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Mercoledì, 14 Maggio 2014 00:00

Candida recidiva e integrazione di melatonina

Pubblichiamo un articolo redatto e inviato dal Dott. Milo Manfredini, esperto Naturopata, che propone un interessante rimendo contro la Candida Vaginale Recidiva, rimedio che prevede, l'utilizzo di Melatonina utilizzata per rafforzare il sistema immunitario. Lavorando come Operatore del Benessere Naturale, mi sono presto reso conto che ci sono alcune patologie che possono più di altre trovare una soluzione abbinando al trattamento suggerito dal medico un trattamento naturopatico mirato. Sicuramente la candida vaginale con andamento cronicizzate o recidivante fa parte di questa categoria. Ogni giorno parlo con ragazze disperate per le continue recidive della candida e le aiuto a liberarsene definitivamente. Ho osservato che quando la candida diventa recidivante è perché si è creato uno squilibrio immunitario che le ha permesso di insediarsi a livello intestinale in modo imponente (candidosi intestinale). Da quel momento, ogni volta che il sistema immunitario si indebolisce o non riesce più a svolgere il proprio compito adeguatamente, la candida si rinvigorisce e si manifesta in modo sintomatico a livello vaginale.

Il mio trattamento naturopatico si basa su 3 concetti di grande importanza:
- indebolire la candida
- riequilibrare l’organismo che è stato compromesso dalla candida, in particolare l’intestino tenue
- potenziare il sistema immunitario in modo che possa debellare la candida

I risultati ottenuti da questo trattamento sono così importanti da avermi spinto a diffonderlo anche sul web. Ora tutte le persone che lottano contro questo fungo possono beneficiare di questo trattamento reperendolo facilmente su www.candidarecidivante.com. Nel programma presentato sul sito è compresa la mia assistenza via mail. Dopo un primo periodo con prodotti “standardizzati” vado progressivamente a personalizzare il mio trattamento naturopatico seguendo le persone nel migliore dei modi. Molto frequentemente mi ritrovo a consigliare di integrare la Melatonina prodotta da Clavis. Ho osservato infatti che la candida tende spesso a recidivare in coincidenza con l’ovulazione o nella fase pre-mestruale, in coincidenza cioè di sbalzi ormonali che spesso disorientano il lavoro del sistema immunitario. Integrare melatonina permette di ottenere una modulazione ormonale e di conseguenza una maggior stabilità dell’efficacia del sistema immunitario, evitando in questo modo le recidive. Ancor di più ho trovato utile l’integrazione di melatonina nelle persone particolarmente stressate e con una scarsa qualità del sonno. Stress e insonnia sono infatti tra i primi fattori che abbassano il sistema immunitario e ostacolano una corretta guarigione dalla candida.

Fonte: Melatonina.it

Pubblicato in Informazione Salute

Seguire un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati può ridurre significativamente l’infiammazione nelle persone affette da diabete di tipo 2. Per ridurre il rischio di infiammazione, chi soffre di diabete dovrebbe ridurre al minimo o evitare l'assunzione di carboidrati.  Una dieta appropriata – povera di carboidrati – potrebbe ridurre notevolmente l’infiammazione nei pazienti diabetici. A suggerirlo sono stati alcuni scienziati dell’Università di Linköping, in Svezia.

Sull’argomento, recentemente abbiamo riportato la ricerca condotta dal Department of Diabetes Complication Biology del Novo Nordisk A/S di Malov e pubblicata sul Journal of Leukocyte Biology. Lo studio, coordinato dal prof. Alexander Rosendahl, è stato eseguito attraverso una batteria di test su modello animale che hanno permesso di scoprire come le cellule del sistema immunitario, chiamate macrofagi, invadano il tessuto pancreatico durante le prime fasi della malattia diabetica. Dopo di che, queste cellule infiammatorie producono una grande quantità di citochine, che sono delle proteine pro-infiammatorie che contribuiscono direttamente all’eliminazione delle cellule beta che producono insulina nel pancreas, e la cui conseguenza è proprio il diabete. Da qui, l’idea che il diabete non sia altro che una malattia infiammatoria, o comunque derivata da un’infiammazione”.

Forse è proprio tale infiammazione che potrebbe essere ridotta attraverso una dieta low-carb. Per arrivare a tali conclusioni, i ricercatori guidati dal dottor Hans Guldbrand e il professor Fredrik H Nyström, hanno reclutati 61 adulti volontari affetti da diabete di tipo 2. Molti studi confermano che i livelli di infiammazione generale sono molto più alti nei pazienti con diabete, rispetto a persone a cui non è stata diagnosticata tale malattia. L’infiammazione, ovviamente, porta a tutta a una serie di complicazioni non indifferenti. Si parla di aumentato rischio di problemi cardiovascolari e altre complicazioni abbastanza rilevanti. Per questo motivo, i ricercatori hanno voluto valutare l’eventuale efficacia di una dieta studiata appositamente per i pazienti diabetici.

Nei due anni di ricerca, i volontari sono stati invitati inizialmente a seguire dei consigli nutrizionali da un esperto di alimentazione. Dopo 6 mesi dall’inizio dello studio ai pazienti sono stati testati i marcatori infiammatori. Dopo tale periodo, quando la dieta avrebbe potuto già apportare eventuali benefici, gli scienziati hanno scoperto che i partecipanti avevano tutti perso mediamente 4 chilogrammi (8,8 libbre) di peso. Chi aveva seguito una dieta a basso contenuto di carboidrati aveva mostrato un’infiammazione di gran lunga ridotta rispetto a chi stava seguendo un’alimentazione con pochi grassi. Se è pur vero che i farmaci attuali offrono una grande gestibilità della malattia, è anche vero che non sono privi di effetti collaterali, specialmente a lungo termine. Ecco perché una dieta appropriata potrebbe offrire moltissimi vantaggi.
Come sempre, i ricercatori consigliano di consultarsi prima con il proprio medico curante prima di cambiare alimentazione.

Lo studio è stato recentemente pubblicato su Annals of Medicine con il titolo “Advice to follow a low-carbohydrate diet has a favourable impact on low-grade inflammation in type 2 diabetes compared with advice to follow a low-fat diet” (Il consiglio di seguire una dieta a basso contenuto di carboidrati ha un impatto favorevole sul basso grado di infiammazione nel diabete di tipo 2 rispetto al consiglio di seguire una dieta a basso contenuto di grassi).


Fonte: La Stampa

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La radice di zenzero è un ben nota per i suoi meravigliosi benefici per la salute. Ma lo sapevate che  può anche migliorare la funzione del cervello? Nel nostro mondo esigente, la capacità cognitiva acuta è essenziale. Recenti studi hanno dimostrato che lo zenzero è un alleato eccezionale della memoria e dell’apprendimento. Inoltre, esso svolge un ruolo sostanziale contro lo stress ossidativo del cervello e malattie neurologiche. Come alimento funzionale, lo zenzero è difficile da battere! Utilizzato in tutto il mondo come un delizioso ingrediente culinario, ha anche una lunga esperienza di benefici di guarigione. Lo zenzero ha dimostrato di:   -

Ridurre il dolore - Prevenire il diabete - Combattere il cancro - Guarire le infezioni batteriche e fungine - Ridurre l’infiammazione - Lenire la nausea - Diminuire l’influsso di sostanze chimiche tossiche - Trattare steatosi epatica non alcolica - Proteggere contro le radiazioni - Migliorare la salute cardiovascolare - Difendere contro il rischio di ictus - Curare l’ emicraniaE c’è di più. La ricerca attuale ha dimostrato che lo zenzero può contribuire a rendere più intelligenti e proteggere contro affezioni neurologiche. La ricerca pubblicata in Evidence Based Medicine Complementari ha rilevato che il consumo di zenzero da parte di donne di mezza età, ha migliorato la loro capacità cognitiva. Alcuni dei sessanta partecipanti  allo studio sono trattati con un placebo, altri con estratto di zenzero standardizzato (400 e 800 mg una volta al giorno) per due mesi.

Memoria e funzione cognitiva dei volontari sono state poi valutate a distanza di uno e due mesi dal trattamento. Coloro che hanno ricevuto l’estratto hanno dimostrato un considerevole aumento della memoria, mentre lo stress ossidativo cerebrale è stato significativamente ridotto. Un altro studio ha scoperto che la radice di zenzero aiuta a ridurre la neurotossicità del  glutammato monosodico (MSG). Ratti albini maschi sono stati trattati con  una dose giornaliera (4 mg / per kg) di puro MSG per trenta giorni.che ha causato una diminuzione significativa di adrenalina e noradrenalina insieme a riduzione di  neurotrasmettitori serotonina e dopamina. Tuttavia, dopo una iniezione di estratto di radice di zenzero (100 mg / per kg) che è stato somministrato per la stessa durata di tempo, gli ormoni e neurotrasmettitori sono aumentati significativamente. I ricercatori hanno poi scoperto che quando MSG ed estratto di radice di zenzero sono stati somministrati contemporaneamente, l’estratto di radice di zenzero ha mitigato gli effetti dannosi del glutammato monosodico (MSG). I ricercatori hanno concluso che lo zenzero agisce come agente protettivo potente.

Lo zenzero è pertanto una radice di protezione eccezionale contro i danni da MSG che è collegato con il morbo di Alzheimer, sclerosi multipla, morbo di Parkinson, l’autismo e il disturbo da deficit di attenzione. Combatte il declino cognitivo legato all’età e la tossicità di additivi alimentari tossici. Usato come spezia per una cucina saporita, preparato come un tè o in forma di estratto, aiuta a preservare la salute del cervello, favorisce la memoria e l’apprendimento.

Fonte: Medi Magazine

 

Pubblicato in Informazione Salute
Mercoledì, 07 Maggio 2014 00:00

I medici spiegano l'importanza della vitamina D

Sono sempre più numerosi gli studi condotti da ricercatori universitari che dimostrano l'importanza della vitamina D quale prezioso elemento per il mantenimento di un sistema nervoso stabile e per la salvaguardia di un'azione cardiaca e una coagulazione sanguigna normali.

Vitamina D: la sua funzione

Tali funzioni sono infatti collegate ad una buona utilizzazione da parte dell'organismo di calcio e fosforo, i cui livelli vengono mantenuti stabili dalla vitamina D che ne stimola l'assorbimento nel tratto gastrointestinale, che mette in circolo quelli presente nelle ossa e che ne stimola la ritenzione da parte dei reni. Una ricerca recente, mettendo a confronto 1.200 abitanti di 10 Paesi europei che hanno sviluppato tumore del colon con altrettante persone sane, ha inoltre dedotto che a maggiori tassi di vitamina D nel sangue corrisponde un rischio di cancro inferiore del 40% circa. La vitamina D, che per molto tempo è stata associata solo alla formazione delle ossa, di fatto esercita la sua funzione benefica su tutto l'organismo umano, influenzando in maniera importante le risposte immunitarie e le difese cellulari. Proprietà antinfiammatorie, attenuazione dei disturbi asmatici, di artrite reumatoide, del morbo di Crohn, stimolazione del sistema immunitario, prevenzione dell'Alzheimer e della sclerosi multipla, sono altri benefici legati ad una quantità corretta e sufficiente di vitamina D presente nel sangue. 

L'organismo umano ha unicamente due modalità per ottenere ed accumulare vitamine D: attraverso il cibo oppure attraverso l'esposizione a Raggi UV, raggi che compongono sia la luce solare sia quella prodotta da apparecchiature abbronzanti, ergo Solarium. L’alimentazione, tuttavia, non è la principale fonte di vitamina D, soprattutto in un Paese come l’Italia. Secondo il Professor Michael Holick, della Boston University, tra l'80 ed il 100% della vitamina D necessaria deriva dall'esposizione ai raggi ultravioletti. La pelle esposta a Raggi UV produce infatti vitamina D. E' questo il motivo per cui è molto importante, per l'uomo, esporsi con continuità alla luce: sia questa quella naturale prodotta dal sole oppure quella prodotta da apparecchiature abbronzanti. I Raggi UV responsabili della “stimolazione della pelle” con conseguente produzione di vitamina D, sono infatti gli
stessi che compongono sia raggi solari che luce prodotta da solarium. Solarium che, tuttavia, debbono rispondere a norme costruttive rigide e regolamentate da severe leggi sia europee che italiane. Vitamina D e Raggi

UV: perché ricorrere ai Raggi UV prodotti da Solarium

Ma se i Raggi UV sono indispensabile per la produzione e lo stoccaggio di vitamina D, è altrettanto vero che, in un Paese come l'Italia, stile di vita e latitudine concorrono a fare sì che l'esposizione alla luce solare (leggi Sole) non sia sufficiente per la produzione minima di vitamina D richiesta dal corpo. Da un lato gli anziani non amano esporsi al sole, dall'altro sono pochissimi i giovani che trascorrono almeno due mesi estivi interamente all'aria aperta. A ciò si aggiunge il fatto che il Nord Italia ha la stessa latitudine di Montreal: il che significa zone in cui la lunghezza d'onda della luce solare è inefficace per la produzione di vitamina D per tutti i mesi di novembre, dicembre, gennaio, febbraio. Non è pertanto un caso che studi e ricercatori ritengono che i picchi invernali di sindrome influenzale potrebbero essere dovuti ad una carenza di vitamina D a seguito di una minor esposizione alla luce solare. Scarsa esposizione al sole - impieghi d'ufficio tengono lontani dall'aria aperta la maggior parte dei lavoratori - e lunghezza d'onda inefficace in certe zone e in certi periodi, concorrono a rendere auspicabile il ricorso a Raggi UV prodotti da fonti alternative rispetto a quella solare, il che significa esposizione a luce prodotta da apparecchiature abbronzanti. Apparecchiature abbronzanti che, nel momento in cui rispondono alle Norme imposte dalla Legge, non fanno altro che fornire alla pelle una luce realizzata con gli stessi identici elementi con cui si forma la luce solare. E' pertanto scorretto, nel momento in cui il solarium sia a norma, pensare che vi siano delle differenze tra luce solare e luce prodotta da solarium; che la luce solare faccia bene mentre quella artificiale sia pericolosa e dannosa. Trattandosi della stessa “cosa”, luce solare e luce artificiale sono caratterizzate dai medesimi pro e contro: la giusta quantità fa bene, l'eccesso fa male. Del resto è regola universale: diverse vitamine ed elementi naturali, assunti in quantità esagerata, provocano danni e malattie. Sunto della posizione del Professor Cascinelli, medico chirurgo specializzato nello studio dei melanomi, in merito ai Raggi UV contenuti nella luce solare e prodotti da lampade UV.

Intervista all'esperto

D: Con la nuova classificazione i Raggi UV vanno ad affiancare fattori di rischio come l’amianto, gli alcolici, il fumo, l’epatite o il radon (questi agenti, infatti, compaiono nella lista di cancerogeni «gruppo uno» dell’Airc). Dire che sono fattori di rischio certi per i tumori significa anche dire che sono egualmente pericolosi?

R: Non direi. L’amianto è pericoloso per tutti, così come le sigarette, il rodon etc. Le sostanze sopra elencate,
inoltre, sono dannose per l’uomo a prescindere dalla quantità che se ne assume. Nel caso dei Raggi UV, e in
questo senso intendo sia i Raggi ultravioletti contenuti nella luce solare sia quelli prodotti da lampade in
quanto sostanzialmente identici, la questione fondamentale è dettata dalla quantità assunta. Discorso, d’altro
canto, che vale in senso generale : in primis l’alimentazione stessa. Cibi necessari per la salute dell’uomo
risultano benefici se assunti in quantità idonea, pericolosi in caso di abuso.
Tornando ai Raggi UV, bisogna aggiungere un secondo punto relativo ai singoli soggetti. I Raggi UV sono
potenzialmente pericolosi solo per i soggetti con pelle chiara che si scotta sempre e non si abbronza mai. E
l’esempio classico è il «paradigma degli Scozzesi»: in Scozia ci sono 13-15 casi di melanoma ogni 100mila
abitanti. Fra gli scozzesi emigrati nel Queensland, «the sunshine state» in Australia, la cifra sale a 63 ogni
100mila, proprio per la combinazione micidiale fra caratteristiche genetiche e esposizione ambientale. In
Europa l’incidenza del melanoma è massima in Scozia , Svezia e Norvegia, dove di certo non abbonda
il sole, ed è invece più bassa nei paesi Mediterranei... Osservazioni che fanno ipotizzare che i fattori
endogeni (colore capelli, cute…) siano di gran lunga più importanti rispetto ai fattori esogeni
(esposizione ai Raggi UV). L’esposizione a lampade UV presenta pro e contro sovrapponibili a quelli che si
riscontrano a seguito dell’esposizione alla luce solare: Raggi UV contenuti in questa ultima e prodotti da
lampade UV sono infatti identici. Le lampade UV, va però precisato, hanno un contenuto di UV che è circa 6
o 9 volte superiore a quello del Sole all'equatore a mezzogiorno: ciò significa unicamente che l’esposizione a
lampade UV debba essere molto più breve rispetto a quella alla luce del sole. Per questo sono necessari una
ponderata programmazione dei tempi a prescindere dal fototipo di appartenenza nonché l’utilizzo di occhiali
ad hoc per proteggere gli occhi. I soggetti di fototipo 1 e 2 non debbono essere esposti a queste lampade così
come i minorenni e gli infanti.
Ci tengo inoltre a precisare che i fototipi 2-4 sono potenzialmente a rischio nella fase di acquisizione
dell'abbronzatura. E' quindi indispensabile procedere con molta cautela (come durante l'esposizione alla luce
solare) fino a quando la cute è abbronzata. E' pericoloso utilizzare creme ad altissima protezione per esporsi
più a lungo senza scottarsi perchè queste non proteggono dai danni potenziali a lungo termine degli UV.
Sarebbe molto utile che la programmazione del trattamento con UV, anche se non previsto dalla legge, fosse
fatta da un esperto dermatologo.
Sintetizzando il mio discorso, concludo dicendo che:
• non condivido la decisione dello IARC di inserire i Raggi UV tra i cancerogeni di primo livello
• i Raggi UV contenuti nella luce solare e prodotti da lampade UV presentano le medesime
caratteristiche fisiche – è erroneo pensare diversamente
• l’esposizione ai Raggi UV non è legata solo ad un discorso estetico, ma svolge anche funzioni
medico-biologiche di grande importanza, come ad esempio la produzione di vitamine D
• la questione fondamentale legata all’esposizione ai Raggi UV (luce solare, lampade UV) è quella
che vale in generale: giusta quantità assunta. In considerazione dell’importanza dei tempi di
esposizione sarebbe pertanto estremamente utile che gli stessi fossero definiti da un esperto
dermatologo in grado di valutare in grande dettaglio il fototipo e i caratteri ereditari di ogni singolo
soggetto
Non bisogna temere il sole, né le lampade se usate correttamente: è il messaggio che gli esperti che mettono
sotto i riflettori un'altro aspetto positivo della tintarella. Dai raggi Uv noi ricaviamo il 90% della vitamina D
circolante nel nostro organismo. E’ questo, nello specificico, il campo di ricerca della dalla scienziata
norvegese Alina Carmen Porojnicu del Norwegian Radium Hospital.
Sunto della posizione della Professoressa Porojnicu, Medico specializzato nello studio della
vitamina D e dei suoi effetti positivi in relazione al cancro.

D: Il suo campo di ricerca è focalizzato sullo studio dei benefici della vitamina D. Ci può fare una sintesi?

R:. La vitamina D è oggi riconosciuta indispensabile non solo per combattere il rachitismo, ma anche per
regolare il ritmo circadiano (ovvero influire sulla produzione di ormoni e più in generale sul ritmo
fisiologico degli esseri viventi), per prevenire cancri agli organi interni inclusi il cancro al colon, il
carcinoma mammario e il cancro alla prostata, per regolare la moltiplicazione cellulare e il sistema
immunitario. Una ricerca Usa calcola che, incrementando di una piccola quantità l'apporto vitamina D, si
riduce del 17% l'incidenza e del 29% la mortalità per tumore. I benefici, e qui non li si possono elencare tutti,
sono davvero molteplici. Basti pensare che sono 4.000 i geni che, nell’uomo, vengono regolati dalla
vitamina D: ciò significa che TUTTI i tessuti del corpo sono ricettori di vitamina D. Non solo quindi,
come si credeva in passato, ossa e reni.

D: Ma come si “rifornisce” l’uomo di vitamina D?

R: Le modalità sono due : cibo o esposizione ai Raggi UV. In un Paese come la Norvegia, dove lavoro, il
50% del fabbisogno è fornito dall’alimentazione. In Scandinavia si mangiano salmone, merluzzo e fegato di
merluzzo che sono davvero ricchi di vitamina D. Se si guarda il “mondo nella sua interezza”, tuttavia, si può
dire che “noi” siamo un’eccezione che non conferma la regola che vuole, effettivamente, che il 90% della
vitamina D sia prodotta dal corpo in seguito all’esposizione ai Raggi UV. In che modo? La pelle esposta
ai Raggi UV – ovvero sole e lampade UV – cattura questi raggi grazie ad un precursore del colesterolo. A
questo punto produce un composto inattivo che arriva al fegato e che dal fegato passa ai reni producendo
calcitriolo che è la forma attiva della vitamina D3. Da qui viene immesso nell’organismo dando vita ai
benefici che abbiamo sopra elencati.
Per produrne una dose minima bastano 15 minuti sotto il sole italiano in estate, il che sarebbe come bersi 250
millilitri di olio di fegato di merluzzo, o bere 5 litri di latte e consumare 100 uova senza gli effetti collaterali
dell'abbuffata.
Il sole, dunque, è davvero indispensabile. Tornando agli studi effettuati, è emerso che l’incidenza di
melanoma è molto più alta tra chi lavora al chiuso (ovvero chi è poco esposto al Raggi UV), molto più bassa
tra pescatori e agricoltori (molto esposti ai Raggi UV) bassissimo nelle popolazioni africane. Altri studi
rivelano che pazienti affetti da melanoma vivono di più se esposti ai Raggi UV - in quanto hanno un
incremento di produzione di vitamina D - e che vi è una correlazione tra il periodo di diagnosi di tumori al
colon, seno, prostata e linfoma e tasso di sopravvivenza. Se la diagnosi è fatta in estate, i pazienti hanno
maggiori probabilità di sopravvivenza e, a nostro avviso, questo è dovuto al fatto che hanno maggior quantitàdi vitamina D.

D: Qual è la dose/quantità di vitamina D necessaria all’uomo?

R: Il livello desiderabile è di 100 nanomoli/L. Ora, in Italia la popolazione ne ha mediamente 40 in inverno e
60 in estate. Ciò significa che effettivamente anche da voi – nonostante le condizioni climatiche diverse da
quelle Scandinave – esistono dei problemi.

D: Come approvvigionarsi dunque?

R: Aumentando l’esposizione ai Raggi UV. Ci tengo a questo punto a sottolineare, come ha fatto il prof.
Cascinelli prima di me, che un fotone è un fotone: questo significa che i Raggi UV – che sono appunto
composti da fotoni, sono sempre uguali. Ciò scagiona, di conseguenza, i Raggi UV prodotti da lampade
solari equiparandoli a quelli del sole. Il mio lavoro si svolge principalmente in Norvegia, dove il sole è
talmente poco da non consentire un apporto sufficiente di vitamine D per la salute dell’individuo (il cibo
infatti abbiamo detto che in Scandinavia copre il 50% del fabbisogno) Anche i lettini solari pertanto, possono
contribuire a raggiungere la quota ottimale di vitamina D. Con un nostro studio abbiamo dimostrato che per
toccare i livelli estivi di vitamina D basta fare una lampada (di 5-12 minuti) due volte a settimana per 5
settimane. Noi le consigliamo anche agli anziani che prendono pochissimo sole e a chi ha problemi alle
ossa. Il discorso può essere analogo in Italia, non solo per il periodo invernale (quando effettivamente c’è
meno sole) ma anche per quello estivo. Lo stile di vita, infatti, impone lavori d’ufficio quindi scarsa
propensione ad esporsi per almeno 15 minuti ogni giorno al sole: esposizione, inoltre, che deve comportare
tutto il corpo e non solo viso, gambe e braccia. Concludo, riconfermando quanto detto dal Prof. Cascinelli,
nel caso di esposizione al sole, così come a lampade UV: è indispensabile calcolare precisamente la durata di
esposizione in base a fototipo e caratteri ereditari. Il mio discorso, infatti, prescinde da un’esposizione a fini
estetici, ma va letta in chiave medica. L’esposizione va calcolata al fine della produzione di vitamina D.”

Fonte: Airc

LEGGI ANCHE: Sistema immunitario debole e malattie associate alla carenza di Vitamina D: ecco i principali segnali

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Pubblicato in Informazione Salute
Mercoledì, 07 Maggio 2014 00:00

La psoriasi triplica il rischio di ictus

Chi soffre di psoriasi rischia il triplo di incorrere in un ictus ischemico e di sviluppare un ritmo cardiaco anomalo: a sostenerlo è uno studio pubblicato sullo European Heart Journal da un gruppo di ricercatori danesi del Copenhagen University Hospital Roskilde da cui emerge anche che avere meno di 50 anni e soffrire di una grave forma della malattia aumentano ulteriormente il rischio.

La psoriasi è una patologia della pelle cronica e infiammatoria che colpisce tra il 2% e il 4% della popolazione per un totale, in Italia, di circa 2 milioni di malati. Nei soggetti affetti da questa malattia il sistema immunitario attacca le cellule della pelle sana, stimolando la produzione di nuova pelle: e così il processo di rigenerazione delle cellule epiteliali, che normalmente avviene ogni 3-4 settimane, avviene in due sei-giorni, provocando la comparsa di macchie screpolate bianche e rossastre. I ricercatori hanno analizzato i dati di 36765 soggetti affetti da psoriasi lieve e di 2793 da forme gravi della malattia raccolti tra il 1997 e il 2006, mettendo in evidenza che nei pazienti sotto i 50 anni con forme leggere della patologia il rischio di avere un ritmo cardiaco anormale (fibrillazione atriale) è più alto del 50% e il rischio di sviluppare un ictus ischemico aumenta del 97%, mentre nei pazienti con psoriasi grave il pericolo di incorrere nelle due patologie cardiache aumenta rispettivamente del 198% e del 180%. «Il rischio relativo di fibrillazione atriale e di ictus ischemico è maggiore nei pazienti giovani con psoriasi grave», spiegano gli studiosi. Che puntualizzano: «Possiamo affermare che c'è un legame tra psoriasi e aumento del rischio, ma non che una patologia sia causa dell'altra». 

Fonte: Il Sole 24 Ore

 

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Mercoledì, 07 Maggio 2014 00:00

Spermatozoi protetti con la melatonina

La melatonina è fondamentale per rallentare l’invecchiamento, conservando più a lungo la qualità degli spermatozoi e dei follicoli. Espino Javier del Dipartimento di Fisiologia, Facoltà di Scienze dell’Università di Extremadura, in Spagna, ha pubblicato recentemente uno studio sulla rivista scientifica specializzata “Fertility end Sterility” proprio sulla capacità che avrebbe la melatonina di arrestare l’apoptosi (morte cellulare) degli spermatozoi tramite la sua azione di contrasto sulla formazione dei radicali liberi.

Mentre I meccanismi dell’apoptosi delle cellule somatiche sono stati studiati a lungo, quelli sui gameti non sono ancora del tutto chiariti e molte sono le ricerche in corso, tra cui quella condotta da Hiroshi Tamuta della Yamaguchi University Graduate School of Medicine del Giappone. Nello studio condotto da Tamuta, si è cercato di rintracciare la relazione tra stress ossidativo e la scarsa qualità degli ovociti, valutando se la capacità antiossidante della melatonina migliora la qualità degli ovociti. A questo scopo i ricercatori che hanno collaborato allo studio hanno analizzato il liquido follicolare durante il prelievo degli ovociti e hanno riscontrato che la concentrazione intrafollicolare di 8-idrossi-2'-deossiguanosina (8-OHdG) nelle donne con alti tassi di ovociti degenerati era significativamente più alta rispetto a quella presente nelle donne con bassi tassi di degenerazione degli ovociti. La deossiguanosina è una delle basi costituenti il DNA, quando si ossida si trasforma in 8-idrossi-2 deossiguanosina, (8-OHdG) e la sua presenza è indice di danno biologico da stress ossidativo. Questo è il più preciso parametro per valutare il danno provocato dai radicali liberi. La melatonina, quindi, sembra essere in grado di contrastare i danni prodotti dai radicali liberi.

La melatonina, scoperta nel 1958 dal dermatologo Aaron Lerner, è una sostanza prodotta da una piccola ghiandola, l’epifisi, presente alla base del cervello. Questa molecola pare risincronizzare l'organismo, mantenendo integri sistema neuroendocrino, ormonale e quello immunitario. E’ fondamentale nella regolazione del ciclo ritmo circadiano dell’organismo, infatti il buio stimola l’epifisi a produrla e a metterla in circolo, in risposta alla mancata stimolazione dei fotorecettori retinici da parte della luce diurna, mentre in presenza di luce l’attività della ghiandola viene inibita e la produzione di melatonina diminuisce. Nelle ore notturne la sua concentrazione nel sangue aumenta, raggiungendo il picco tra le 2 e le 4 della notte per poi diminuire gradatamente con le prime ore del mattino. La produzione di melatonina aumenta nell'età giovanile per poi tornare a diminuire negli anziani.

Fonte: Melatonina.it



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La chiarificazione del burro è un processo antico di oltre cinquemila anni ed è conosciuto in tutto il mondo. La rivalutazione di questo prodotto è essenziale per una dieta sana ed equilibrata. Ne parla l’esperto Il burro chiarificato possiede numerose proprietà, non solo culinarie, ma anche per la salute e il benessere. Foto: su licenza Creative Commons/Rainer Zenz Siamo ciò che mangiamo, si usa dire. Ma, ancora di più, siamo sani in base a ciò che mangiamo. Eh sì, perché un buon cibo viene considerato un mezzo di prevenzione per eccellenza. Per rifarci alle parole di Ippocrate, il padre della medicina, possiamo dire: «Fa che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo».

Tra gli alimenti più in voga del momento, non possiamo non citare il burro chiarificato. Che, anche se apparentemente si veste di moderno è in realtà un metodo molto antico di purificare il burro. Tra questi il più famoso è il cosiddetto “ghee” indiano, la cui preparazione è completamente differente dal burro chiarificato in versione occidentale. Vera e propria medicina Fin dall’antichità il burro chiarificato è stato considerato non solo un condimento o un componente fondamentale per i riti religiosi, ma una vera e propria medicina. Nei paesi orientali si dice che più è vecchio, più è in grado di curare malattie anche importanti. Viene considerato il ringiovanimento per eccellenza. Ma è ottimo per migliorare la digestione e l’assimilazione del cibo che ingeriamo. Non a caso, viene anche sfruttato come veicolo per l’assunzione di rimedi naturali. Ottimo nei soggetti anziani, in convalescenza e nei casi di deperimento organico. Ma i suoi benefici non finiscono qui. Viene prescritto, infatti, nei disturbi dell’infertilità, nei problemi mentali-emozionali e del sistema nervoso.

In India si dice che è un potente Rasayana (che promuove la longevità) in grado di agire sul midollo e il tessuto nervoso. Eccellente dunque anche per gli studenti, per favorire l’apprendimento, la concentrazione e la memoria. Nonostante sia un grasso, secondo alcuni autori, è il migliore che si possa usare per rafforzare il fegato. Aiuta a disintossicare l’organismo e a migliorare il nutrimento del sangue. Per uso esterno si usa per guarire le ferite (meglio se insieme alla curcuma), per le infiammazioni, i problemi alle articolazioni e il benessere della vista. In India si chiama ghrta ma si può anche dire usli ghee o, più semplicemente, ghee (si legge ghi). In alcuni testi indiani si legge: “Shastham dhismrutimedhagnibalau shukrachakshusham”, ciò significa che può essere adoperato in oltre cento modi se lo si usa correttamente. Esiste anche una variante chiamata Shata Dhout Ghrta – ovvero il ghee lavato 100 volte – si tratta di un antico procedimento di emulsionamento con acqua che rende il prodotto sofficissimo, utilizzato come vero e proprio cosmetico anti età.

Cosa accade a livello chimico? Il burro chiarificato diviene totalmente differente dal burro di uso comune. Ecco perché è così importante per la salute e la cucina. In due parole, si tratta di un grasso puro, per cui a differenza del burro normale sono state eliminate due componenti importanti: la caseina e l’acqua. In termini di conservazione ci sono molte differenze: il prodotto tradizionale non si può conservare a lungo, mentre quello chiarificato con metodi antichi sì. Il motivo è semplice: il burro contiene acqua; anzi, minuscole goccioline d’acqua che per ovvi motivi sono a rischio di attacchi batterici. Ma come è possibile trasformare un panetto solido di burro da conservare necessariamente al fresco, in un prodotto morbidissimo che si conserva anche a temperatura ambiente? «Il burro è un’emulsione di acqua (circa il 15%) in grasso (circa l’82%) – spiega l’ormai famoso chimico Dario Bressanini – Quando scaldiamo il burro a 100°C, l’acqua contenuta comincia a bollire e osserviamo la caratteristica “schiuma”. Quando l’acqua è evaporata completamente, la temperatura può ricominciare a salire, tuttavia tra i 120°C e i 140°C la caseina ancora presente comincia a brunirsi, e non è possibile raggiungere temperature superiori senza far annerire e bruciare tutto».

Per ovviare al problema, esiste solo un metodo: chiarificare il burro. Chiarificarlo significa «liberarlo sia dell’acqua che della caseina e tenere solo i grassi. In questo modo i grassi del burro possono raggiungere le temperature ottimali per friggere la vostra cotoletta senza correre il rischio di bruciare», continua Bressanini. Il classico panetto che tutti conosciamo contiene, oltre ai grassi, anche acqua e proteine del latte che bruciano a temperature relativamente basse con un punto di fumo compreso fra i 120°C e i 130°C, mentre il burro chiarificato può arrivare fino 190°C - 200°C.

La preparazione del burro chiarificato “Occidentale” Come accennato in precedenza, è un po’ differente la procedura di preparazione del nostro burro chiarificato con quello tipico orientale. Dario Bressanini ci consiglia, qualunque metodo si scelga, di ricordare alcune caratteristiche importanti: «Prima di cominciare ricordiamo le temperature critiche fondamentali: il burro fonde completamente a 40°C; l’acqua bolle a 100°C; la caseina si dora velocemente a 120°C; brucia a 140-150°C; il grasso bolle attorno ai 180°C». Una volta tenute a mente queste cose, la procedura per chiarificare in maniera casalinga il burro è abbastanza semplice. Si scioglie il burro in un pentolino o nel forno, usando un pentolino a fondo spesso. Attendiamo che la temperatura salga a quella di ebollizione dell’acqua. «Anche se il burro raggiunge l’ebollizione per breve tempo non succede nulla di irreparabile: siamo a 100°C e la caseina ancora non si degrada. E non temete di degradare il burro, perché la temperatura di ebollizione del grasso è molto superiore», spiega Bressanini.

A questa temperatura vedrete formarsi della schiuma in superficie. Si tratta di proteine “ingabbiate” da bolle di aria. «Il metodo tradizionale suggerisce di schiumarle via. Io preferisco agitare un poco la superficie per rompere le bollicine d’aria e far precipitare sul fondo la maggior parte della caseina, in questo modo non rischio di buttare del grasso con la schiumatura», consiglia Bressanini. Al termine della cottura, e dopo un raffreddamento, potrete vedere come la caseina sia precipitata al fondo. «Tradizionalmente il burro chiarificato si conservava in un recipiente di vetro, non avendo a disposizione un modo per raffreddare e riformare un panetto. Io preferisco invece riottenere un panetto di burro. […] Aspettate che si sia raffreddato a sufficienza, tenendo presente che il burro fino a 40°C sarà ancora completamente fuso. A questo punto potete trasferirlo in un bicchiere di plastica. Copritelo con della pellicola e raffreddatelo in frigorifero o in freezer». La scelta tra freezer e frigo comporta alcune differenze sull’esito finale. In freezer si raffredda più velocemente, per cui formerà dei cristalli rendendo il burro più duro. In frigo si ottiene un burro trasudante di liquido. Una volta terminato il raffreddamento di un paio d’ore si può togliere totalmente la caseina e conservare il burro chiarificato in frigo.

E se volessimo preparare il ghee? La preparazione del ghee è anch’essa molto semplice da riprodurre in casa. La differenza sostanziale è che la caseina, secondo Bressanini, si separa dopo aver reagito con gli zuccheri in quella che viene definita reazione di Maillard. Questo conferisce al prodotto finale un aroma molto più intenso. Quando si prepara il ghee, si fa evaporare tutta l’acqua attraverso una cottura a bagnomaria. Al termine dell’evaporazione, quindi attorno ai 120°C, la caseina – spiega Bressanini – si deposita sul fondo e inizia a cambiare colore. «In alcune zone dell’India la caseina viene fatta brunire molto più a lungo, fino ad arrivare ai 140°C. Durante il riscaldamento si producono anche delle sostanze antiossidanti che aiutano a preservare il Ghee per molti mesi a temperatura ambiente». Al termine, il burro viene filtrato e fatto raffreddare, e si conserva per mesi; anzi anni, fuori dal frigo. Su yotube si possono vedere alcune applicazioni pratiche del ghee:

Il risultato Cosa ha di tanto speciale il ghee? È un burro nobile, ma soprattutto purissimo, non contenendo più né proteine né acqua. Contiene circa il 60% di grassi saturi, la maggior parte di questi a catena corta. Si tratta, cioè, di grassi che il corpo non immagazzina ma che usa quotidianamente. Vi sono anche, in proporzioni relativamente elevate, acidi grassi insaturi (mediamente il 25-30%) e, in minima parte, polinsaturi (4%). La quantità di colesterolo è davvero minima: 8 mg per cucchiaino di ghee. Un cucchiaio di burro chiarificato possiede circa 300 calorie. E l’industria? L’industria utilizza un metodo completamente diverso da quello casalingo: lo fonde a vapore alla temperatura di fusione tipica del burro (mediamente 45 gradi Centigradi), dopo di che esegue una centrifugazione per eliminare proteine, lattosio e acqua. Infine, viene scaldato a 100°C per eliminare ancora gli ultimi residui di acqua e umidità.

Paese che vai, burro che trovi Il burro chiarificato è uno dei pochi alimenti condivisi dal resto del mondo. In Inghilterra, per esempio, lo usano soprattutto per cucinare crostacei e carni nelle cotture a fuoco lentissimo. La Germania, invece, lo chiama Butterschmalz – letteralmente burro strutto. Mentre per gli americani è immancabile nei frutti di mare cucinati al vapore e conditi con la salsina Drawn Butter. In Uganda la salsa con il burro chiarificato si chiama Eshabwe e si tratta di un prodotto a cui viene aggiunta acqua salata fino a far diventare il prodotto bianco. Sostanzialmente si esegue un’operazione inversa – ovvero dopo aver prodotto il burro chiarificato lo si riconverte in una sorta di burro. In Brasile prende il nome di Manteiga Clarificada, ma la vera patria di questo eccezionale prodotto è l’Oriente. In Pakistan, India e Bangladesh, infatti, è usato alla stregua del nostro olio di oliva. Ottimo soprattutto insieme ai legumi, nelle fritture, col pane non lievitato e nella preparazione del pollo pakistano Karahi. In Medioriente si chiama Samnah, in Etiopia Nit’r k’ibe; in Marocco si dice Smen e viene preparato insieme a decotti di erbe o spezie. Infine, viene sepolto sotto terra per anni prima dell’uso. In Libano il burro viene cotto fino a che il grasso della padella “diviene trasparente quanto una lacrima” (dam’at el-eyn). Nel Maghreb è usanza sotterrare vasetti di burro chiarificato per anni e recuperarli solo dopo le nozze della figlia che li userà al banchetto del suo matrimonio. Alcune popolazioni fin dall’antichità lo usano come cosmetico per pelle e capelli. Per questi ultimi, aggiungono dell’ocra rossa a fini decorativi. Che dire, invece, dell’Italia? La medicina popolare lo chiamava ONT e, alla stregua del ghee, si conservava in contenitori di terracotta.

Infine, un ultima – buona – notizia per chi soffre di intolleranze alimentari: «Il burro chiarificato dovrebbe essere privo di lattosio, oltre che di caseina: quindi, se avete problemi di intolleranza al lattosio, presente nel burro normale, potete consumare quello chiarificato», conclude Bressanini. Chi è Dario Bressanini Chimico, ricercatore presso il dipartimento di Scienze chimiche e ambientali dell’Università degli studi dell’Insubria a Como, inizia la sua attività di divulgazione scientifica partecipando alla prima edizione di Cosmo, siamo tutti una rete, trasmissione scientifica di Rai3 andata in onda il 4 settembre 2010. Collabora poi con la RSI - Radiotelevisione Svizzera Italiana e in radio è ospite ricorrente della trasmissioni Moebius e Il Gastronauta di Radio24.

Fonte: La Stampa

 

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Una nuova ricerca suggerisce che i vegetariano sarebbero meno sani con una minore qualità della vita che non gli onnivori, o chi mangia carne. Lo studio che va in controtendenza a tutti gli altri Secondo un nuovo studio, i vegetariani, in quanto a salute, se la passerebbero peggio di chi mangia anche la carne. Ma come? Non si era detto che chi segue una dieta vegetariana è più in salute, vive più a lungo ed è anche più felice? Sì. Sono infatti numerosi gli studi che supportano questa tesi. E ora, ecco arrivarne un altro che invece suggerisce l’esatto opposto: i vegetariani sarebbero meno sani e con una più scarsa qualità della vita rispetto a chi mangia anche carne.

Cerchiamo di capire come mai ora gli scienziati affermano che la dieta vegetariana non sarebbe così valida. A sostenerlo sono i ricercatori della Medical University di Graz in Austria, coordinati dalla dott.ssa Nathalie Burkert, che hanno condotto uno studio cross-sezionale basato su dati ricavati dal “Austrian Health Interview Survey” e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista PLoS ONE. Burkert e colleghi hanno preso in esame 1.320 soggetti che sono stati abbinati in base alla loro età, sesso e status socio-economico. Di questi vi erano 330 vegetariani, 330 che mangiavano carne, ma anche molta frutta e verdura, e poi 300 che seguivano una dieta normale, ma con poca carne e, infine, 330 soggetti che seguivano una dieta ricca di carne. Di tutti i partecipanti sono poi stati analizzati lo stile di vita e altri fattori che potessero abbassare o aumentare il rischio di determinate malattie. I risultati hanno mostrato, in linea generale, che i vegetariani sono più attivi fisicamente, fumano meno e bevono meno alcol, rispetto a coloro che consumano carne.

Allo stesso modo, chi segue una dieta vegetariana ha in genere un più alto status socio-economico e un basso Indice di Massa Corporea (o BMI). A prima vista parrebbe dunque che i vegetariani vivano meglio e, di conseguenza, più in salute. Ma, secondo i ricercatori, non sarebbe così. Da quanto emerso nello studio, i vegetariani avevano due volte più probabilità di soffrire di allergie, presentavano un aumento del 50% di attacchi di cuore e un aumento del 50% dell’incidenza di cancro. Ma, scusate, il cancro non era legato al consumo di carni, soprattutto rosse? Qui le cose si complicano e cominciamo a sentire i primi segni di uno stato confusionale. Eppure, leggendo quanto riportato nello studio, secondo i ricercatori è proprio così: i vegetariano sarebbero più a rischio cancro rispetto agli onnivori. E, sempre rispetto a questi ultimi, la loro salute sarebbe più scarsa. Per esempio, secondo lo studio, i vegetariani hanno riportato elevati livelli di compromissione da disturbi, malattie croniche, e di soffrire in modo significativo più spesso di ansia e depressione. I vegetariani, poi, sarebbero dei soggetti più inclini a pratiche di malasanità, come evitare le vaccinazioni e non fare cure preventive. «Il nostro studio – scrivo gli autori – ha dimostrato che gli adulti austriaci che seguono una dieta vegetariana sono meno sani (in termini di cancro, allergie e disturbi di salute mentale), hanno una minore qualità della vita, e ricorrono anche più spesso all'assistenza medica».

«Pertanto – proseguono i ricercatori – un continuo, energico programma di salute pubblica per l’Austria è necessario al fine di ridurre il rischio per la salute a causa di fattori nutrizionali». Che dire allora delle linee guida del Ministero della Salute, o di quanto suggerito dall’AIRC (l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro)? L’AIRC, per esempio, dichiara che «Un’alimentazione sana, che tenga alla larga anche le malattie di cuore oltre che quelle tumorali, richiede soprattutto di ridurre drasticamente l’apporto di grassi e proteine animali, favorendo invece l’assunzione di cibi ricchi di vitamine e fibre. Per questo occorre portare a tavola almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno; privilegiare nella scelta di cereali, pane, pasta e riso quelli integrali e abbinarli sempre a un po’ di legumi». E, sempre a proposito di tumori, il Ministero della Salute dice: «L’alimentazione influenza anche l’insorgenza di alcuni tumori. Un consumo eccessivo di carni rosse e carente di fibre (frutta, verdura, legumi e cereali integrali) è associato al rischio di sviluppare tumori dell’apparato digerente (stomaco, esofago, intestino)». A questo punto, i sintomi di confusione mentale hanno preso il sopravvento sugli altri. Ma, con quel briciolo di lucidità che ci resta, possiamo ritenere che una dieta sana sia quella che non esclude le sostanze utili al buon funzionamento dell’organismo; che l’equilibrio deve essere la prima cosa e che gli alimenti che ingeriamo dovrebbero essere “vivi” e sani – cosa che è difficile ottenere con una dieta fatta di cibi raffinati, industriali e via discorrendo. Quanto agli studi. Be’, come sempre, aspettiamo il prossimo che contraddica il precedente.

Fonte: La Stampa

 

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Essere in sovrappeso è collegato ad un più alto rischio di artrite reumatoide nelle donne, secondo i risultati della ricerca presentata questa settimana al College of Rheumatology Annual Meeting a Washington, DC L’artrite reumatoide è una malattia cronica che provoca dolore, rigidità, gonfiore, limitazione del movimento e la perdita di funzione di più articolazioni.

Anche se i giunti sono le principali aree interessate da RA, l’infiammazione può svilupparsi anche  in altri organi. Si stima che la malattia colpisce di solito le donne due volte più spesso degli uomini. Diversi studi  hanno suggerito un legame tra l’eccesso di peso e rischio RA, ma le prove erano in conflitto. Così i ricercatori del Brigham and Women ‘s Hospital, Harvard Medical School e della Harvard School of Public Health hanno  deciso di indagare ulteriormente per confermare e capire meglio la connessione. ”L’obesità o sovrappeso è un importante problema di salute pubblica mondiale”, spiega Lu Bing, MD, DrPH, ricercatore presso il Brigham and Women Hospital di Boston, e investigatore capo dello studio. Lui ed i suoi colleghi hanno cercato di saperne di più sulle connessioni tra l’eccesso di peso nelle donne e RA, attraverso questa ricerca. I ricercatori hanno esaminato la relazione tra pre-esistenti condizioni di sovrappeso e obesità e il rischio futuro di sviluppare AR nelle donne. I dati sono stati raccolti da due ampi studi di coorte, il Nurses Health Study and Nurses Health Study II. Nel primo studio, 121.700 donne di età 30-55 sono stati inclusi. Nel secondo studio, 116.608 donne di età 25-42 sono stati inclusi. Tutti i partecipanti hanno risposto a questionari per determinare lo stile di vita, le esposizioni ambientali e l’indice di massa corporea (BMI comunemente chiamato). Una persona con un BMI di 25-29,9 è considerato in sovrappeso. Una persona con un BMI di 30 o superiore è considerato obeso. RA è stata determinata sulla base di questionari di screening del tessuto connettivo e la revisione delle cartelle cliniche. L’analisi è stata aggiustata per fattori quali l’età, il fumo, il consumo di alcol, l’allattamento al seno, uso di contraccettivi orali, menopausa e l’uso di ormoni post-menopausa . I risultati hanno mostrato che le donne che erano in sovrappeso o obese hanno una maggiore incidenza di sviluppo futuro RA rispetto a donne con peso normale. Hazard ratio è un termine statistico per descrivere un rapporto dei tassi di incidenti che portano  i partecipanti allo studio allo sviluppo di RA. Le donne che erano in sovrappeso con BMI da 25 a 29,9, hanno avuto un rapporto di rischio di 1,19 nella prima coorte e 1,78 nella seconda coorte (vale a dire un rischio del 19 per cento e il 78 per cento maggiore di sviluppare RA, rispettivamente).

Le donne che erano obese, con un indice di massa corporea superiore a 30, hanno avuto una HR di 1,18 e 1,73 nelle due coorti, rispettivamente. “Questo studio esamina il ruolo potenziale di obesità e sovrappeso nello sviluppo di RA,  può fornire informazioni romanzo sulla eziologia di RA ed  ha grandi potenziali implicazioni per la salute pubblica,” afferma  il Dott. Lu. Il finanziamento per questo studio è stato fornito dal National Institutes of Health.

Fonte: Medi Magazine

 

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Ci sono numerosi benefici per la salute associati al consumo di pesce azzurro. La ricerca indica che può ridurre il rischio di malattie cardiache, migliorare la capacità mentale, scongiurare il cancro, prevenire la demenza alcol-correlata e ridurre il rischio di artrite reumatoide. Il pesce azzurro è molto ricco di omega 3 acidi grassi polinsaturi, mentre il pesce bianco contiene livelli molto più bassi di questi acidi grassi. Oltre ad essere una fonte eccellente di omega 3 oli, il pesce azzurro contiene molte proteine magre.

 Benefici del pesce azzurro

Si  consiglia di mangiare una porzione (140 grammi) di pesce azzurro a settimana. Il Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito, consiglia ai cittadini di mangiare almeno due porzioni di pesce a settimana, di cui una di pesce azzurro. Mangiare una porzione di pesce azzurro, come sgombro o salmone, potrebbe ridurre il rischio di sviluppare l’artrite reumatoide del 50%. I benefici per la salute del consumo di pesce azzurro includono: Prevenzione della malattia cardiovascolare - uno studio pubblicato sul American Journal of Physiology – Regulatory, Integrative, and Comparative Physiology, ha dimostrato che gli oli di pesce azzurro sono in grado di “contrastare gli effetti negativi dello stress mentale sul cuore”. Riduzione del rischio di artrite reumatoide - una ricerca pubblicata sulla rivista Annali delle Malattie Reumatiche ha scoperto che una porzione a settimana di pesce grasso può ridurre il rischio di artrite reumatoide di oltre il 50% . Protezione contro la demenza alcol-correlata - un team di ricercatori della Loyola University Chicago Stritch School of Medicine ha scoperto che mangiare pesce grasso può proteggere gli alcolisti dalla demenza . Il loro studio ha dimostrato che le cellule cerebrali esposte ad una miscela di olio di pesce e alcool avevano il 95% in meno di neuroinfiammazione e morte neuronale rispetto alle cellule cerebrali che sono state esposti solo all’alcol. Prevenzione dei tumori del cavo orale e della pelle – il consumo di pesce azzurro può proteggere da tumori del cavo orale e della pelle, come segnalato da uno studio pubblicato sulla rivista Carcinogenesis. Gli autori hanno scritto: “Abbiamo scoperto che l’acido grasso omega-3 ha selettivamente inibito la crescita delle cellule maligne e pre-maligne a dosi che non incidono sulle cellule normali”. Aumento abilità sensoriale, cognitive e motorie – il consumo di pesce grasso durante gli ultimi mesi di gravidanza può avere effetti positivi sullo sviluppo sensoriale, cognitivo e sviluppo motorio del bambino. Protezione della visione - gli acidi grassi del pesce azzurro sono in grado di proteggere gli anziani dalla perdita della vista. DHA è un acido grasso omega 3 presente nel pesce. Gli scienziati della Facoltà di Medicina e Odontoiatria di Alberta hanno identificato un legame tra il consumo di pesce azzurro e un minor rischio di perdita della vista negli anziani. Migliorare la memoria - un team di ricercatori dell’Università di Pittsburgh ha pubblicato uno studio sulla rivista PLoS One , che suggerisce che mangiare pesce grasso può migliorare la memoria. Quali sono i pesci azzurri? Pesci azzurri sono le specie di pesci che contengono quantità significative di olio in tutti i tessuti del corpo e nel ventre. Pesci azzurri sono: Trota,Salmone,Sardine,Pilchards,Aringa,Anguilla,Bianchetti,Sgombro.

Perché non bisogna mangiare troppo pesce azzurro? Secondo la Food Standards Agency, i pesci oleosi contengono sostanze inquinanti cosiddett PCB (policlorobifenili) e diossine. Questi inquinanti non hanno un effetto immediato sulla salute, ma dopo l’esposizione a lungo termine. Le diossine sono composti altamente tossici che sono inquinanti ambientali persistenti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che oltre il 90% dell’esposizione umana a questi inquinanti avviene attraverso la carne e latticini, pesce e crostacei. Elevata esposizione a diossine possono causare lesioni cutanee e compromissione del sistema immunitario e riproduttivo.

Fonte: Medi Magazine



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