Il buono e il cattivo. Demonizzato da quelli che non sanno che è in realtà, il colesterolo, è un grasso essenziale per la nostra vita. Infatti, al di là delle convinzioni comuni «Noi ogni giorno abbiamo bisogno di molto colesterolo per il turn over delle membrane cellulari, costituite proprio da colesterolo. Inoltre questo lipide serve per la formazione degli ormoni a noi necessari, come gli ormoni steroidei e gli ormoni sessuali, sia maschili sia femminili. In altre parole, non possiamo prescindere dal colesterolo» spiega in un’intervista a Gazzetta Active il professor Carmine Gazzaruso, responsabile del Servizio di Diabetologia, Endocrinologia, Malattie Metaboliche e Vascolari e del Centro di Ricerca Clinico (Ce.R.C.A.) dell’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano e docente di Endocrinologia all’Università degli Studi di Milano. In Europa, le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte, con una stima che si aggira intorno ai 4 milioni di decessi l’anno. In parte prodotto dall’intestino e in parte attraverso l’alimentazione. Presente nel sangue, il colesterolo è di fondamentale importanza per la salute dell’organismo e deputato allo svolgimento di diverse funzioni. Una molecola organica della famiglia degli steroli che favorisce la produzione di molti ormoni, contribuisce alla formazione delle membrane cellulari e al loro corretto funzionamento, favorisce la digestione e migliora la sintesi della vitamina D. Trasportato dal fegato ai tessuti attraverso le lipoproteine: HDL (colesterolo buono) e LDL (colesterolo cattivo). Quando questi ultimi superano i precedenti, si attaccano alle pareti delle arterie generando delle placche estremamente pericolose per la salute fino a impedire il passaggio del sangue e aumentare il rischio di patologie cardiovascolari.
Il COLESTEROLO ALTO è davvero pericoloso per la salute del cuore?
Ogni anno, in Italia, muoiono più 224.000 persone per malattie cardiovascolari: di queste, circa 47.000 sono imputabili al mancato controllo del colesterolo. Il colesterolo, infatti, rappresenta uno tra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. «Le malattie cardio e cerebrovascolari sono ancora oggi nel mondo la prima causa di morte e di disabilità. La pandemia Covid 19 ha peggiorato questa situazione, è ora di ripartire! Dobbiamo assolutamente agire contro i principali fattori di rischio cardiovascolari e tra questi sicuramente l’ipercolesterolemia è uno dei più importanti. Dobbiamo trattare al meglio i nostri pazienti, ridurre il colesterolo LDL a valori a target per i pazienti. Ora abbiano diverse opportunità per poterlo fare, fondamentale è instaurare un’alleanza tra specialisti, medici di famiglia e pazienti per raggiungere questo ambizioso obiettivo», dichiara all’Ansa Stefano Carugo, direttore UOC Cardiologia, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. Le principali cause sono sicuramente da ricercare nella dieta e nello stile di vita. Inoltre, anche la presenza di precise patologie e la predisposizione genetica possono influenzare in maniera significativa l’ipercolesterolemia. Oltre a stress, il fumo, l’assenza di attività fisica, l’uso continuato ed eccessivo di farmaci immunosoppressori, contraccettivi orali, steroidi anabolizzanti, cortisonici e altri ancora. La raccomandazione di tante società scientifiche, compresa l'American Heart Association, è quella di ridurre al minimo il consumo di grassi saturi, ma non tutti gli esperti sono d'accordo. Cardiologi e dietologi della University of South Florida hanno messo in discussione questo suggerimento poiché, secondo il loro studio, pubblicato sulla rivista Bmj Evidence-Based Medicine, non ci sono prove sufficienti che dimostrino che una riduzione del consumo di grassi saturi possa abbassare il colesterolo nel sangue e ridurre il rischio per le persone con ipercolesterolemia di sviluppare malattie cardiache. «Negli ultimi 80 anni, alle persone con ipercolesterolemia familiare è stato raccomandato di abbassare il colesterolo con una dieta a basso contenuto di grassi saturi» - chiarisce l'autore dello studio David Diamond - «Il nostro studio suggerisce che una dieta più salutare per il cuore è povera di zuccheri, e non di grassi saturi».
Secondo quanto mostrano i dati raccolti nel corso dell’indagine, i pazienti che sviluppano malattie coronariche presentano fattori di rischio associati all'insulinoresistenza (o sindrome metabolica), come obesità, livelli elevati di trigliceridi nel sangue, ipertensione e diabete, per cui l'indicazione è quella di seguire una dieta a basso contenuto di carboidrati e povera di zuccheri. Inoltre «Gli effetti deleteri dell’ipercolesterolemia sul sistema cardiovascolare diventano più gravi quando è accompagnata da trigliceridi elevati, che potrebbero essere ridotti da una dieta povera di carboidrati» spiega Giaccari. In pratica, non solo non ci sono prove degli effetti dei grassi sull’ipercolestemia, ma una dieta a basso contenuto di carboidrati (LCD) migliora significativamente i biomarcatori delle malattie cardiovascolari, rispetto a una dieta a basso contenuto di grassi. Banditi quindi, oltre ai carboidrati anche in particolare gli zuccheri semplici e gli amidi con elevato indice glicemico (pane, pasta, legumi). E ancora una meta-analisi del 1992 e portata avanti da un team di esperti dell’Università di Maastricht. Gli esperti in questione hanno preso in esame i dati di 27 studi scientifici, scoprendo che gli acidi grassi hanno, rispetto ai carboidrati, effetti maggiormente positivi sui livelli di colesterolo buono HDL. Nel 2014 un’indagine sviluppata da ricercatori britannici (Università di Warwick) e svedesi (Università di Linköping), pubblicata su Nutrition & Diabetes, ha evidenziato che la glicazione (fenomeno dovuto a un eccesso individuale di glucosio, fruttosio o alcol) contribuisce alla trasformazione del colesterolo buono (HDL) in colesterolo cattivo (LDL) determinando cioè un aumento del rischio cardiovascolare. Ulteriore conferma arriva da un lavoro recente (2021) effettuato su soggetti diabetici e pubblicato su Biomedicines ha evidenziato che la lesione endoteliale (quella cioè che contribuisce all'infarto o all'occlusione delle coronarie) dipende dalla glicazione delle lipoproteine. In sostanza, residui di fruttosio e glucosio vanno a inserirsi su alcune proteine determinandone il malfunzionamento e facilitando la formazione della placca arteriosa che porta poi all'ischemia o all'infarto.
COLESTEROLO: tra approfondimenti ed evidenze scientifiche
Insomma, è necessario fare attenzione all’eccesso di colesterolo, o meglio, a quello di un particolare tipo.
L’eccesso di colesterolo – spiega Gazzaruso - può provocare dei danni dovuti al fatto che questo grasso tende ad accumularsi all’interno delle pareti dei vasi, in particolare dei grossi vasi, i vasi arteriosi, determinando aterosclerosi, patologia che ostruisce gradualmente le arterie. Se questo si verifica non arriva più sangue a sufficienza agli organi irrorati proprio da queste arterie e si possono verificare le tre patologie principe di tipo aterosclerotico: l’infarto, l’ictus e la arteriopatia degli arti inferiori. - Se infarto e ictus sono piuttosto noti, è bene chiarire di che cosa si parla quando si parla di arteriopatia degli arti inferiori - Si tratta di una patologia purtroppo poco cercata, diagnosticata e curata che è frequente in particolare nei grandi fumatori, oltre che nelle persone con diabete. La prognosi di sopravvivenza è peggiore rispetto a quella dei più comuni tumori maligni. Quando si avvertono i sintomi, ovvero dolori al polpaccio camminando, si ha già l’angina a livello di arti inferiori e a quel punto spesso è troppo tardi. Di fatto è dunque una aterosclerosi a livello di gambe. Ricordiamo infatti che l’aterosclerosi non colpisce mai un solo distretto, bensì è presente in tutte le arterie. Poi, a seconda del soggetto, si può manifestare in uno, due o più distretti. E il responsabile principale è il colesterolo che si accumula nelle arterie.
Ma qual è la differenza sostanziale tra HDL e LDL?
Essendo un grasso – chiarisce l’esperto -, per circolare nel sangue il grasso deve essere integrato in sistemi solubili nel plasma che si chiamano lipoproteine. Ma esistono diversi tipi di lipoproteine. I più noti sono le LDL (o lipoproteine a bassa densità) e le HDL (o lipoproteine ad alta densità). Le LDL trasportano prevalentemente colesterolo, in una percentuale di circa il 40% del totale, oltre a trigliceridi e altri grassi. Lo trasportano dal fegato, dove viene prodotto, alle periferie del corpo, andando ad integrare il colesterolo in tutto l’organismo. Se le LDL sono in eccesso, il colesterolo che arriva in periferia è superiore alla quantità che serve fisiologicamente, e quindi, tende ad accumularsi nelle arterie, con i danni di cui abbiamo detto. È qui che intervengono le lipoproteine HDL. Anch’esse sono deputate al trasporto del colesterolo, ma in un percorso inverso rispetto alle LDL, dalla periferia al centro. Di conseguenza una carenza di HDL determina una maggiore presenza di colesterolo a livello delle arterie. - Proprio per questo motivo il valore relativo al colesterolo totale conta poco - Ad essere importanti sono i valori relativi all’LDL e all’HDL. Ricordando che se l’HDL sale, l’LDL si riduce, come spiega la formula di Friedwald. Maggiore è la quantità di LDL, minore è la quantità di HDL. Ed è proprio ai livelli di LDL che dobbiamo prestare attenzione.
LDL e HDL, tutto quello che dobbiamo sapere sul COLESTEROLO
Secondo quanto scrive Adriano Panzironi, nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti:
La comunicazione semplicistica operata dalla stampa e dalla classe medica, ha reso ingiustizia al concreto ruolo esercitato dal colesterolo nei confronti del nostro metabolismo. Sappiamo che esiste un colesterolo buono e uno cattivo, ma a cosa veramente servano, quasi nessuno ne è a conoscenza. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Il colesterolo è un grasso usato principalmente per la costruzione, la manutenzione ed il buon funzionamento del nostro corpo. Approfondiamo le funzioni del colesterolo. Innanzitutto è essenziale per la membrana delle nostre cellule, in quanto si inserisce tra i due strati di fosfolipidi, aumentando la stabilità meccanica e la flessibilità della membrana. Inoltre regola lo scambio di sostanze messaggere tra l’esterno e l’interno della cellula. Le cellule neuronali (del cervello) sono più ricche di colesterolo. 1) La cellula, grazie al colesterolo riesce a staccare pezzi di membrana, al fine di creare degli organuli interni. Inoltre solo per la presenza di questo particolare grasso, la cellula può dividersi e crescere. 2) Senza colesterolo il fegato non potrebbe produrre la bile e quindi emulsionare i grassi, rendendoli assorbibili nell’intestino tenue. 3) Il colesterolo è alla base di moltissimi ormoni tra cui il cortisolo, l’aldosterone, il Gh, il testosterone, etc. 4) Questo grasso è necessario alla produzione endogena (autoproduzione) di vitamina D, essenziale per il nostro metabolismo. Parlare di colesterolo buono o cattivo non ha senso (vista la sua importanza). Per la precisione si dovrebbe parlare di quantità eccessiva di colesterolo nel sangue. Difatti non esistono riserve di tale grasso (come invece accade per i trigliceridi), essendo prodotto esclusivamente dal fegato in caso di esigenza da parte del corpo o assunto ingerendo alimenti che lo contengono. Il colesterolo ed i grassi non si trovano nel sangue allo stato libero, ma all’interno di alcune molecole chiamate lipoproteine.
Dal COLESTEROLO "CATTIVO" ai TRIGLICERIDI, le vere cause dell'aumento
Dati scientifici alla mano, la riduzione dei carboidrati aiuta a controllare alcuni valori fondamentali per la salute cardiovascolare. Ovvero, nel caso specifico, si verifica aumento dei livelli di colesterolo HDL (lipoproteine ad alta densità), il cosiddetto colesterolo buono che diventa superiore di quello LDL. Questi livelli vengono influenzati da precisi schemi alimentari a basso contenuto di carboidrati e contraddistinti dalla presenza di numerose fonti di acidi grassi essenziali (come gli omega 3), nutrienti essenziali per tenere sotto controllo il colesterolo cattivo.
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Per approfondimenti:
NCBI "Arginine-directed glycation and decreased HDL plasma concentration and functionality"
Ansa "Colesterolo perché si forma e come si può ridurre"
BMJ "Dietary Recommendations for Familial Hypercholesterolaemia: an Evidence-Free Zone"
Gazzetta Active "Colesterolo Ldl e Hdl: la differenza e i rischi di averlo alto"
PubMed "Effect of dietary fatty acids on serum lipids and lipoproteins. A meta-analysis of 27 trials"
Ansa "Ipercolesterolemia e rischio cardiovascolare: “La best practice della Regione Lombardia”"
NCBI "Endothelial Dysfunction in Diabetes Is Aggravated by Glycated Lipoproteins; Novel Molecular Therapies"
Eurosalus "Sale il colesterolo? Attenti a zuccheri e carboidrati"
DiLei "Dieta chetogenica: tieni a bada colesterolo e trigliceridi"
The Lancet "Associations of fats and carbohydrate intake with cardiovascular disease and mortality [...]"
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Grassi contro zuccheri, rush finale: per stare bene meglio una dieta senza carboidrati
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Contro il Covid? Mangiamo meno carboidrati! Un’alimentazione non solo efficace per una rapida riduzione della massa grassa e delle complicanze metaboliche dell'obesità, oltre a fornire un apporto nutrizionale adeguato potrebbe ridurre addirittura i rischi delle complicanze da Covid-19. È quanto mostra un recente studio del San Raffaele sul regime alimentare che riduce in modo drastico i carboidrati aumentando, per contro, le proteine e soprattutto i grassi. Lo scopo principale di questo stile alimentare è costringere l’organismo a utilizzare i grassi come fonte di energia primaria. Al contrario di quanto avviene in presenza di carboidrati, infatti, tutte le cellule ne utilizzano l’energia per svolgere le loro attività. Ma se questi vengono ridotti al minimo o eliminati completamente, cominciano a utilizzare i grassi. Si avvia quindi un processo chiamato chetosi, perché porta alla formazione di molecole chiamate corpi chetonici, questa volta utilizzabili dal cervello. In genere la chetosi si raggiunge dopo un paio di giorni con una quantità giornaliera di carboidrati di circa 20-50 grammi, ma queste quantità possono variare su base individuale. Oggi il successo di una dieta così strutturata, è legato soprattutto alla sua efficacia nel ridurre il peso, ma non si tratta di un regime alimentare semplice da seguire. Difatti, basta sgarrare anche di poco con i carboidrati per bloccare il processo di chetosi e, di conseguenza, indurre l’organismo a utilizzare nuovamente la sua fonte energetica preferita: gli zuccheri.
La continua lotta al coronavirus sta ponendo una seria sfida ai sistemi sanitari di tutto il mondo, con un enorme impatto sulle condizioni di salute e sulla perdita di vite umane. In particolare, l'obesità e le relative comorbidità sono strettamente correlate ai peggiori esiti clinici del Covid. Nonostante l'attuale tasso di mortalità sia del 7,6%, l'emergere di un gran numero di pazienti contagiati in un breve periodo di tempo ha determinato rilevanti difficoltà. Tra i fattori di maggior rischio SARS-CoV-2, numerosi studi, nel corso di questi mesi, hanno identificato una specifica associazione di mortalità con età avanzata e presenza di comorbidità. Alcune di queste patologie sono legate al comportamento dello stile di vita, quindi dovrebbe essere raccomandato di intervenire su questi fattori di rischio per migliorare i risultati in caso di contagio e ridurre l'impatto sulla salute di possibili nuovi focolai futuri. Da qui, la notevole importanza di queste diete per una rapida riduzione di diversi fattori di rischio critici tra cui l'obesità, il diabete di tipo 2 e l'ipertensione, sulla base dei noti effetti dei corpi chetonici su infiammazione, immunità, profilo metabolico, malattia renale cronica e funzione cardiovascolare. Il suggerimento nutrizionale che fornisce questa indagine è quello di ridurre il consumo di cibo spazzatura e preferire alimenti con proprietà antiossidanti e antinfiammatorie, meglio se con il potenziale di influenzare positivamente il sistema immunitario. Quindi, diciamo “addio” alle abitudini alimentari malsane, ricche di carboidrati.
Ecco il perché della decisione di limitare l’apporto di glucosio nella dieta dei pazienti: «Abbiamo potuto osservare che questo tipo di dieta non è solo accessoria, ma assume una valenza antinfiammatoria quasi simile a quella dei farmaci anti-citochine», spiega a Gazzetta Active il dottor Samir Giuseppe Sukkar, primario di Dietetica e Nutrizione Clinica dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova.
Nel mese di marzo mi sono concentrato su un eventuale supporto nutrizionale dal punto di vista immunomodulatore. In particolare ho considerato una possibile ipotesi di trattamento e mi sono accorto che all’epoca stavano emergendo dati sul fatto che la sindrome da Covid che portava alla morte e al ricovero era la tempesta o sindrome citochinica. Questa evidenza era emersa in uno studio pubblicato su Lancet alla fine di febbraio. Ho così voluto vedere che cosa scateni la tempesta citochinica. A provocarla è l’iperattivazione dei macrofagi M1, cellule infiammatorie che si trovano nell’alveolo polmonare allo stato di quiescenza e che si attivano nel momento in cui arriva un virus. Questo stato di attivazione porta ad una cascata di citochine. La cosa interessante è che andando a verificare dal punto di vista metabolico perché accade questo si nota l’effetto Warburg, una caratteristica di determinate cellule il cui metabolismo è quasi esclusivamente glicolitico: utilizzano esclusivamente lo zucchero. Sì. La tempesta citochinica porta all’attivazione di macrofagi M1 il cui metabolismo è esclusivamente glicolitico: utilizzano solo il glucosio per produrre energia. Quindi se si riduce il glucosio come fonte energetica primaria del paziente riduciamo anche il nutrimento per gli M1. Di conseguenza una dieta chetogenica, apportando una quantità di glucosio inferiore a 30 grammi al giorno, porta ad una minore disponibilità di nutrienti per i macrofagi M1, li affama. In questo modo si ferma l’iperattivazione dei macrofagi. Non solo. Fornire una quantità elevata di grassi rispetto agli zuccheri facilita anche il processo di guarigione. Questo perché i macrofagi M2, macrofagi spazzini, sono cellule voraci di grassi, che utilizzano come fonte energetica. Quindi con la chetogenica da un lato affamiamo i macrofagi M1 e dall’altro favoriamo l’azione positiva degli M2. Se poi la dieta chetogenica è ricca anche di acidi grassi omega 3 è ancora meglio perché questi riducono l’infiammazione, spegnendo il processo infiammatorio. Di fatto questa dieta è fortemente coadiuvante della guarigione del Covid-19 e ha avuto un effetto su 38 pazienti comparati a 76 pazienti che non avevano seguito questo regime alimentare. Abbiamo avuto una riduzione significativa della mortalità per Covid e del numero di pazienti ricoverati in terapia intensiva. Tutto questo ha un grande rilievo dal punto di vista terapeutico perché la dieta così non è più solo accessoria, ma assume una valenza antinfiammatoria quasi simile a quella dei farmaci anti-citochine. Quindi non è solo una terapia di supporto come l’assunzione di vitamina D o vitamina C.
I CARBOIDRATI FANNO BENE O MALE?
L'obesità rappresenta uno dei fattori prognostici riconosciuti per la necessità di terapia intensiva e ad alto rischio di morte durante l'infezione da SARS-CoV-2. Nello specifico, lo stato di obesità limita la ventilazione interrompendo l'escursione del diaframma, altera le risposte immunitarie all'infezione virale, determina un'infiammazione cronica di basso grado e peggiora la tolleranza al glucosio e lo stress ossidativo con effetti negativi sulla funzione cardiovascolare. È importante, quindi, sottolineare che i pazienti obesi sperimentano una sindrome Covid-19 più grave, poiché l'obesità è caratterizzata da un equilibrio emostatico alterato con aumento della coagulazione e fibrinolisi difettosa che si traduce in uno stato pro-trombotico. Inoltre, la coesistenza di obesità e steatosi epatica metabolica (MAFLD) determina un aumento del rischio di circa 6 volte di un quadro clinico negativo. In particolare, un recente rapporto ha mostrato che il tessuto adiposo esprime livelli molto elevati di trascrizioni per ACE2, un enzima attaccato alla superficie esterna dei pneumociti, che viene utilizzato dai coronavirus per entrare e infettare le cellule, sollevando la questione se il tessuto adiposo possa rappresentare un serbatoio di SARS-CoV-2 e un sito strategico per amplificare la cascata di citochine innescata dall'infezione virale. I pericoli di questa correlazione vengono messi in evidenza dal professor Massimiliano Caprio, responsabile dell’Unità Endocrinologia cardiovascolare dell’IRRCS San Raffaelec di Roma, coautore di un articolo pubblicato dalla rivista Journal of Translational Medicine:
L'obesità e le sue comorbidità sono strettamente legate alla prognosi più grave del Covid-19, e un aspetto poco considerato nell’affrontare l’emergenza è che una corretta consulenza nutrizionale costituisce una priorità per affrontare la pandemia di Covid-19, al fine di ridurre il rischio di infezione e le relative complicanze. Possono avere un ruolo importante nella modulazione dell'immunità innata e di quella adattativa, determinando effetti benefici sull'infiammazione cronica di basso grado, potendo prevenire il rischio di tempesta citochinica del Covid-19. Inoltre – prosegue il prof. Caprio - le diete […] potrebbero essere protettive durante l'infezione da Sars-COV2 grazie agli effetti antinfiammatori e immunomodulanti dei corpi chetonici.
Ecco come la PASTA potrebbe influenzare la nostra salute
È ben noto che il rilascio aberrante di citochine e chemochine pro-infiammatorie, indotto dall'infezione da SARS-CoV-2, è centrale per gli esiti fatali della sindrome Covid-19. Una grave progressione del Covid è determinata da una risposta tardiva all'interferone gamma con uno stato infiammatorio prolungato e una conta delle cellule Treg, NK e CD4 + e CD8 + più bassa. È ampiamente documentato, inoltre, che l'iperglicemia può peggiorare la risposta infiammatoria. Livelli elevati di glucosio amplificano la produzione di citochine nei monociti attraverso un aumento dei ROS mitocondriali. È quindi probabile che le popolazioni di cellule immunitarie disregolate rappresenti un importante fattore di rischio e determini il peggioramento della risposta infiammatoria durante l'infezione da SARS-CoV2. Quella avvallata nella ricerca è una terapia adiuvante per affrontare l'infezione mediante un cambiamento nello stato metabolico dell'ospite da un glicolitico dipendente dai carboidrati a un dipendente dai grassi stato chetogenico, mirato ad alterare la replicazione virale. Tale spostamento metabolico provoca una maggiore resistenza allo stress mitocondriale, un miglioramento delle difese antiossidanti, un aumento dell'autofagia e della riparazione del DNA e una diminuzione della secrezione di insulina. Insomma, un approccio funzionale che rimanda a uno stile di vita salutare e importante per tenere alla larga una lunga serie di malattie, tra queste anche il Covid poiché valida nel migliorare la risposta immunologica dell’infezione da SARS-CoV2.
Journal of Translational Medicine "The dark side of the spoon - glucose, ketones and COVID-19: a possible role for ketogenic diet?"
AGI "La dieta chetogenica può ridurre i rischi di complicanze nel Covid-19"
Gazzetta Active "La dieta chetogenica è un’arma contro il Covid? Uno studio sostiene che può ridurre la mortalità"
San Raffaele "Obesità-COVID-19: la dieta chetogenica aiuta a ridurre i rischi da Sars-Covid2"
Medical Xpress "Ketogenic diets alter gut microbiome in humans, mice"
LEGGI ANCHE: Grassi contro zuccheri, rush finale: per stare bene meglio una dieta senza carboidrati
Infiammazione? Lo stile alimentare che aiuta la prevenzione di tante patologie
Parola d'ordine: low (no) carb. I grassi non fanno male! Una premessa doverosa dopo decenni in cui hanno cercato di convincerci della nocività di questi alimenti. Nel frattempo, negli anni ‘50, cibi ricchi di zuccheri erano alla ribalta degli scaffali di ogni supermercato portando, di conseguenza, all’epidemia dell’obesità. Un’alimentazione senza carboidrati è una dieta che limita i carboidrati, presenti soprattutto in alimenti zuccherati, pasta, pane, riso, patate, legumi e pizza. Numerose evidenze scientifiche dimostrano che le diete a basso contenuto di carboidrati possono contribuire alla perdita di peso oltre a migliorare i marcatori di salute. Uno stile alimentare che, per certi versi, richiama, da lontano, la dieta chetogenica o LCHF (low carb high fat), seppur con importanti differenze. Gli studi dimostrano che, oltre agli altri benefici, una dieta a basso contenuto di carboidrati può facilitare la perdita di peso e il controllo della glicemia. Altri studi dimostrano che non c’è motivo di eliminare i grassi naturali dalla nostra alimentazione. Anzi, in uno stile alimentare privo di carboidrati (o quasi) i grassi diventano i nostri alleati. Per avvalersi questo sostegno basta ridurre al minimo l’assunzione di zuccheri e amidi e assicurarsi il giusto apporto di proteine. Con l’eliminazione (o la drastica riduzione) di queste sostanze dannose, i livelli di zucchero nel sangue tendono a stabilizzarsi e, di conseguenza, si abbassano anche i livelli degli ormoni che immagazzinano l’insulina. Questo processo facilita l’aumento della combustione dei grassi e contribuisce al senso di sazietà, riducendo così naturalmente l’assunzione di cibo e facilitando anche la perdita di peso. Inoltre, una dieta a basso contenuto di carboidrati può portare a bruciare più calorie di altre diete.
Come già detto poi, le diete senza carboidrati contribuiscono alla riduzione o alla normalizzazione dei livelli di zucchero nel sangue, e così facendo, contrastano anche il diabete di tipo 2. Quindi, ridurre o rinunciare ai carboidrati insulinici, potrebbe aiutare il controllare non solo la glicemia, ma risultare particolarmente utile per le persone con diabete. Inoltre, uno studio recente condotto per 6 mesi su 49 adulti obesi con diabete di tipo 2 ha rilevato che chi ha seguito una dieta low carb ha avuto riduzioni significativamente maggiori di emoglobina glicata, rispetto al gruppo di controllo. Infatti, come osserva l’American Diabetes Association, la riduzione dei carboidrati, a qualsiasi livello, è probabilmente un efficace strumento per il controllo dello zucchero nel sangue. In pratica, ridurre l’assunzione di carboidrati può prevenire picchi di zucchero nel sangue e quindi aiutare a prevenire le complicazioni del diabete. Tuttavia, i benefici di questo stile alimentare non finiscono qui. Infatti, diminuire l’assunzione di carboidrati può migliorare la salute del cuore. In particolare, le diete senza carboidrati hanno dimostrato di diminuire i livelli di trigliceridi nel sangue, causa principale di rischio malattie cardiache. Secondo quanto dimostra un’indagine condotta su 29 uomini in sovrappeso, la riduzione dell’assunzione di carboidrati al 10% del totale delle calorie giornaliere per 12 settimane, ha diminuito i livelli di trigliceridi del 39% rispetto ai livelli iniziali. Altri studi suggeriscono che le diete a basso contenuto di carboidrati possono anche aumentare i livelli di colesterolo HDL (il cosiddetto colesterolo buono), valido supporto nella protezione contro le malattie cardiache. Dulcis in fundo, un basso livello di carboidrati si dimostra un prezioso alleato del nostro intestino. Contribuisce, infatti, a risolvere i problemi dell’intestino irritabile, spesso alleviandone i sintomi come gonfiore, crampi, dolore addominale, gas, diarrea o stipsi. Funzionale poi anche in caso di cattiva digestione, reflusso gastrico e altri fastidi digestivi. Tra i notevoli vantaggi e benefici per il benessere dell’organismo:
Grassi o Zuccheri? “Ai più importanti bivi della vita non c’è segnaletica” sosteneva Ernest Hemingway, ma con le informazioni giuste è possibile non prendere la strada sbagliata. Dalla via dei grassi a quella dei zuccheri, una spiegazione esaustiva viene fornita da Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti:
«Per comprendere l’importanza dei grassi per l’organismo è fondamentale capire l’uso che ne fa il nostro corpo. Per molti di noi il grasso è visto come un substrato energetico (utilizzato per creare energia) e niente più, invece le sue funzioni sono essenziali anche per altri motivi. Distinguiamo intanto i tre differenti tipi di grassi che il nostro corpo assimila con l’alimentazione o produce in base alle proprie esigenze: trigliceridi, fosfolipidi e colesterolo - si legge nel capito “La via dei grassi” -. Quando i carboidrati sono ingeriti, non importa che siano di natura semplice o complessa, essi saranno comunque trasformati in glucosio per poi venire assimilati dai villi intestinali e da qui, riversati nel flusso sanguigno. Il nostro sistema arterioso si occupa di trasportare il glucosio alle cellule che ne hanno bisogno. Difatti come abbiamo già detto, l’unico utilizzo del glucosio da parte del nostro corpo è di tipo energetico, ovvero esso è utilizzato dalle cellule per produrre gli Atp (con la glicolisi ed in seguito con i mitocondri). Le uniche cellule che usano esclusivamente il glucosio come carburante (le altre usano soprattutto i grassi) sono le cellule nervose del cervello (i neuroni), le cellule muscolari della fibra bianca (fibrocellule) ed i globuli rossi (che non possiedono mitocondri). Cosa succede quando il glucosio è presente in quantità eccessive nel sangue? Il nostro corpo, tramite il pancreas, produce uno speciale ormone per eliminare il glucosio in eccesso, evitando il raggiungimento del coma diabetico: l’insulina. Ma esistono alcuni carrier proteici (proteine di trasporto) che si occupano di trasportare il glucosio nelle cellule, sono i glut» conclude l’autore nel capitolo “La via degli zuccheri”.
Ormai sono diversi gli studi che cominciano a suggerire che se mangiato senza carboidrati, il grasso, non contribuisce all’aumento di peso. Al contrario di quanto riscontrato invece per lo zucchero dove dozzine di indagini dimostrano che se consumato da solo induce, ugualmente e in modo significativo, a un’inevitabile sovrappeso. Sullo stesso filone la tesi presentata nel libro di Aaron Carroll, professore di pediatria alla Indiana University School of Medicine, “The Bad Food Bible: How and Why to Eat Sinfully” (La bibbia del cibo malvagio: come e perché mangiare peccaminosamente). «C’è una cosa che sappiamo a proposito dei grassi - si legge nel libro di Carroll - Il consumo di grassi non provoca aumento di peso. Al contrario, potrebbe piuttosto aiutare a perdere qualche chilo». Insomma, un chiaro appello per riportare a tavola tutti quegli alimenti banditi dalla dieta nel corso degli anni Novanta. Dal burroso avocado, all’appetitoso salmone passando per le saporite noccioline. Le motivazioni per includere nuovamente nella nostra dieta questi alimenti vengono fornite e confermate da recenti ricerche che dimostrano come le persone che hanno ridotto i grassi non solo non perdono peso, ma non riducono nemmeno il rischio di malattie. Per contro, le persone che consumano più grassi, ma diminuiscono drasticamente o eliminano completamente carboidrati e zuccheri, registrano una riduzione sia del peso corporeo sia del pericolo di patologie.
Secondo una review di diverse ricerche pubblicata sulla rivista The Lancet, gli scienziati hanno messo a confronto oltre 150.000 persone in 18 stati, con diversi tipi di alimentazione per indagare le associazioni del consumo di queste sostanze in relazione al rischio di insorgenza di diverse patologie. Le persone che seguivano diete a basso tenore di grassi avevano più probabilità di morire per cause diverse. Senza tralasciare poi il rischio di morire per malattie cardiovascolari, infarto, ictus e insufficienza cardiaca. Per contro, le persone con diete a basso tenore di carboidrati avevano un rischio significativamente minore di incorrere in queste conseguenze. Insomma, una maggiore assunzione di carboidrati è stata associata a un aumento del rischio di mortalità. A seguito degli importanti risultati ottenuti da queste indagini «andrebbero riconsiderate le linee guida dietetiche globali» hanno concluso gli autori dello studio. Ma cosa succede quando nella nostra dieta includiamo solo cibi a basso tenore di grassi? Molti alimenti pronti al consumo nella categoria del “low-fat” sono ricchi di zuccheri e carboidrati. Per avere una conferma di questo basterebbe prendere ad esempio i cereali comuni, quelli in barrette o lo yogurt e dare un’occhiata alla tabella nutrizionale. Compariranno tutti valori ad alto tasso di zuccheri e carboidrati, nonostante siano alimenti a basso contenuto di grassi. Quindi, mentre questi prodotti a basso contenuto di grassi sono venduti come cibi per “perdere peso”, la realtà è molto diversa da quella narrata negli spot pubblicitari. Questi prodotti difatti incidono negativamente più di altri sull’aumentare di peso. Quindi, tirando le somme, nel carrello della spesa è preferibile un prodotto ricco di grassi, ma povero in carboidrati.
Il Messaggero "Dieta chetogenica, può avere effetti benefici nelle persone che soffrono di asma"
The Italian Times "Dieta chetogenica: cos'è, come funziona ..."
Di Lei "Mal di testa. La dieta chetogenica può venire in aiuto"
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Povera di carboidrati e ricca di grassi. Ecco i notevoli benefici che si possono ottenere con questo stile alimentare. Dalla riduzione dell’infiammazione alla perdita di peso e alla salute del cuore. Secondo uno studio condotto dall'Università della California San Francisco (UCSF) la dieta con una minima presenza di carboidrati, avrebbe un impatto decisivo sui microbi che risiedono nell'intestino umano, collettivamente indicati come il microbioma. Indagini più recenti ricerche sui topi hanno dimostrato che i cosiddetti "corpi chetonici", un sottoprodotto molecolare. Questi, incidono direttamente sul microbioma intestinale spegnendo definitivamente l'infiammazione. Questo processo avviene perché, in questo regime alimentare, il consumo di carboidrati è drasticamente ridotto al fine di costringere l’organismo ad alterare il suo metabolismo usando molecole di grasso, invece dei carboidrati, come fonte di energia primaria. Teoria - quella dei grassi utilizzati per l'energia necessaria all'organismo - ampiamente supportata e dimostrata nello stile Life 120 ideato da Adriano e Roberto Panzironi.
Un cambiamento che comporterebbe numerosi benefici per la salute. «Mi sono interessato a questa domanda perché la nostra ricerca precedente ha dimostrato che le diete ricche di grassi inducono cambiamenti nel microbioma intestinale che promuovono malattie metaboliche e di altro tipo nei topi, eppure le diete chetogeniche, che sono ancora più elevate nel contenuto di grassi, sono state proposte come un modo per prevenire o persino curare le malattie» evidenzia Peter Turnbaugh, Ph.D., professore associato di microbiologia e immunologia dell'UCSF, membro del Centro di medicina microbiomica UCSF e ricercatore di biochimica Chan Zuckerberg. L’esperto spiega così le motivazioni che hanno spinto l’équipe di ricercatori ad esplorare quella sconcertante dicotomia. Come già detto, la dieta chetogenica è un regime alimentare che prevede una drastica riduzione di carboidrati, costringendo l’organismo a utilizzare i grassi come fonte di energia. In questo modo, si avvia un processo chiamato chetosi, proprio perché si formano molecole definite corpi “chetonici”, utilizzati dal cervello.
Nello studio pubblicato su Cell, in collaborazione con la con la no profit Nutrition Science Iniziative, gli scienziati hanno monitorato, per due mesi, le diete e il livello di esercizio di 17 persone. Per le prime quattro settimane, ai partecipanti è stata somministrata una dieta “standard” composta per il 50% da carboidrati, 15% da proteine e il restante 35% da grassi o una dieta formata per il 5% di carboidrati, 15% di proteine e l’80% di grassi. Dopo quattro settimane, sono state scambiate le diete per consentire ai ricercatori di indagare l’alterazione dei microbiomi dei partecipanti a seguito dello spostamento tra i due stili alimentari. L'analisi del DNA microbico riscontrato nei campioni di feci dei partecipanti ha mostrato che lo scambio tra le due diete aveva cambiato drasticamente le proporzioni di phyla actinobacteria, bacteroidetes e firmicutes nell'intestino dei partecipanti, oltre a cambiamenti rilevanti in 19 diversi generi batterici.
Gli scienziati si sono concentrati su un particolare genere batterico, il bifidobatteri probiotici, ovvero quello che ha risentito maggiore della dieta povera di carboidrati e, per contro, ricca di grassi. Tuttavia, i ricercati hanno indagato su come, i cambiamenti microbici di quest'alimentazione, potevano incidere in modo positivo sulla salute. Gli esperti hanno quindi sottoposto l'intestino del topo a diversi componenti di microbiomi umani che reagiscono alle diete con una scarsa quasi prive di carboidrati, dimostrando così che, queste popolazioni microbiche alterate, riducono sensibilmente il numero di cellule immunitarie Th17. Questa tipologia di cellule T risulterebbe critica per combattere le malattie infettive, ma funzionale per accentuare l'infiammazione nelle malattie autoimmuni. Ai topi, poi, è stata sostituita l’alimentazione a basso contenuto di grassi, con una ad alto contenuto di grassi e basso di carboidrati (dieta chetogenica). Nell’indagine, è stato riscontrato che il microbioma risponde diversamente quando il livello di grasso nella dieta degli animali aumenta a livelli tali da promuovere la produzione di chetoni in assenza di carboidrati. I ricercatori hanno osservato che mentre le diete degli animali venivano invertite, anche i loro microbi iniziavano a spostarsi, in correlazione a un graduale aumento dei corpi chetonici.
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I ricercatori hanno testato i corpi chetonici per comprendere se da soli potevano guidare i cambiamenti che evidenziati nell'ecosistema microbico dell'intestino alimentando direttamente i corpi chetonici nei topi e hanno scoperto che, anche nei topi, la presenza di chetoni aggiunti era sufficiente per innescare cambiamenti microbici specifici osservati con l’applicazione dei questa dieta. «Questa è una scoperta davvero affascinante - sostiene Turnbaugh - perché suggerisce che gli effetti delle diete sul microbioma non riguardano solo la dieta stessa, ma il modo in cui la dieta altera il metabolismo del corpo, che quindi ha effetti a valle sul microbioma». «Per molte persone, mantenere una rigorosa dieta a basso contenuto di carboidrati o chetogenica è estremamente impegnativo, ma se studi futuri scopriranno che ci sono benefici per la salute derivanti dai cambiamenti microbici causati dagli stessi corpi chetonici , che potrebbero rendere un approccio terapeutico molto più appetibile» conclude il ricercatore.
Questo schema nutrizionale che si basa sui seguenti principi: un regime alimentare ipocalorico, una dieta low carb a bassissimo contenuto di carboidrati, ma per contro ad elevato contenuto di grassi e proteine.Questa dieta chetogenica è una strategia nutrizionale basata sulla riduzione, seppur drastica, dei carboidrati alimentari, obbligando così l'organismo a produrre autonomamente il glucosio necessario alla sopravvivenza e ad aumentare, al tempo stesso, il consumo energetico dei grassi contenuti nel tessuto adiposo. La produzione energetica cellulare avviene con la metabolizzazione di alcuni substrati, in particolare il glucosio e gli acidi grassi. Per lo più, questo processo inizia nel citoplasma (glicolisi anaerobica) e termina nei mitocondri (ciclo di Krebs). Tuttavia, anche se a colpo d'occhio, lo stile Life 120 sembrerebbe adottare lo stesso regime alimentare della dieta chetogenica, tra le due ci sono differenze sostanziali. a differenza del Keto, l'alimentazione suggerita da Life 120 non porta alla chetosi poichè prevede un apporto di carboidrati di provenienza da verdure (consumate a sazietà durante i pasti) e della frutta (uno al mattino). Inoltre, prevede anche una quantità di zuccheri giornaliera, funzionale ai soli due organi che utilizzano lo zucchero come fonte di energia, ovvero cuore e cervello.
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Dalla tradizione gastronomica ungherese, una tipicità che si è diffusa nell'Europa centro-orientale. Il nome nasce dall'ingrediente principale, gulasch è un aggettivo che deriva da gulya "mandria di bovini". Un piatto unico dal sapore deciso e saporito. Un’esperienza culinaria davvero eccellente.
Sbucciate e tagliate a fettine le cipolle, mettetele a rosolare a fuoco dolce in un tegame dai bordi alti con un giro d’olio EVO e il burro. Nel frattempo lavate e tagliate i pomodori e le carote a tocchetti grossolanamente e mettete da parte. Quando le cipolle si saranno ammorbidite aggiungete la carne, la paprica dolce, il cumino, lo spicchio d’aglio intero, le foglie di alloro e mescolate facendo insaporire la carne con tutti gli aromi e profumi. Lasciate andare a fuoco dolce per circa 15 minuti prima di aggiungere le carote, i pomodori e due bicchieri di brodo. Continuate a cuocere sempre a fiamma dolce per un’oretta mescolando di tanto in tanto. Dopo una mezzora circa aggiungete la passata di pomodoro e in caso fosse necessario altro brodo. Occupatevi del sedano rapa sbucciandolo, lavandolo e tagliandolo a cubetti come fossero patate. Trascorso il tempo indicato aggiungetelo agli altri ingredienti nel tegame. Abbassate la fiamma al minimo, versate il restante del brodo, salate, pepate e lasciate andare ancora per unoretta e mezza mescolando di tanto in tanto.Occupatevi del risino tuffandolo nell’acqua che avete portato a bollore, lasciatelo cuocere per una ventina di minuti prima di scolarlo e sciacquarlo sotto l’acqua corrente per circa un minuto. Una volta trascorso il tempo e ristretto il sughetto spegnete e servite accompagnando con un mestolo di risino vicino.
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Il connubio perfetto degli ingredienti lo rende ideale per tutti i palati. L’eccellenza stagionale di questo risotto porta a tavola la primavera. Un'esposione sensoriale dal gusto intenso e deciso di asparagi e salsicce. Ecco un piatto da preparare con gli ingredienti genuini e di qualità che garantiscono il risultato della ricetta.
Mettere l’olio Evo e la cipolla, finemente affettata, a soffriggere. Aggiungere poi salsiccia sbriciolata e, una volta rosolata, sfumare col vino bianco. Aggiungere gli asparagi, precedentemente tagliati a pezzetti, lasciando da parte le punte. Coprire e cuocere, a fuoco basso, per qualche minuto. Aggiungere anche le punte degli asparagi, in un primo momento accantonate, e proseguire la cottura con coperchio per altri due minuti. Lasciare le punte croccanti. Quando il risino sarà cotto, aggiungerlo al condimento e mantecarlo con una noce di burro e del Trentigrana grattugiato. Impiattare e servire con dei piccoli tocchetti di Trentigrana e qualche punta di asparago.
Un piatto dal profumo mediterraneo. Dalla genuinità degli ingredienti al gusto intenso della pancetta al sapore amarognolo delle melanzane. Ad arricchire la ricetta e deliziare l'olfatto, le note aromatizzate del pesto. Alternativo, saporito e versatile.
Mettere la pancetta stagionata, tagliata a cubetti in una pentola e farla rosolare a fuoco basso. Tagliare la melanzana a tocchetti e friggerla in Olio EVO, scolarla su un foglio di carta assorbente. Tritare con un coltello un pugno di arachidi tostati. Cuocere il Risino Shiralife in acqua salata bollente e quando sarà cotto, aggiungerlo alla pancetta rosolata. Spegnere il fuoco e aggiungere il pesto alla genovese, e metà della melanzana fritta. Servire con la restante melanzana e gli arachidi sopra il riso.
Sono oltre mille al giorno i casi di tumore in Italia e il 40% può essere prevenuto con uno stile di vita corretto e diagnosticato tempestivamente, prima, cioè, che si manifesti a livello clinico. Questi sono i dati presentati dall'Associazione Italiana Registri Tumori (Airtum). Nel 2019, in Italia, i tumori gastrointestinali hanno colpito circa 89.400 persone di cui 49.000 colon-retto. La diminuzione maggiore, nello specifico, 2.800 negli ultimi 5 anni (2014-2019), rispetto agli anni precedenti, si registra soprattutto nel cancro del colon-retto grazie al fondamentale ruolo della prevenzione. Ancora dati alla mano, un'altra ricerca, riportata nel libro di Adriano Panzironi, Vivere 120 anni: le ricerche, dimostra che «il cancro colorettale è la terza causa principale di morte per cancro negli Stati Uniti, con circa 143.000 nuovi casi diagnosticati e 52.000 decessi registrati ogni anno. Sebbene l'eziologia del cancro al colon sporadico rimanga in gran parte indeterminata, la dieta e altri fattori di rischio modificabili giocano indubbiamente un ruolo significativo».
«Cerchiamo di chiarire ulteriormente la relazione tra carico glicemico (GL) e tumore del colon in uno studio caso-controllo incidentale basato sulla popolazione del Kentucky, caratterizzato da un'alta incidenza di cancro del colon-retto. L’elevato GL provoca un aumento dei livelli circolanti d’insulina e fattori di crescita simili all'insulina (IGF). È stata proposta l'ipotesi dell'iperinsulinemia-cancro del colon, che implica che una dieta ricca di energia e carboidrati porta all'insulino resistenza, promuovendo così la carcinogenesi del colon. Diversi studi caso-controllo hanno riportato un'associazione significativa tra aumento del rischio di tumore del colon-retto, alto indice glicemico (GI) e GL dietetico. Un'alta dieta GL è stata ipotizzata per aumentare il rischio di cancro al colon. In effetti,il nostro studio ha rivelato un aumento del 61% nel rischio di cancro al colon confrontando il più alto rispetto al quartile più basso di GL dietetico tra i partecipanti. Il rischio di sviluppare il cancro del colon-retto aumenta con l'età, con gli uomini a più alto rischio rispetto alle donne. È interessante notare che abbiamo riscontrato un aumento duplice del rischio di cancro associato a una dieta GL elevata nei partecipanti più anziani, ma solo un aumento modesto e non significativo del rischio nei partecipanti più giovani» spiega la ricerca.
Tra i principali alleati in questa lotta, i flavonoidi. Infatti, mangiare frutta e verdura è fondamentale. Già dimostrato negli studi condotti nell'ultimo ventennio, i ricercatori hanno scoperto di recente, in che modo, questi composti naturali di frutta e verdura, intervengono nella prevenzione del cancro. Ed è proprio l’acido 2,4,6-triidrossibenzoico, uno dei composti prodotti quando il corpo metabolizza o scompone i flavonoidi, che inibisce la crescita delle cellule tumorali in condizioni specifiche. Quindi, per prevenirlo forse basterà ridurre drasticamente nella dieta i carboidrati, cioè zuccheri e amidi. Da non trascurare poi, il fattore ereditario. Sappiamo bene, infatti, che il tumore al colon può avere una predisposizione genetica: può insorgere con maggiore frequenza in chi ha consanguinei con lo stesso tumore. Ma perché il tumore insorge in alcuni soggetti geneticamente predisposti e non in altri? Qual è la concausa non genetica? Qui i ricercatori si dividono: alcuni davano la colpa al microbioma dell'intestino, cioè la popolazione di batteri che lo colonizza; altri allo stile di vita e, in particolare, all'alimentazione. Bene, hanno ragione entrambi, la continua interazione fra genetica e ambiente viene confermata da Alberto Martin, immunologo dell'Università di Toronto, in Canada, sulla rivista scientifica Cell.
Almeno, questo è ciò succede nei topi, mammiferi onnivori come l'uomo. E se gli studi di Martin saranno confermati nell'uomo, chi teme il tumore al colon avrà finalmente a disposizione non una, ma due strategie per prevenirlo: ridurre la quota di carboidrati nell'alimentazione (zucchero, amidi, eccetera...) e selezionare accuratamente i batteri che vivono nel suo intestino. È noto che il tumore del colon è spesso associato a due mutazioni: la mutazione del gene APC che, nella sua forma non mutata, agisce come freno allo sviluppo anomalo delle cellule; e la mutazione del gene MSH2, che invece è un manutentore, cioè ripara i danni al materiale genetico. Di solito, però, la mutazione di un gene riparatore predispone a un maggior rischio per tutti i tumori: in questo caso invece la mutazione predispone all'aumento del solo tumore del colon e questo a Martin sembrava incomprensibile.
Un fattore, invece, che favorisce l’insorgenza del cancro del colon-retto è dovuto allo squilibrio nel microbiota intestinale, meglio conosciuto come disbiosi. «Tra i fattori di rischio spiccano familiarità, età e alcune patologie infiammatorie intestinali croniche - spiega in un'intervista al Corriere della Sera, Armando Santoro, direttore dell’Humanitas Cancer Center di Milano e direttore scientifico dell’Accademia Nazionale di medicina -. La maggior parte dei tumori deriva dalla trasformazione in senso maligno di polipi intestinali. I polipi in genere non provocano nessun sintomo e rimangono per anni o decenni sulle pareti intestinali senza che ce ne si accorga. Talvolta possono dare perdite di sangue nelle feci che meritano un approfondimento diagnostico con la colonscopia. Non tutti i polipi, però, sono a rischio di malignità. Lo sono solo quelli definiti adenomatosi . Sedentarietà, eccessivo consumo di grassi animali, sovrappeso e obesità, fumo e abuso di alcolici sono tutti fattori associati a un aumentato rischio di ammalarsi. La familiarità resta comunque un fattore importante che deve indurre a fare controlli endoscopici anche prima dei 45-50 anni».
Sempre nell'intervista, l'esperto fornisce alcuni suggerimenti per prevenirlo. «Le regole sono: aumentare frutta e verdura, ridurre pane e cereali raffinati, patate, carne rossa, dolci e zucchero. E poi attività fisica regolare e stop a sigarette e alcol. Fondamentale è lo screening. La ricerca di sangue occulto nelle feci è consigliata a tutti dopo i 45 anni. La positività al test non indica di per sé la presenza certa di un tumore, perché può anche essere spia di altri problemi (per esempio emorroidi), però è un segnale che va approfondito. La raccomandazione è ricorrere alla colonscopia, esame che permette sia di individuare e rimuovere eventuali lesioni pretumorali, sia di evidenziare lesioni tumorali che vengono diagnosticate in modo corretto attraverso la successiva biopsia. In alcuni casi si può ricorrere alla cosiddetta colonscopia virtuale, basata sull’utilizzo della Tac. Si tratta di una tecnica di studio non invasiva che però non consente la rimozione di eventuali lesioni durante la sua esecuzione».
È qui che entrano in gioco i batteri e i carboidrati. Per individuare le loro responsabilità Martin ha usato topi predisposti al tumore perchè portatori delle stesse mutazioni che affliggono l'uomo. Li ha prima trattati con alte dosi di un cocktail di antibiotici (ampicillina, metronidazolo, neomicina e vancomicina) fin dalla gravidanza, riducendo così di 10 mila volte i batteri presenti nel loro colon. E già con questo intervento il ricercatore aveva ottenuto due risultati: il numero dei polipi, che di solito precorrono l'insorgere del tumore, si era ridotto di 2-6 volte, e i polipi stessi, osservati al microscopio, erano più benigni del solito. Il metronidazolo in particolare era l'antibiotico che più influiva sul numero dei polipi senza alterare troppo l'abbondanza del microbiota, a riprova che non tutti i batteri contribuiscono in ugual misura allo sviluppo del tumore del colon. Ma altri ricercatori avevano notato che lo sviluppo dei polipi nei topi non avviene dalla nascita, ma tra la terza e la sesta settimana di vita, quando vengono svezzati e passano all'alimentazione adulta. Questi studi hanno consentito a Martin di concentrare l'attenzione sulla dieta. Altri studi avevano messo i carboidrati sul banco degli imputati: uno in particolare, pubblicato a novembre del 2012 da un altro giovane ricercatore, Jeffrey Meyerhardt del Dana Farber Cancer Institute di Boston, Massachusetts, aveva dimostrato che il consumo di carboidrati influenza il rischio di ricadute nei pazienti con tumore al colon avanzato.
Per verificare l'ipotesi, Martin ha diviso i topi in due gruppi: a uno ha dato la solita dieta nella quale il 58% delle calorie era fornito da carboidrati; nella dieta dell'altro gruppo la quota calorica fornita dai caroidrati non superava il 7% del totale. La dieta con pochi carboidrati ha ridotto il numero di polipi in modo analogo a quanto avevano fatto gli antibiotici, e anch'essa ha agito sul microbiota: pur non alterandone l'abbondanza, come gli antibiotici, ne ha cambiato la composizione riducendo la presenza dei batteri che metabolizzano i carboidrati e produttori di acido butirrico, come i Firmicutes e i Clostridia. E pare che il brutto ceffo di questa storia sia proprio lui, il butirrato: quando i ricercatori hanno somministrato questo acido grasso ai topi trattati con antibiotico, sono aumentati sia la proliferazione cellulare sia i tumori nel piccolo intestino. Lo studio sembra insomma dimostrare che il cancerogeno sia il butirrato, metabolita prodotto dai batteri nalla digestione dei carboidrati, e che proprio lui induca l'abnorme proliferazione delle cellule nei topi geneticamente predisposti al tumore del colon. Tanto che Martin conclude: «Il nostro studio suggerisce che sia riducendo i carboidrati della dieta, sia cambiando la composizione della comunità batterica intestinale si potrebbe ottenere una riduzione del rischio di tumore al colon in chi è ereditariamente predisposto a questo tumore».
Fonte: Focus
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