’indomani, molte persone hanno lamentato di non «funzionare» al meglio, come capita quando non si riposa a sufficienza. «Abbiamo anche riscontrato differenze territoriali, con una peggior qualità del sonno nelle aree del nord Italia, che corrispondevano a quelle in cui le condizioni erano peggiori e c’era il maggior numero di decessi» prosegue l’équipe di ricercatori. E infatti molte ricerche precedenti hanno documentato l’importanza del sonno nel ristabilire funzioni neurocomportamentali e psicologiche, come la regolazione delle emozioni, il tono dell’umore, l’ansia. E disturbi psichici come il Disturbo post-traumatico da stress (Ptsd) e altre forme correlate allo stress sono significativamente associate con un peggioramento della qualità del sonno, che a sua volta influenza negativamente il livello di soddisfazione della vita, la salute, gli aspetti correlati al benessere sociale ed emotivo. È per questo che riteniamo che studiare la qualità del sonno in corso di pandemia Covid-19 sia un elemento critico al fine di valutare il livello di benessere della popolazione italiana». Insomma, paura, stress e, dulcis in fundo, il coprifuoco hanno scombussolato il nostro metabolismo con notevoli conseguenze tra cui anche la mancanza di sonno. «Vivere in una con dizione di forte stress può compromettere la qualità del sonno» scrive in un post su Instagram Sara Parizzi, psicologa ed educatrice presso la Neuropsichiatra infantile di Fidenza (PR).
“Non ho chiuso occhio” o “non riesco a prendere sonno”, “dormo male” oppure “mi sveglio continuamente”. Queste tra le frasi principale che ormai da mesi sentiamo ripetere, come da rituale, ogni mattina da quando è esplosa l’emergenza. Un risveglio traumatico e per niente rilassante quello a cui vanno in contro ogni mattina gli italiani. Aumentano sempre più le persone che si alzano dal letto poco riposati o ancora assonnati e a peggiorare la situazione, l’attuale pandemia e il coprifuoco degli ultimi mesi. Lo stress e l’assenza di stimoli, una vita sociale sempre più limitata e la preoccupazione per il lavoro incidono negativamente sul nostro sonno e, più in generale, sulla nostra salute. In ultimo, il coprifuoco a cambiare il nostro stile di vita e le nostre abitudini, gli orari della routine quotidiana compreso il nostro orologio biologico che continua ad essere il bersaglio perfetto delle nostre giornate stressanti alle prese con il mare magnum di notizie. Sono questi i principali fattori che, fra gli altri, rappresentano una minaccia alla buona qualità del sonno. Aspetto da non sottovalutare è quello dovuto al rallentamento, o addirittura, alla cessazione, di ogni attività motoria. Tra gli altri “nemici del sonno” anche i dispositivi elettronici che, finito il tempo dello smart working, ci inchiodano agli schermi con l’intento di trovare un passatempo tra le mura domestiche. Attività che peraltro hanno l'effetto di annullare ogni sorta di rilassamento: l'iperstimolazione che il cervello subisce durante il giorno, unita alla luce blu dei device elettronici, riduce la produzione della melatonina, l'ormone che stimola il sonno.
Un disturbo patologico che colpisce più gli adulti che i ragazzi, in questa nuova ondata di coronavirus l'insonnia sta facendo contare numeri importanti. «Molte persone - aggiunge Francesco Fattirolli, direttore della struttura organizzativa dipartimentale di riabilitazione cardiologica dell’Università di Careggi - ci dicono di avere problemi del sonno che è inquieto e disturbato. Ma ci raccontano anche di timori e di senso di paura». Sono diversi i fattori che influiscono sulle sue cause e, di conseguenza, hanno l'effetto di innescare maggiore stress. Tuttavia, dormire bene è possibile. Una condizione che poi si accentua ancor più d’inverno. Difatti, «quando fa freddo – si legge nell’intervista a Vanity Fair - facciamo fatica a prendere sonno perché il nostro corpo non riesce a scaldare facilmente le zone periferiche, soprattutto mani e piedi» spiega a Vanity Fair, Sara Montagnese, professore di Medicina all’Università di Padova. Umore, lucidità mentale, energie e performance: il sonno è indispensabile e quando scarseggia ne paghiamo le conseguenze. Dalle notti passate a rotolarsi nel letto, ai risvegli all’insegna della stanchezza. E poi, la quantità non coincide quasi mai con la qualità. Soprattutto in questo caso. Dormire non significa riposare bene, con un sonno costante e senza interruzioni. Proprio per questo, e ancor più, per il benessere del nostro organismo, l’importante e svegliarsi riposati, al mattino, e con la giusta energia per affrontare la giornata. Per contrastare insonnia e disturbi del sonno è fondamentale un buon alleato: scegliere la corretta integrazione per regolarizzare e facilitare la fasi del sonno. Tra i rimedi naturali per il corretto riposo c’è proprio la melatonina. Una molecola naturale antichissima (la sua evoluzione risale a 3 miliardi di anni fa), prodotta dalla ghiandola pineale (epifisi), allocata nell’encefalo, a forma di pigna e presente in qualsiasi organismo animale o vegetale. La sua principale funzione è quella di regolare il ritmo circadiano, laddove l’alternarsi del giorno e della notte inducono variazioni dei parametri vitali.
Non dimentichiamoci poi di ansia e stress. Deleterie per il nostro benessere psicofisico poiché influenzano negativamente l’energia mentale di ogni individuo oltre alla salute del corpo stesso. A complicare un quadro già critico anche le tante faccende da sbrigare e le mille cose da pianificare nei giorni che precedono la festività.
Ogni volta che c’è un cambio di stagione potrebbero manifestarsi una serie di disturbi, che possono compromettere la qualità della vita quotidiana. Spesso si parla di disordine affettivo stagionale che si manifesta con malessere e stress. Sono diverse le cause che potrebbero celarsi dietro la stanchezza del cambio di stagione, tra cui l’alterazione della serotonina e della melatonina, dovute alle modifiche nell’alternanza tra luce e buio» evidenzia Christian orlando, biologo e nutrizionista. «Comunque – suggerisce Orlando - ci sono dei semplici rimedi che possono aiutare a vivere meglio il cambio di stagione, è importante assumere vitamine del gruppo B che supportano il nostro metabolismo energetico, la vitamina C perché contribuisce a ridurre stress e affaticamento e la melatonina importante per ritrovare il giusto equilibrio sonno-veglia. E’ importantissimo anche idratare l’organismo, che ha bisogno di eliminare le tossine e le scorie accumulate inoltre anche una leggera attività fisica è utile per rilassare la mente.
Partendo dalla definizione universalmente riconosciuta, per stress si intende una reazione che si manifesta quando una persona percepisce uno squilibrio tra le sollecitazioni ricevute e le risorse a disposizione. Si tratta, precisamente, di una sindrome generale di adattamento (SGA) atta a ristabilire un nuovo equilibrio interno (omeostasi) in seguito a fattori di stress (stressors). Le alterazioni dell'equilibrio interno possono avvenire a livello endocrino, umorale, organico, biologico. Sugli eventi cosiddetti 'stressori' apre una parentesi anche Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni - Le verità che nessuno vuole raccontarti:
Sicuramente poche, ma siamo bombardati da eventi stressori che attivano, pur non volendo, il medesimo meccanismo. Se, infatti, nel passato, l’ambiente circostante attivava la nostra reazione definita “combatti o scappa” una volta al giorno, oggi esistono centinaia di stimoli quotidiani che attivano tale meccanismo, facendoci vivere una vita stressata e sempre sul chi va là.
Corrriere della Sera "Gli effetti sul sonno della pandemia"
Il Messaggero "Covid: stanchezza, affaticamento e insonnia. Gli strascichi della malattia nello studio del Careggi"
Il Giornale "Coronavirus e insonnia: cosa fare per dormire meglio"
The italian times "Insonnia: cause e rimedi per curare ansia e stress da mancanza sonno!"
Plos Biology "A bidirectional relationship between sleep and oxidative stress in Drosophila"
Vanity Fair "INSONNIA E PROBLEMI COL SONNO: ECCO COSA FARE SE NON RIESCI A DORMIRE"
La Repubblica "Dormire poco fa male al cuore"
Plos Biology "Broken sleep predicts hardened blood vessels"
Fondazione Veronesi "Insonnia: se dormi male anche il cuore rischia"
La Repubblica "Anziani, se troppo sonno diventa la spia di diabete e problemi di cuore"
Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"
La Repubblica "Coronavirus: irritabilità, insonnia e paura per il 70% dei ragazzi"
Io Donna "Post lockdown: 6 bambini su 10 mostrano ansia, irritabilità e disturbi del sonno"
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Dall’alterazione del collagene allo scorbuto, la malattia del passato si riaffaccia nel mondo occidentale. Prende il nome di scorbuto la patologia che deriva dalla carenza di vitamina C. Situazione in cui il collagene, presente nell’organismo, diviene instabile e poco efficiente minando la funzionalità di altri enzimi presenti nel nostro corpo. Macchie cutanee e sanguinamento, gengive "spugnose", crescita dei capelli "a cavatappi" e scarsa guarigione delle ferite tra i principali sintomi di questo deficit vitaminico. Ma anche lesioni cutanee, soprattutto sulle cosce e gambe, pallore, depressione e sporadica attività motoria. Nello scorbuto allo stato avanzato si manifestano poi anche ferite suppuranti, caduta di denti e diverse anomalie ossee. Tra i principali sintomi debolezza, confusione, esaurimento fisico, scarso appetito (che può trasformarsi anche in anoressia), letargia, irritabilità, dolori alle gambe, anemia, gengivite, ematomi, carie, dolori articolari, dolori muscolari, caduta dei capelli, pelle secca, sensibilità alla luce, sbalzi d’umore, depressione, sanguinamento gastrointestinale e mal di testa. Tuttavia è possibile trattarlo attraverso l’integrazione di acido ascorbico. Oltre all’integrazione di vitamina C, è importante modificare anche lo stile di vita necessario a garantire un’assunzione adeguata della vitamina.
VITAMINA C, un concentrato di proprietà e benenfici
Definito da Ippocrate come “ileo ematite”, lo scorbuto è conosciuto anche come "il morbo dei marinai" o "la malattia dei pirati”. Premesso che le riserve di vitamina C del corpo umano sono limitate e si esauriscono entro 1–3 mesi, lo scorbuto era comune tra gli equipaggi impegnati nelle lunghe traversate oceaniche, e quindi, non avevano scorte alimentari fresche e sufficienti. Verso la fine del 1700, la marina britannica sapeva che lo scorbuto poteva essere curato consumando arance e limoni, oggi invece, sappiamo che lo scorbuto può essere evitato assumendo quotidianamente vitamina C. Ampiamente dimostrata, inoltre, l’associazione tra la carenza di vitamina C e le aree a basso status socioeconomico. Tra gli altri fattori di rischio di questa carenza possiamo includere alcolismo, dieta squilibrata, fumo, disturbi alimentari, diabete del tipo 1, disturbi del tratto gastrointestinale (come ad esempio il morbo di Crohn, la celiachia), obesità, febbre alta, infiammazioni e invecchiamento.
Più volte ci siamo soffermati sugli aspetti deficitari della nostra alimentazione e sull'importanza di integrare la propria dieta con degli specifici micronutrienti. Insomma, lo scorbuto è una malattia dovuta a carenza alimentare o a insufficiente assorbimento intestinale di vitamina C, caratterizzata da un estremo deperimento dell'organismo, oltre che da manifestazioni emorragico-ulcerose della cute, delle mucose e degli organi interni. E anche se in passato colpiva i marinai o comunque le categorie più disagiate, oggi torna nei Paesi ricchi a causa della cattiva alimentazione. Già qualche anno fa un gruppo di ricercatori australiani ha raccontato su Diabetic Medicine di 11 casi di scorbuto, diagnosticati in pazienti diabetici la cui dieta era particolarmente povera di frutta e verdura. Infatti pochi sanno che tra le altre cause compare anche un’alimentazione squilibrata poiché una carenza di vitamina C superiore ai tre mesi porta a questa malattia. Inoltre, lo scorbuto può portare persino alla morte: il nostro corpo, alle prese con una grave carenza, non riesce né a produrre né a stoccare l’acido ascorbico e la mancanza di questa vitamina può portare a gravi conseguenze.
Nella figura il meccanismo schematico in cui una IA di vitamina C potrebbe modulare funzioni specifiche dei neutrofili (ROS e TNFα, mediata da IL-1β), inibendo le vie coinvolte nella formazione della trappola extracellulare dei neutrofili (NETosis) e riducendo la produzione incontrollabile di citochine infiammatorie nell'alveolare spazio. Potenziali effetti sulla riduzione della produzione di citochine sono stati ipotizzati anche nei linfociti e nei macrofagi. ROS, specie reattive dell'ossigeno; NFkB, fattore di trascrizione nucleare kappa B; ┴, stimolo di inibizione; freccia tratteggiata, effetto o produzione ridotti.
Necessaria per numerosi processi di idrossilazione catalizzati da alcune ossigenasi (enzimi), la vitamina C supporta tantissime funzioni importanti per la nostra salute:
La gazzetta del Mezzogiorno "Lo scorbuto, malattia del passato, nota come morbo dei marinai"
Affari Italiani "Scorbuto, allarme. Poca vitamina C e ci si ammala di scorbuto. Rischio morte"
La Stampa "Così lo “scorbuto” dei marinai del ’500 venne sconfitto con gli agrumi"
Frontiers in Immunology “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19”
PubMed "Evolution and the need for ascorbic acid"
MDPI "Vitamin C and Immune Function"
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Ebbene si! Esiste un’alimentazione in grado di prevenire una lunga serie di condizioni infiammatorie. «Una dieta ‘preventiva’ di tutte le condizioni patologiche figlie del benessere, come il diabete, l’obesità, le patologie cardiovascolari, ma anche il cancro: per questo più che di dieta antinfiammatoria si dovrebbe parlare di stile di vita antinfiammatorio» spiega a Gazzetta Act!ve Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e RAF First Clinic di Milano. «Lo stesso Covid-19 – prosegue l’esperta - ha alla base un processo infiammatorio. Un processo che può essere bloccato attraverso una dieta che sia però uno stile alimentare continuo, non un regime che si segue per un breve periodo e poi si abbandona» sottolinea. «Alla base ci sono quegli alimenti che vanno a contrastare i processi infiammatori innescati dallo squilibrio tra citochine pro-infiammatorie e citochine anti-infiammatorie. Ritrovando l’equilibrio si spegne l’infiammazione a livello cellulare». «In realtà ci sono stati infiammatori silenti, asintomatici. Ma se soffriamo di stipsi o di gastrite, per esempio, oppure abbiamo difficoltà a digerire o a dormire, potremmo avere in atto un processo infiammatorio, che può anche diventare cronico. E’ quindi bene bloccarla prima che cronicizzi, ascoltando questi segnali di allarme».
Alimentazione e salute: le virtù curative delle spezie
Lista della spesa alla mano, la nutrizionista ci suggerisce tutti i cibi da mettere nel carrello: «Sono molti gli alimenti che hanno proprietà antinfiammatorie e tra questi, non poteva di certo mancare lo zenzero. Conosciuto per le sue notevoli proprietà antinfiammatorie ed antibatteriche. Non dimentichiamo che le spezie, come dimostra lo studio condotto da un team di ricercatori della Pennsylvania State University, grazie alla capacità di frenare l’infiammazione che è alla base di alcune patologie molto serie, proteggono l’organismo da tumori, diabete e malattie cardiovascolari. La ricerca di questi scienziati, con l’utilizzato di un composto di spezie, nasce con l’obiettivo di studiare l'effetto postprandiale di una miscela di spezie sulle risposte infiammatorie delle citochine. L'infiammazione postprandiale che si verifica in concomitanza con iperglicemia e iperlipidemia dopo l'ingestione di un pasto ad alto contenuto di carboidrati (HFCM) è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (CVD). Gli studiosi hanno dimostrato che l’aggiunta spezie riduceva sensibilmente questo rischio. L’indagine pubblicata sulla rivista scientifica The Journal of Nutrition, ha mostrato la capacità di questi ingredienti di apportare benefici per la salute, riducendo l’infiammazione dell'organismo. Precedenti ricerche avevano già collegato le spezie alle notevoli proprietà antinfiammatorie. Infatti, in passato, l'infiammazione cronica era stata associata anche a patologie non trascurabili come il cancro, le malattie cardiovascolari, il sovrappeso e l'obesità.
«Ma anche le verdure in generale sono ricche di polifenoli e carotenoidi, sostanze antinfiammatorie» sottolinea la biologa. Poi ci sono la vitamina C, la vitamina D e la vitamina E che hanno un’azione antinfiammatoria. Alcuni frutti di stagione, come kiwi e melograno, sono ricchi proprio di vitamina C e utili in questo senso. Come prevedibile, in cima alla lista degli ingredienti la regina delle vitamine: la vitamina C. Importante contributo in merito ai benefici di questo nutriente si legge nel libro di adriano panzironi, Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti:
Essa è fondamentale grazie alla sua interazione con gli elementi (enzimi, vitamine, minerali, etc...). Preziosa per la formazione del collagene, permette di migliorare la fase anabolica del nostro corpo, mantenendo il giusto equilibrio con la fase catabolica. La sua presenza è ancora più evidente nei processi di rimarginazione delle ferite, nella cura delle ustioni, nella riparazione delle pareti arteriose (anche dei capillari) e per il buono stato del muscolo cardiaco. È utilizzata dall’industria cosmetica per le creme anti rughe, visto l’effetto protettivo e rigenerativo che ha sulla pelle. Tale vitamina ha ottenuto molti riconoscimenti per la sua funzione antisclerotizzante, agendo su più fronti di questa patologia. Innanzitutto brucia le concentrazioni di grassi che si depositano sulle pareti delle vene e nel contempo partecipa alla riparazione dell’epitelio interno delle arterie, impedendo la riformazione aterosclerotica. Inoltre l’acido ascorbico, riduce del 15-20% il tasso di colesterolo nel sangue. Questa vitamina ha un effetto antitossico. Ma forse l’effetto più conosciuto della vitamina C è quello di contrastare le infezioni batteriche.
E poi c’è un altro alleato prezioso che influenza e rinforza il nostro sistema immunitario. Si legge ancora nel libro:
Le cellule dendritiche, come abbiamo spiegato, hanno il compito d’inglobare l’anti-gene, giungere fino ai linfonodi (dove si trovano i linfociti T vergini), maturare e trasmettere le informazioni del gene da combattere. La vitamina D si lega al recettore (Dvr) e permette la maturazione delle cellule dendritiche, che possono così attivare la duplicazione dei linfociti specifici contro l’anti-gene identificato. La carenza di vitamina D diminuisce il numero di cellule dendritiche mature, allungando il tempo di reazione immunitaria del corpo. E’ per questo motivo che d’inverno esistono le epidemie da influenza. Se ci pensate bene, i virus vivono meglio al caldo e d’estate è molto più facile entrare in contatto con i fluidi corporei (sudiamo di più e siamo più scoperti). Ma nonostante ciò non ci sono epidemie influenzali. Il motivo è che siamo più forti (prendiamo il sole, attivando la vitamina D) ed i virus non riescono a sopraffarci. La vitamina E è assorbita in presenza degli acidi biliari nell’intestino e trasportata nel fegato dove viene depositata. La proprietà più importante di tale vitamina è la capacità antiossidante nella guerra ai radicali liberi. Difatti una molecola è in grado di proteggere dall’ossidazione 1.000 molecole di acidi grassi (polinsaturi e saturi), aumentando del 100% la resistenza all’ossidazione delle lipoproteine. La sua azione antiossidante protegge le cellule dalle mutazioni cancerose. Per ultimo, ma non meno importante, la vitamina E sopprime l’azione di diverse citochine pro-infiammatorie: l’interleuchina 1 (IL1) e 6 (IL6), entrambe responsabili di una serie di patologie croniche. Utilizzata per trattare diverse malattie quali il morbo di Parkinson, le malattie reumatiche, le malattie gastrointestinali, la distrofia muscolare, la sclerosi multipla, l’Alzheimer, le vene varicose, il diabete, la malattia di Crohn, le cefalee, la sindrome mestruale e per il rafforzamento delle difese immunitarie.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
«E poi semi oleaginosi e frutta secca sono un vero e proprio concentrato di sostanze benefiche: contengono omega 3 e vitamina E» evidenzia la biologa. Tra gli effetti protettivi degli omega 3, tra i più rilevanti, ricordiamo sicuramente l’azione antiaggregante piastrinica o effetto antitrombotico, il controllo del livello plasmatico dei lipidi, soprattutto dei trigliceridi, la riduzione del rischio di problemi cardiovascolare, il controllo della pressione arteriosa mantenendo fluide le membrane delle cellule, e dando elasticità alle pareti arteriose. Per supportare e favorire l’introduzione degli omega 3 sarebbe opportuno consumare dalle 2 alle 3 porzioni settimanali di pesce, in particolare sgombro, merluzzo, pesce spada, tonno, trota, sardina e aringa. Oppure in alternativa di avvalersi del supporto di integratori alimentari. Altra importante fonte di omega 3 sono i semi di lino, valido supporto per sopperire alla carenza di questi preziosi acidi. Tuttavia, ce ne sono altri che sarebbe meglio evitare. «Sicuramente alcolici e bevande zuccherate». Inoltre, un'ultima raccomandazione a tutti gli sportivi. «Chi fa sport ha un livello di infiammazione un po’ più alto a causa dello stress ossidativo prodotto dall’attività sportiva, che produce più citochine infiammatorie. La vitamina C è fondamentale proprio per bloccare l’infiammazione a livello cellulare. Ma in generale gli sportivi dovrebbero seguire un'alimentazione particolarmente ricca di antiossidanti».
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Oltre 463 milioni di persone (1 su 11) convivono con il diabete. 3 milioni solo in Italia, ma un milione e mezzo non sa di averlo! E le previsioni non sono per niente ottimistiche. Si prevedono, infatti, che il numero di persone affette da questa patologia aumenterà, entro i prossimi dieci anni, a 578 milioni. Ancora oggi, un adulto su due rimane non diagnosticato. Nel 2019, il diabete è stato la causa di 4,2 milioni di morti. Senza tralasciare le conseguenze. Infatti, le lesioni cutanee, portatrici di infezioni anche croniche, possono aggravarsi fino a determinare l'amputazione dell'arto (1 su 5 in Italia). «È importante il ruolo di questa giornata nella sensibilizzazione sul diabete, una patologia in crescita che richiede nuovi approcci terapeutici» commenta all’Adnkronos Giuseppe Seghi Recli, Presidente di Molteni. Inoltre «La comparsa di ulcere da piede diabetico è spia di una condizione clinica particolarmente grave che richiede un inquadramento completo e la definizione di uno specifico percorso di cura» aggiunge nell'intervista all'Adskronos il professor Luigi Uccioli, Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma.
DIABETE: lo stile di vita sostiene prevenzione e remissione
Al via con il World Diabetes Day, #WDD2020! La Giornata mondiale del diabete (WDD) viene istituita nel 1991 dalla federazione internazionale del diabete con lo scopo (IDF) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in risposta alla crescente sfida alla salute posta dal diabete. La Giornata Mondiale del Diabete è diventata la Giornata ufficiale delle nazioni Unite con l’approvazione della risoluzione 61/225. Si celebra il 14 novembre di ogni anno, in occasione del compleanno di Sir Frederick Banting che ha scoperto l’insulina insieme a Charles Best nel 1922. La campagna di sensibilizzazione richiama l’attenzione su questioni di fondamentale importanza. Il diabete di tipo 2 è la forma più diffusa, riguarda oltre il 90% dei casi, ed è una patologia cronica caratterizzata da un eccesso di zuccheri nel sangue, iperglicemia, che può causare frequenti complicanze cardiovascolari e renali, precoci e spesso fatali, come lo scompenso cardiaco e l’insufficienza renale. «Il progetto nasce proprio dall’esigenza di rispondere ad un bisogno importante di conoscenza di molti soggetti affetti da diabete di tipo 2 – spiega all’Adnkronos Agostino Consoli, presidente eletto della Sid –. Molte persone con diabete non sono fino in fondo consapevoli della gravità di questa malattia». La campagna di comunicazione si fa portavoce di un messaggio educativo estremamente importante: «il diabete – precisa Consoli - è una malattia cronica ed è fondamentale che i pazienti si prendano a cuore la propria patologia».
Parola chiave: prevenzione! Una soluzione che si è trasformata in un problema in era Covid, con gli ospedali saturi e le terapie intensive al collasso. Da qui l’importanza di prevenire questa patologia per evitare le eventuali complicanze. Oggi più che mai, soprattutto in piena emergenza sanitaria. Infatti, lo scompenso cardiaco è una delle complicanze più precoci nei soggetti con diabete di tipo 2 e tra le prime cause di ospedalizzazione nel nostro Paese, associata purtroppo a un elevato rischio di mortalità a 5 anni dalla diagnosi. Inoltre, circa il 40% dei pazienti diabetici sviluppa nefropatia che quando si manifesta è spesso in una fase troppo avanzata per poter intervenire. «Queste complicanze impattano notevolmente sulla qualità di vita dei pazienti – evidenzia in un’intervista all’Aknkronos Paolo Di Bartolo, presidente Amd – e la prevenzione rappresenta uno strumento fondamentale per contrastarle. La sfida di oggi, infatti, non è la cura della malattia conclamata, ma una sua corretta gestione per prevenire tempestivamente le complicanze nei numerosissimi pazienti che presentano almeno un fattore di rischio, come l’ipertensione, l’abitudine al fumo o dislipidemia. Il controllo medico diventa quindi parte integrante della terapia e la collaborazione dei pazienti diabetici nel richiedere una consulenza costante risulta importantissima».
DIABETE: ecco come mangiare per stare meglio
Un tema delicato quello del diabete, ma soprattutto una malattia da non trascurare. «Il diabete di tipo 2 è una patologia metabolica caratterizzata da glicemia elevata in un contesto di insulino-resistenza ed insulino-deficienza relativa e rappresenta circa il 90% dei casi di diabete. Questo viene inizialmente trattato con l’aumento dell’esercizio fisico e con modifiche nella dieta» spiega Christian Orlando, biologo e nutrizionista. «Fino a un secolo fa – continua l’esperto - l’alimentazione con un ridotto contenuto di carboidrati (massimo 20/25 gr al giorno) rappresentava uno standard per la cura del diabete tipo 1 e tipo 2, in quanto la restrizione di carboidrati produce spesso un rapido e notevole miglioramento clinico. Poi, la scoperta dell’insulina nel 1920 ha permesso il controllo dell’iperglicemia in persone diabetiche consentendo ai pazienti di mangiare una quantità maggiore di carboidrati senza però considerare gli effetti collaterali dovuti alla notevole quantità di insulina somministrata». Il biologo cita anche una relazione dell’ADA ( American Diabetes Association) del 2019, secondo cui «le diete a basso contenuto di carboidrati hanno dimostrato un miglioramento della glicata e la minor quantità di antidiabetici orali somministrati nei pazienti con diabete tipo 2». «Nelle persone con diabete di tipo 2 all’esordio, alcuni studi hanno inoltre dimostrato che tale alimentazione porta ad un miglioramento della funzione delle cellule beta del pancreas secernenti insulina e una riduzione dell’insulino-resistenza con miglioramento del compenso glicemico» conclude Orlando.
Il 43,9% dei soggetti deceduti per Covid avevano il diabete. Il report del 20 marzo, dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui pazienti deceduti in Italia, conferma la probabilità di maggiore mortalità in presenza di diabete. Mentre, il 48,6% presentava 3 o più patologie croniche. Secondo il Current Diabetes Review «il diabete di tipo 2 può «aumentare l’incidenza delle malattie infettive e delle comorbilità correlate». E anche se questi non hanno maggiore probabilità di essere contagiati, rischiano sicuramente più degli altri di sviluppare gravi complicanze, una volta contratto il virus. È la conclusione di un équipe di ricercatori dell’Università di Padova. La ricerca, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, dimostra come i pazienti diabetici, soggetti a un aggravamento del quadro clinico in presenza di qualsiasi malattia acuta, nel caso di infezione da SARS-CoV2 hanno un rischio di prognosi peggiore della patologia, rispetto a quella degli altri soggetti infetti non diabetici. L’interconnessione tra Covid e diabete è dovuto all’enzima attraverso cui il virus entra nelle cellule delle vie respiratorie è lo stesso espresso nelle cellule del pancreas e del fegato, e il paziente portatore di entrambe le malattie presenta indici coagulativi, marcatori infiammatori e proteina C reattiva con più alti livelli nel sangue rispetto ai soggetti positivi al Coronavirus, ma senza diabete. Inoltre, le “abituali” complicanze causate dal diabete come neuropatie, retinopatie, arteriopatie e nefropatie, oltre a una maggiore predisposizione a contrarre patologie batteriche e virali durante la infezione Covid 19 si riacutizzano, peggiorando la già critica situazione clinica.
«Alti livelli di zucchero nel sangue per un lungo periodo di tempo possono effettivamente deprimere il sistema immunitario, quindi non risponde più rapidamente al virus quando entra nel corpo e ha più tempo per replicarsi, scendere ai polmoni e causare i problemi legati alla respirazione che possono portare alla necessità di cure ospedaliere» spiega Amir Khan, affermato specialista ed esperto nella patologia del diabete di tipo 1 e 2. L’esperto fa poi riferimento ai dati diffusi dalla Cina che mostrano, nei primi 44.672 casi positivi, le persone che avevano malattie cardiovascolari, precedenti infarti o ictus, avevano un tasso di mortalità più alto (10,5%). «In Cina, dove la maggior parte dei casi si è verificata finora, le persone con diabete avevano tassi molto più alti di complicanze gravi e morte rispetto alle persone senza diabete» spiega l’American Diabetes Association. Tuttavia, a peggiorare il quadro clinico, come evidenziato nel report dell’ISS, contribuiscono anche alcuni farmaci ad uso comune. Gli Ace inibitori, molecole con effetti antipertensivi che agiscono sulla funzionalità cardiaca ostacolando l'insorgenza della insufficienza renale, influenzano negativamente l’evoluzione dell’infezione.
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500mila l’anno in Italia. Scatta l’SOS per le fratture da fragilità. In pole position, sicuramente tra le più temibili e quelle a cui prestare particolare attenzione c’è proprio quella del femore che spesso coinvolge anche vertebre, mani, polsi, braccia e caviglie. Ma poi si sa, i guai non vengono mai da soli. Difatti a questa condizione critica si accompagna molto spesso conseguenze e fastidi non trascurabili con ripercussioni su altre parti del nostro corpo. Quindi ossa delicate come “porcellana” non sono poi una rarità, soprattutto quando si soffre di osteoporosi. Tra i primissimi segnali di questa patologia e, di conseguenza, di uno scheletro più debole, c’è quasi sempre una frattura. Infatti, quando le ossa perdono massa e diventano sempre più porose può bastare poco a romperle. Il risultato? Una disabilità grave e permanente senza considerare la notevole difficoltà nel quotidiano, in primis la perdita di autonomia, fino ad arrivare perfino a un incremento della mortalità, soprattutto nel caso delle fratture di femore, in cui il tasso di letalità nell’anno successivo oscilla tra il 15 e il 25%. Tuttavia, evitarle è possibile attraverso un’adeguata prevenzione seguita da buone abitudini.
L'OSTEOPOROSI, dalle vere cause ai rimedi naturali
Diversi meccanismi d’azione contribuiscono alla prevenzione con l’obiettivo di fondo di incidere sul processo di rimodellamento osseo. Infatti, se da un lato il tessuto osseo viene continuamente riassorbito, dall’altro si adopera per una sua ricostruzione. In pratica, l’importante è riuscire a mantenere un rapporto bilanciato e che non porti, quindi, a una perdita di massa e di conseguenza a un’eccessiva fragilità. «Innanzitutto abbiamo la vitamina D: [...] va sempre assunta come supplemento con qualsiasi tipo di terapia perché è fondamentale per la mineralizzazione ossea», spiega al Corriere della Sera Maria Luisa Brandi, presidente della Fondazione Firmo per le Malattie delle Ossa. Maggiore propensione alle fratture? Ecco chi rischia di più. Sicuramente anziani, donne dopo la menopausa, pazienti con menopausa precoce o amenorrea, chi ha parenti stretti con osteoporosi, chi segue terapie che potrebbero portare a osteoporosi come le cure croniche a base di cortisonici oppure quelle ormonali a seguito di un tumore al seno.
«L'osteoporosi – si legge in una nota del Ministero della Salute - è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea legato prevalentemente all’invecchiamento. Questa situazione porta, conseguentemente, a un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. Inoltre, l’incidenza di fratture da fragilità aumenta all’aumentare dell’età, soprattutto nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura di femore, vertebra o polso. I più colpiti poi, sono gli over 65. In Italia, il 23% delle donne oltre i 40 anni e il 14% degli uomini con più di 60 anni è affetto da osteoporosi e questi numeri sono in continua crescita, soprattutto in relazione all'aumento dell'aspettativa di vita. Si stima che in Italia l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le fratture da fragilità per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. La mortalità da frattura del femore è del 5% nel periodo immediatamente successivo all’evento e del 15-25% a un anno. Nel 20% dei casi si ha la perdita definitiva della capacità di camminare autonomamente e solo il 30-40% dei soggetti torna alle condizioni precedenti la frattura».
VITAMINA D e OSTEOPOROSI: la correlazione che non tutti conoscono
Inoltre, per proteggere la salute dell’osso è fondamentale il contributo dell’alimentazione, equilibrata e corretta oltre a uno stile di vita sano. Non solo per anziani e donne in menopausa, s’intende. Per "costruire l’osso" in età pediatrica è molto importante l’assunzione di calcio e vitamina D, ma quantità adeguate di questi nutrienti con la dieta sono necessarie anche successivamente, per minimizzare la perdita della massa ossea, in entrambi i sessi. E allora vediamo come intervenire. Cinque mosse per preservare le ossa in salute: mantenere uno stile di vita sano e svolgere regolarmente attività fisica, seguire una dieta varia ed equilibrata per prevenire e contrastare sovrappeso e obesità, integrare l’alimentazione con calcio e vitamina D, ridurre il consumo di sale (che contribuisce all’aumento dell’eliminazione del calcio con l’urina). E ancora, non fumare e limitare il consumo di alcolici. Insomma, aiuta le tue ossa! A tavola, con cibo e integratori, come all’aperto, con attività fisica e sole.
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Estremamente contagioso e non risparmia nessuno. Parliamo di Covid, il virus che da mesi sta mettendo a rischio la nostra salute.Come tutti sappiamo ormai, i soggetti più esposti sono sicuramente le categorie più deboli: anziani e malati. Ma non sono solo loro ad essere alla mercé di un nemico invisibile. Infatti, oltre alle persone avanti con gli anni o affette da diverse patologie croniche ci sono tutti gli altri. Bambini, adolescenti e adulti. Tra i fattori che incidono maggiormente sulla probabilità di contrarre questo virus c'è sicuramente l'obesità . Uno studio pubblicato su Jama, ha dimostrato che le persone obese hanno un rischio più che doppio di ospedalizzazione per Covid 19 rispetto ai normopeso e un 50% di probabilità in più di complicanze. L'indagine, condotta da Barry Popkin, nutrizionista ed esperto di obesità dell'università del North Carolina a Chapel Hill ha analizzato 75 studi internazionali sul tema, per indagare i dati disponibili sul rapporto tra obesità e Covid 19. I risultati della loro analisi hanno poi fugato ogni dubbio precedente: un obeso avrebbe il 46% di probabilità in più di contrarre la malattia, il 113% in più (un rischio più che doppio quindi) di essere ricoverato in caso di contagio, il 74% in più di finire in terapia intensiva, e il 48% in più di morire a causa di Covid 19 .
Il 46% della popolazione italiana tra sovrappeso e obesità. La prevalenza, inoltre, aumenta al crescere dell’età, ed è maggiore nel genere maschile: la prevalenza massima riguarda la fascia d’età dei 65-74enni, con un 68,2% di soprappeso e obesi tra gli uomini e un 54,9% tra le donne. Inoltre, nel nostro Paese è obeso l’11% della popolazione. È quanto riportato dall’ultimo Italian Obesity Barometer Report, realizzato dall’Italian Barometer Diabetes Observatory foundation in collaborazione con l’Istat. «Nella gestione di questa epidemia la questione dell’obesità è stata per lo più ignorata e dobbiamo ricordare che nel mondo abbiamo più di due miliardi di persone obese e in sovrappeso, che presto saliranno a due miliardi e mezzo» ricorda su Jama Popkin. «L’obesità è uno dei grandi problemi che affronta oggi la sanità, e sapevamo che l’obesità avrebbe avuto una relazione importante con Covid – continua - eppure il tema è stato ignorato dai decisori politici e molti ricercatori, con un’attenzione molto maggiore riservata al diabete, all’ipertensione e disturbi cardiovascolari come problemi per chi contrae Covid».
La prevalenza di individui con sovrappeso o obesità è ai massimi storici e sta aumentando in tutto il mondo. Questo è vero non solo nei paesi a reddito più elevato, ma anche nei paesi a reddito medio e basso con alti livelli di malnutrizione che portano al doppio fardello della malnutrizione. Pochi paesi a basso e medio reddito hanno una prevalenza di individui con sovrappeso o obesità inferiore al 20% tra la popolazione adulta. Questa prevalenza non è in calo in nessun paese. Nei paesi a reddito più elevato, la prevalenza di individui con sovrappeso/obesità era già elevata negli anni '90 e ha continuato ad aumentare. Infatti, porzioni più ampie delle loro popolazioni sono diventate individui con obesità patologica con indici di massa corporea (BMI) superiori a 35-40 kg m −2. L'obesità è intrinsecamente una malattia metabolica caratterizzata da alterazioni del metabolismo sistemico, tra cui resistenza all'insulina, aumento del glucosio sierico, adipochine alterate (ad esempio l'aumento della leptina e diminuzione dell'adiponectina) e infiammazione cronica di basso grado. Una forte evidenza dimostra come la disregolazione degli ormoni e dei nutrienti negli individui con obesità possa compromettere la risposta alle infezioni. L'iperglicemia, un segno distintivo chiave del T2D, è altamente associata agli individui con obesità. È importante sottolineare che è stato dimostrato che il glucosio sierico non controllato aumenta significativamente la mortalità per COVID-19. Durante i periodi di infezione, il glucosio sierico incontrollato può compromettere la funzione delle cellule immunitarie direttamente o indirettamente tramite la generazione di ossidanti e prodotti di glicazione. Allo stesso modo, sia la segnalazione dell'insulina che della leptina sono fondamentali nella risposta dell'effettore infiammatorio dei linfociti T in quanto regolando la glicolisi cellulare, supportando la produzione di citochine effettrici. Questi fattori metabolici si combinano per influenzare il metabolismo delle cellule immunitarie, che determina la risposta funzionale ai patogeni, come SARS ‐ CoV ‐ 2. Inoltre, le persone obese hanno effetti modulatori su popolazioni di cellule immunitarie chiave critiche nella risposta a SARS ‐ CoV ‐ 2. In particolare, un aumento dell'IMC è associato a una maggiore frequenza dei sottoinsiemi di cellule T CD4 antinfiammatorie Th2 e cellule T regolatorie.
«I dati di letteratura disponibili confermano senz’altro l’aumentato rischio di ricoveri e decessi negli obesi», spiega Paolo Sbraccia, professore di Medicina Interna e direttore dell’Unità di medicina interna – centro medico dell’obesità dell’Università Tor Vergata di Roma. «I motivi sono molti: il tessuto adiposo, come le cellule dei polmoni, esprime la famosa proteina Ace 2 a cui si lega il virus, e queste proteine possono facilmente staccarsi e raggiungere i polmoni, facilitando l’invasione di Sars-Cov-2. L’organismo degli obesi presenta poi uno stato di infiammazione cronica che facilita l’insorgenza della tempesta di citochine, tra le complicazioni più gravi di questa malattia. L’obesità in sé, inoltre, crea problemi di respirazione e complica le procedure di ventilazione messe in pratica nelle terapie intensive, rendendo così più probabile un quadro clinco più grave. Ci sono meno certezze invece sulla possibilità che l’obesità renda anche più alto il rischio di infezione da Sars-Cov-2, anche se esistono indizi di un’alterazione del funzionamento del sistema immunitario legato all’obesità che potrebbero spiegare questa evenienza. E purtroppo, presagirebbero anche una minore efficacia dei vaccini nelle persone obese». Anche il consumo alimentare di acidi grassi può influenzare le risposte infiammatorie. Le prostaglandine, i derivati degli acidi grassi a catena lunga, sono pirogeni di fase acuta che danno inizio alla risposta infiammatoria locale durante l'infezione.
La pericolosità del virus per le persone in sovrappeso, d’altronde, è emerso chiaramente in zone come gli Stati Uniti, dove la prevalenza dell’obesità è notevolmente più alta di quella del nostro paese: «A New York – sottolinea Sbarca – si è vista da subito un’alta letalità del virus nelle comunità più disagiate, in cui l’obesità è un problema più comune. Da noi nella prima ondata la letalità dell’epidemia è risultata più alta nelle persone molto anziane, ma anche questo sta cambiando». «Dati certi non sono ancora disponibili – continua Sbraccia – ma parlando con i colleghi che si occupano delle terapie intensive sembra che l’età media dei ricoverati sia scesa di almeno 10 anni, e in moltissimi casi questi pazienti, che hanno ormai un’età media che si aggira attorno ai 70 anni, soffrono di obesità».