×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 905

È noto che l'assunzione di sodio in eccesso nuoce alle arterie. È d'altra parte risaputo che il potassio, delle arterie e del cuore, promuove la salute.  Lo ricorda uno studio pubblicato di recente su Nutrition Journal: anche quando il sodio è troppo, che in corpo ci sia del buon potassio compensatorio è cosa decisamente buona e positiva. L'estate in questo senso ci viene incontro: tra i frutti che più degli altri sono ricchi di questo prezioso elemento ci sono le albicocche, le prugne, le banane.

Peperoncino, caffè e curcuma, seguite a breve passo dallo zenzero, sono le ricchissime spezie che ne contengono di più e che sono note per le loro importantissime qualità anche su fronti diversi, non per ultimo il supporto a chi soffre di cancro, Alzheimer, Parkinson, oltre che per le doti antiinfiammatorie e antiossidanti. Anche i semi oleosi sono importanti alleati in questo calcolo, poiché di potassio sono molto ben fornite: prima vengono le mandorle, poi gli arachidi, i pistacchi, le nocciole, gli anacardi, i pinoli. La menta piperita si colloca in una buona posizione, rendendo ancora più gustosa una buona bevanda rinfrescante che ne contenga le verdi foglie come ingrediente. Anche il cacao ne contiene una buona quantità così che l'uso gustoso di cioccolato ad alta percentuale di cacao o del cacao amaro stesso, può essere più che giustificata in un contesto di equilibrio alimentare positivo. Con il potassio, farsi del bene è saporito, gustoso e colorato di spezie, frutti e sapori buoni, golosi e sani che aiutano a restare in salute a lungo; ricordarlo è sempre utile.

Fonte: Eurosalus 

La gran parte degli studi dimostra che nelle donne livelli di colesterolemia più elevati della norma non costituiscono un fattore di rischio cardiovascolare, anzi sono protettivi per numerose malattie. Già nel mio libro “Mangia Grasso e Vivi Bene” avevo riportato le conclusioni di alcune ricerche: il ricercatore francese, Dr Bernard Forette, aveva scoperto che le donne anziane con livelli di colesterolo molto alti vivevano più a lungo. Al contrario, nelle donne con valori molto bassi la mortalità era cinque volte maggiore. L'autore di queste ricerche metteva in guardia dall'uso delle statine in questi soggetti; in un congresso della NHLBI (National Heart, Lung and Blood Institute-USA) i ricercatori, esaminando tutti gli studi a disposizione sull'argomento, giunsero alla stessa conclusione, cioè che la mortalità è maggiore nelle donne con bassi livelli di colesterolo rispetto alle donne con livelli più alti. A conferma di quello che già sapevamo, è giunto un recente studio norvegese, durato 10 anni, i cui risultati ribadiscono che le donne con livelli di colesterolemia elevati vivono più a lungo e hanno un ridotto rischio di infarto e ictus rispetto a quelle con livelli più bassi.

Ma gli uomini non devono temere, perché la stessa cosa vale anche per loro. Vediamo i dati: rispetto alle donne che hanno valori di colesterolo sotto i 193mg/dl, quelle con valori oltre 270mg/dl mostrano una riduzione della mortalità del 28% e una riduzione del rischio cardiovascolare del 26%; rispetto agli uomini che hanno valori di colesterolo sotto i 193mg/dl, quelli con valori oltre i 270mg/dl hanno un rischio di morte ridotto del 11% e un rischio cardiovascolare ridotto del 20%. Pertanto, questo studio mostra che avere il colesterolo sopra i 193mg/dl fa vivere più a lungo, soprattutto le donne e che il più delle volte la prescrizione delle statine non solo è pericolosa, ma non ha alcuna base scientifica. Ma d'altronde, tutta la teoria lipidica (grasso = infarto) non è mai stata verificata. Una teoria diventata dogma per soddisfare le brame di lucro delle aziende che vendono farmaci contro il colesterolo e delle industrie che ci propinano oli di semi, margarine e malsani alimenti dietetici.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

La ripetuta segnalazione di importanti connessioni tra condizione allergica e comparsa di tiroidite (Hashimoto o Graves) evidenzia la possibilità di trattare le tiroiditi intervenendo sulla infiammazione immunologica, quindi sia con farmaci e rimedi naturali modulanti, sia con l'importantissima azione della alimentazione.  Le prime evidenze sono comparse quando ci si è resi conto che durante la stagione primaverile, nelle persone con allergia respiratoria e già affette da una qualche forma di tiroidite, aumentavano nettamente i valori degli anticorpi antitireoglobulina o antitireoperossidasi.

Il dato è interessante perchè generalmente l'immunologia teneva ben differenziate le patologie autoimmuni d'organo (tiroidite autoimmune) e le allergie respiratorie, come se fossero proprie di due persone diverse. Il lavoro in questione, effettuato da ricercatori giapponesi e pubblicato sugli International Archives of Allergy and Immunology (Takeoka K et al, Int Arch Allergy Immunol 2003 Nov;132(3):268-76) ha rilevato questo notevole aumento di anticorpi dovuto semplicemente al contatto con gli allergeni respiratori tipici della primavera. La notazione interessante a cui ha portato il lavoro è che la attivazione allergica (che è TH2 correlata) determinava contemporaneamente l'innalzamento del titolo di anticorpi antitiroide e di anti tireoglobulina, oltre a un incremento della conta degli eosinofili.

Questo conferma la importantissima connessione tra allergia (anche se apparentemente limitata al naso!) e lo stato immunologico dell'intero organismo. Le recenti ricerche sul BAFF hanno consentito di capire che una ipersensibilità alimentare può provocare uno stato infiammatorio specifico e attivare una modulazione immunologica sui linfociti T che contribuisce alla attivazione della autoimmunità. L'alimentazione quindi è realmente al centro di un processo che la maggior parte dei clinici e degli endocrinologi (fortunatamente non tutti) tende a considerare come un fatto a sé stante e non connesso con il resto dell'organismo. Questa connessione invece consente anche di intervenire efficacemente sulla terapia della tiroidite e aiutare la guarigione o almeno la sua cura. Come è stato possibile arrivare a capire che con l'alimentazione è possibile trattare con successo anche forme di artrite reumatoide o di artrite reattiva. L'ungherese Molnàr ha poi presentato nel 2007 una importante review sulla relazione presente tra condizione allergica, livello di IgE e di citochine infiammtorie e sviluppo di tiroidite.

Per noi di Eurosalus questa non è una novità, ma è bene ogni tanto ricordarla a chi crede che trattare l'allergia o l'autoimmunità sia solo un problema di farmaci sintomatici e non invece un problema di equilibrio generale dell'intero organismo. L'intervento alimentare ad esempio rimane oggi uno degli strumenti più efficaci per agire sulla tiroidite: sia attraverso lo studio delle allergie alimentari ritardate (intolleranze) sia attraverso diete attive sul controllo dell'insulina.

Fonte: Eurosalus

Artrite reumatoide, malattie infiammatorie intestinali (Crohn e Colite ulcerativa), tiroidite di Hashimoto, artrite psoriasica, diabete giovanile e malattie demielinizzanti (come la sclerosi multipla), ogni giorno che passa sembrano condividere sempre più dei meccanismi infiammatori comuni che coinvolgono anche la reazione alimentare ai lieviti e alle sostanze fermentate. Negli ultimi anni abbiamo spesso riferito su queste pagine quanto fosse importante la reazione infiammatoria da cibo nel favorire la comparsa di malattie autoimmuni come l'Artrite reumatoide o le malattie infiammatorie intestinali (Crohn e Colite ulcerativa). Al punto che nel nostro centro seguiamo da anni le persone con malattie autoimmuni attraverso percorsi terapeutici specifici che prevedono l'analisi approfondita dei livelli infiammatori e delle reattività agli alimenti.

Negli ultimi mesi sono stati pubblicati su riviste scientifiche di rilievo numerosi articoli e ricerche che stanno evidenziando la presenza della reazione ai lieviti come elemento favorente, se non addirittura causale, di molte malattie autoimmuni. Si sta cioè confermando quello che da oltre 30 anni stiamo verificando nella nostra pratica clinica. La reazione ai lieviti e alle sostanze fermentate sta diventando il più frequente riscontro nei pazienti che visitiamo nei nostri centri, seguito a ruota dalla reazione a glutine/frumento e poi al nichel e ai prodotti correlati. Senza ombra di dubbio le "banali" reazioni al latte e ai derivati, almeno nella popolazione mitteleuropea, non sono più le preminenti e hanno ceduto il passo alle reazioni (intolleranze) emergenti legate a nuove abitudini alimentari e a modalità produttive diverse da un tempo. Serve però ricordare che nelle malattie autoimmuni l'azione patologica è provocata alla fine da citochine infiammatorie come il BAFF, stimolate anche dall'assunzione di alcuni alimenti, come già descritto per il Lupus e per le alterazioni della tiroide. Nell'ottobre 2013 un gruppo di ricercatori italiani ha pubblicato su Clinical Reviews in Allergy and Immunology un articolo sulla relazione tra lievito di birra e malattie autoimmuni (titolo intrigante: "Dalla cottura del pane all'autoimmunità"), affrontando il tema della malattia autoimmune attraverso una chiave di lettura innovativa e particolare (Rinaldi M et al, Clin Rev Allergy Immunol. 2013 Oct;45(2):152-61. doi: 10.1007/s12016-012-8344-9).

Il gruppo di ricerca ha analizzato i dati del National Center for Biotechnology Information (NCBI) cercando le similitudini e le omologie tra gli autoantigeni (le sostanze a cui si indirizzano gli autoanticorpi) e altre sostanze biologiche. In modo sorprendente si è evidenziata una omologia dell'83% tra i mannani del Lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae) e i più comuni autoantigeni. Significa che quando l'organismo inizia a produrre anticorpi nei confronti dei lieviti (in accordo con le ipotesi di Finkelman e di Ligaarden), cioè in modo del tutto naturale quando i lieviti e le sostanze fermentate sono sistematicamente presenti nella alimentazione abituale, o in virtù di un eccesso alimentare (pizze, pane, formaggi, vino, cracker, brioche, yogurt), produce anche anticorpi che possono reagire con autoantigeni, cioè con parti dell'organismo che vanno a indurre, favorire e forse causare le diverse malattie autoimmuni. Gli anticorpi contro i lieviti possono essere ritrovati nell'organismo molti anni prima della comparsa di una malattia autoimmune, come è stato verificato nei campioni ematici prelevati e poi conservati in emoteca di militari che anni dopo avevano sviluppato il morbo di Crohn. 

Questo significa che una semplice attenzione dietologica, che favorisca la varietà alimentare e il controllo dei segnali di allarme (infiammazione da cibo e valore delle IgG, come avviene con RecallerProgram) può aiutare a prevenire e a curare efficacemente questo tipo di malattia, come da anni pratichiamo. Senza voler entrare nella descrizione dettagliata di ciascun lavoro, è utile richiamare: un lavoro ungherese pubblicato sullo European Journal of Neurology che documenta una alta prevalenza di anticorpi anti lievito e anti glutine nei soggetti con sclerosi multipla (Banati M et al, Eur J Neurol. 2013 Nov;20(11):1492-5. doi: 10.1111/ene.12072. Epub 2013 Jan 7); due lavori effettuati presso la Facoltà di farmacologia di Monastir (Tunisia) pubblicati su Endocrine Research e su Rheumatology International relativi alla presenza di anticorpi anti lievito di birra nelle disfunzioni tiroidee (il Graves più dell'Hashimoto) e sulla elevazione significativa degli anticorpi IgG nei confronti dei lieviti in caso di Lupus Eritematoso Sistemico (LES). Entrambi i lavori segnalano perciò una possibile causa o concausa ambientale (la dieta) nello sviluppo di queste malattie; un lavoro pubblicato sugli Annals of Rheumatic Disease da un gruppo di reumatologi della Northwestern University Feinberg School of Medicine, di Chicago, in cui si evidenzia con precisione che i recettori TLR2 presenti nelle articolazioni sono i probabili responsabili del mantenimento della reazione infiammatoria cronica, identificando una sostanza che li attiva proveniente dal tessuto sinoviale. È importante ricordare che i TLR2 sono tra i recettori attivati dagli alimenti nelle reazioni da cibo e fanno parte della immunità innata e questo studio riporta l'attenzione non tanto sulla reazione anticorpale, ma sulla attivazione infiammatoria (Shi B eta al, Ann Rheum Dis. 2012 Aug;71(8):1411-7. doi: 10.1136/annrheumdis-2011-200899. Epub 2012 Apr 20).

Un tale livello di produzione scientifica continua a indicare una direzione di approfondimento in cui la relazione ambientale (ad esempio dieta, reazione ad alimenti e inquinamento) gioca un ruolo decisivo per lo sviluppo dell'autoimmunità. Il pensiero sull'autoimmunità sta cambiando grazie alle acquisizioni più recenti. Oggi non è certo più quello della produzione di un anticorpo contro se stessi, ma della alterazione del coordinamento immunologico interno, mentre i sintomi presenti nelle malattie autoimmuni sono legati alla anomala aggregazione di anticorpi, autoanticorpi e proteine alimentari omologhe che diventano stimolanti dei processi infiammatori cronici (chi pensa alla autodistruzione, si sbaglia...) Si tratta di un bel salto di qualità: oggi la gente percepisce erroneamente la malattia autoimmune come una incomprensibile azione dell'organismo contro se stesso. La realtà è che si tratta di uno scoordinamento immunologico in cui le scelte alimentari individuali possono avere un peso rilevante, rimettendo in mano a ciascuno le redini del proprio destino. Gli stimoli infiammatori che possono derivare da una alimentazione con eccesso di lieviti stanno diventando i più importanti e la conocenza di questi elementi può mettere ciascuno in condizione di capire come mantenere il proprio benessere o riconquistarlo qualora lo avesse smarrito...

Fonte: Eurosalus

La prevenzione strumentale del cancro della mammella dovrebbe consentire di scoprire un tumore ancora ai primi statdi, per cui trattandolo dovremmo vedere ridotto il numero dei tumori del seno incurabili, che arrivano all'ultimo stadio.  Si tratta di un principio basilare, su cui si confronta da sempre la medicina. Se una azione preventiva non riduce il numero delle morti tumorali, non serve: vuol dire che non si riesce ad agire sulla malattia, ma solo su quello che si crede che la malattia rappresenti. Fa scalpore, evidentemente, un articolo pubblicato su una delle riviste più importanti al mondo di medicina, il New England Journal of Medicine, nel novembre 2012. La valutazione super documentata di trenta anni di screening mammografico ha portato infatti alla scoperta di un numero molto elevato di cancri allo stato iniziale, che non ha per niente ridotto il numero di forme tumorali esiziali, cioè di morti per cancro del seno.

In parole più povere, scoprendo un mucchio di piccoli cancri ed operando le donne per questo problema, dovremmo vedere ridotto il numero globale di morti per cancro del seno. Invece le morti per cancro rimangono quasi uguali nonostante la individuazione mammografica di un numero decisamente elvato di forme tumorali iniziali. Vediamo alcuni numeri, come riportati dai ricercatori statunitensi: tra il 1976 e il 2008, l'introduzione dello screening mammografico negli Stati Uniti ha raddoppiato il numero di individuazioni di cancro allo stadio iniziale. Da 112 donne per 100.000 all'anno si è arrivati a 234 per 100.000. Contemporaneamente c'è stata una riduzione del numero di casi di donne con tumore del seno allo stadio avanzato la cui incidenza è andata da 102 a 94 per 100.000. Quindi, a fronte di 122 donne per 100.000 a cui è stato diagnosticato un cancro del seno "grazie" allo screening mammografico, solo 8 hanno avuto un beneficio effettivo (cioè non sono morte), mentre le altre 114 per 100.000 sono state operate inutilmente e hanno vissuto con minore o maggiore sgomento e danni la trafila della diagnosi e del trattamento antitumorale che purtroppo tutti conosciamo. Il numero totale di donne che in USA hanno ricevuto un trattamento probabilmente inutile sale quindi a 1.300.000 nel corso degli ultimi 30 anni. Nel solo 2008 (ultimo anno della verifica dei dati) è stata fatta una diagnosi di cancro "inutile" in 70.000 donne americane, cioè nel 31% delle donne che si sono ammalate di cancro negli Stati Uniti. Sono numeri imponenti che obbligano serie riflessioni.

Ne derivano almeno quattro possibili considerazioni: La mammografia identifica tumori in eccesso e diventa un classico esame che diagnostica dei falsi positivi. La mammografia induce un tale danno radioattivo da generare una risposta tumorale in aumento. La mammografia identifica tumori veri (confermati da biopsia e intervento) che sarebbero guariti da soli se lasciati a se stessi. L'incidenza della forma tumorale del seno è più che raddoppiata in 30 anni, e nessuno a livello politico agisce attraverso la prevenzione primaria (nutrizione, controllo dell'insulina, attività fisica). L'ipotesi numero 1 è numericamente sostenibile, ma non vera, perché quando poi si apre una mammella o si fa una biopsia si trova effettivamente una forma tumorale ben definita. Insomma la mammografia diagnostica dei cancri veri, che probabilmente dobbiamo imparare a conoscere meglio. L'ipotesi numero 2, anche se ha qualche spunto di verità (è infatti ancora aperta la polemica tra chi vorrebbe una mammografia annuale a partire dai 40 anni e tra chi la richiede ogni 24-30 mesi solo a partire dai 50), non può essere considerata vera, perché la stessa statistica di mortalità emerge con valori uguali dalle poche persone che ripetono numerose mammografie come da quelle che ne hanno effettuate pochissime.  L'ipotesi numero 4 è solo parzialmente vera (la prevalenza tumorale è infatti un po' aumentata, ma non del doppio) mentre purtroppo pochi (soprattutto in Italia) si occupano realmente della prevenzione primaria. L'ipotesi numero 3 è quella più interessante e rivoluzionaria. I tumori trovati con la mammografia sono veri, è indubbio, ma prima che venissero scoperti con la mammografia non davano nessun segno di sé. Probabilmente regredivano spontaneamente o trovavano una condizione di quiescenza che non avrebbe portato all'evidenza clinica della malattia.

Per i soli USA parliamo di 1.300.000 donne negli ultimi 30 anni che sarebbero guarite spontaneamente dal cancro del seno. Si tratta di un numero enorme di persone, di una realtà sotto gli occhi di tutti che dovrebbe fare saltare sulla sedia politici e amministratori sanitari. Anche perché lo stesso tipo di valutazione è stata fatta anche per il cancro della prostata. Ne deriva una sola considerazione: la mammografia va inserita in un contesto personale di valutazione e non considerata un obbligo assoluto. E in secondo luogo, di fronte a 1.300.000 donne guarite spontaneamente dal cancro del seno negli ultimi 30 anni nei soli Stati Uniti vale la pena di iniziare davvero e finalmente a studiare i meccanismi di autolimitazione e controllo della forma tumorale che ogni essere vivente è in grado di mettere in atto. Anziché studiare solo i farmaci per colpire, dare forse valore ai comportamenti che salvano e alle integrazioni che difendono significherebbe iniziare a rispettare le persone e a comprendere i loro messaggi di malattia nel modo più giusto.

Fonte: Eurosalus

La Multiple Sclerosis International Federation (MSIF) ha recentemente pubblicato dei nuovi dati sulla prevalenza della Sclerosi Multipla (SM) a livello mondiale. I dati si riferiscono ad una indagine che ha preso in considerazione l'80% della popolazione mondiale. In generale, i ricercatori hanno scoperto che l'incidenza della SM è aumentata drammaticamente negli ultimi 5 anni. Si tratta di un aumento del 10% che interessa 2,3 milioni di persone in tutto il mondo.  I ricercatori sospettano che la vitamina D possa essere il motivo di questo fenomeno: la carenza di vitamina D aumenta il rischio di SM; la somministrazione della stessa vitamina può aiutare a rallentare la progressione o la comparsa della malattia. Inizialmente i ricercatori hanno ipotizzato che la vit D giocasse un ruolo importante nella SM considerato che la prevalenza di questa malattia aumenta man mano che ci si allontana dall'equatore. Paesi alle latitudini più distanti dall'equatore ricevono meno insolazione e di conseguenza le popolazione risultano più carenti di vitamina D.

I dati del 2013 confermano pienamente questa ipotesi. Le nazioni con la più alta incidenza di SM sono Canada (291 per 100.000), Norvegia (160 per 100.000) e Svezia (189 per 100.000), tutte collocate a nord e con bassa insolazione. Un altro motivo che induce i ricercatori a credere alla relazione “carenza vitamina D/maggiore incidenza SM” sta nel fatto che le persone che si trasferiscono da Paesi con più alta incidenza di SM verso i Paesi più vicini all'equatore, il rischio di ammalarsi di SM si riduce considerevolmente. Al contrario quando il trasferimento avviene da regioni più vicine all'equatore verso regioni più a nord, la SM aumenta. Studi che hanno coinvolto migranti vietnamiti che si sono spostati in Francia hanno mostrato che in queste persone dell'incidenza di SM aumentava significativamente rispetto ai connazionali rimasti in vietnam. Questo dimostra che i fattori ambientali, tra cui anche il grado di insolazione, giocano un ruolo fondamentale in questa malattia, in modo decisamente maggiore rispetto alla genetica. In conclusione la relazione tra SM e aree geografiche è chiara. Le popolazioni che vivono più lontane dall'equatore e ricevono minore insolazione, sia nell'emisfero boreale che in quello australe, hanno una maggiore incidenza di SM.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

LEGGI ANCHE: Sistema immunitario debole e malattie associate alla carenza di Vitamina D: ecco i principali segnali

Puoi trovare ed ordinare Vitalife D chiamando lo 06 62286090 o cliccando qui

 

La terapia antitumorale ha aggiunto una nuova opzione a quelle esistenti. Si tratta di una terapia concettualmente rivoluzionaria e dai costi decisamente minori delle terapie attualmente esistenti. Il concetto rivoluzionario è caratterizzato dagli studi scientifici di Pier Mario Biava, scienziato italiano che ha intuito, sperimentato e poi applicato in pratica la possibilità pratica di ricondurre la cellula tumorale al suo controllo originario. La cellula tumorale infatti ha perso la regolazione iniziale, quella che viene impostata dai fattori di differenziazione embrionali. La cellula tumorale è spesso una cellula staminale mutata, ma la possibilità di riaggiustarla e di farle riacquisire le caratteristiche controllate precedenti è oggi una realtà. Biava utilizza per questo i fattori embrionali provenienti dallo Zebrafish, uno dei pesciolini da laboratorio più noti ed utilizzati al mondo. I fattori embrionali di questo pesciolino, vengono somministrati, nel momento giusto, alle persone malate di cancro, modificando grandemente la risposta clinica del tumore.

Biava ha scritto tutta la sua storia in un libro che si legge d'un fiato: "Il cancro e la ricerca del senso perduto" pubblicato da pochi giorni da Springer Verlag. Eurosalus ha raccontato questa storia in un ampio servizio. La cosa sorprendente del lavoro di Biava resta comunque, anche oggi, la documentazione dei risultati clinici delle sue applicazioni. Non ci troviamo infatti di fronte ad un visionario sprovveduto, ma ad un ricercatore serio e documentato. I suoi lavori clinici su una delle forme di cancro più difficili ed intrattabili sono stati pubblicati su Oncology Reserach documentando dei risultati inaspettati e straordinari: il suo trattamento applicato in una forma di cancro terminale, con prognosi infausta a breve, ha consentito di fermare lo sviluppo tumorale e di mantenere i pazienti in vita in un terzo dei casi trattati (Livraghi T, Biava PM et al, Oncol Res. 2005;15(7-8):399-408). Questi risultati, nonostante la comunicazione pubblica che ne è derivata, sono stranamente ritenuti "riservati" da molta stampa, probabilmente per l'effetto rivluzionario che avrebbero sull'impiego delle attuali forme di trattamento. Sembra oggi che basso costo e assenza di effetti collaterali, anziché essere un pregio siano quesi un difetto.

Quando si parla di un terzo dei pazienti trattati che hanno fermato l'evoluzione tumorale e sono sopravvissuti, si parla di un dato altamente improbabile nel caso dell'epatocarcinoma terminale, e la terapia di Biava ha quindi un valore bene elevato che va molto al di là della significatività statistica. L'uso dei fattori di differenzaiazione embrionali ha dalla sua una visione olistica, non sintomatica della forma tumorale, e quindi entra in conflitto con il paradigma terapeutico in cui è imprigionato il mondo clinico italiano e mondiale. Ma le resistenze si stanno sgretolando, e anche altri ricercatori nel mondo stanno iniziando a lavorare su queste tematiche, con gli stesi successi di Biava. Forse, sul cancro, stiamo iniziando a partecipare a un cambiamento di paradigma che porterà salute per tutti.

Fonte: Eurosalus

Il 18 giugno 2008, sul “The Journal of Neuroscience” è stata pubblicata un’interessante scoperta fatta dai ricercatori della Mount Sinai School of Medicine di New York.
Sembra che la somministrazione di alcuni polifenoli della famiglia delle OPC riduca l’aggregazione beta amiloide nel cervello e rallenti il deterioramento cognitivo della malattia di Alzheimer in un modello murino.
L’accumulo progressivo di composti beta amiloidi, nel cervello dei pazienti con malattia di Alzheimer, porta alla formazione di placche responsabili della demenza e della perdita di memoria che si verificano con la malattia.
Non si tratta del primo studio che confermi la capacità delle OPC di ridurre l’aggregazione beta amiloide e il declino cognitivo nelle persone anziane e con patologie (3).

Inoltre per quanto riguarda il cervello vi sono studi che mettono in evidenza le capacità delle OPC di migliorare i disturbi comportamentali e la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (1).
Per questo studio sono stati utilizzati topi geneticamente modificati per sviluppare la malattia di Alzheimer.
Alla fine del periodo di trattamento, l’accumulo beta-amiloide è stato significativamente ridotto nel cervello degli animali che hanno ricevuto l’estratto polifenolico rispetto al gruppo placebo. (1)
Gli animali hanno dimostrato anche un miglioramento della memoria spaziale rispetto a quelli che non hanno ricevuto l’estratto, il che indica una riduzione del declino cognitivo.
Il Professor Jack Masquelier ha fatto il primo passo importante nello studio dei polifenoli. Ha scoperto un gruppo speciale di bioflavonoidi comuni nelle bucce e nei semi della frutta e altre piante maturate al sole, che ha identificato come proantocianidine oligomeriche o OPC in breve.
A causa della diffusa pratica di raccogliere la frutta non matura, vi è una carenza diffusa di questo antiossidante relativamente comune.
A parte l’ampia portata dei benefici delle OPC, in particolare queste sostanze rafforzano le pareti dei capillari, rilassano la muscolatura liscia, aiutano ad alleviare la pressione arteriosa alta.
Un estratto naturale di OPC ad ampio spettro.
Si tratta di una miscela complessa di fattori protettivi in un concentrato di uve fresche ed estratto da corteccia di Pino.
Un’ottimo abbinamento per rallentare e prevenire la malattia di Alzheimer è costituito dall’olio di cocco naturale spremuto a freddo, OPC ed estratto naturale da corteccia di pino.

FONTE: Come migliorare

Le catechine sono composti fitochimici che si trovano principalmente nel tè verde. Piccole quantità sono contenute nell’uva, nel tè nero, nel cioccolato e nel vino.
Le catechine principali presenti nel tè verde [Camellia sinensis L. Ktze. (Theaceae)] sono epicatechina (EC), epigallocatechina (EGC), epicatechina-3 gallato (ECG) ed epigallocatechina-3-gallato (EGCG), il più potente.
L’epigallocatechina-3-gallato (EGCG) è il composto polifenolico responsabile dei benefici per la salute legati al consumo di tè verde. Sempre più prove suggeriscono che l’EGCG esibisce effetti anti-infiammatori, anti-ossidanti e immunosoppressivi. [1]

I potenziali benefici per la salute attribuiti all’EGCG includono effetti protettivi dal cancro, miglioramento della salute cardiovascolare, sostenere la perdita di peso, proteggere la pelle dai danni causati da radiazioni ionizzanti e altri.
Studi sui benefici per la salute per l’epigallocatechina-3-gallato (EGCG)
Gli studi clinici riguardanti le popolazioni indicano che le proprietà antiossidanti del tè verde possono aiutare a prevenire l’aterosclerosi, in particolare alle arterie coronarie. Gli studi basati sulla popolazione sono studi che seguono grandi gruppi di persone nel corso del tempo o studi che mettono a confronto gruppi di persone che vivono in culture diverse o con differenti diete.
I ricercatori non sanno perché il tè verde riduce il rischio di malattia cardiaca abbassando i livelli di colesterolo e i trigliceridi. Alcuni studi dimostrano che anche il tè nero ha effetti simili. Infatti, i ricercatori stimano che il tasso di infarto diminuisce dell’11% con un consumo di 3 tazze di tè al giorno.
Nel maggio 2006, tuttavia, la Food and Drug Administration (FDA) ha respinto una petizione per consentire ai produttori di tè di dichiarare che il tè verde riduce il rischio di malattie cardiache. L’FDA ha concluso che non vi è alcuna prova credibile a sostegno di tale affermazione. (Fonte: UMMC – Univeristà del Maryland)
Eppure le prove che il tè verde riduca il colesterolo ci sono. Come si spiega che per il tè verde, secondo la FDA, non vi sono prove sufficienti per affermare che abbassi il colesterolo? Per le statine invece è sufficiente ridurre del 2% la possibilità di un evento cardiovascolare, perchè siano messe in commercio, e i cardiologi le prescrivano in lungo e in largo a volte senza valutare in modo sufficiente gli effetti collaterali! Approfondimento su statine ed effetti collaterali.
Ci sono oltre 500 articoli scientifici relativi ai benefici per la salute dell’epigallocatechina gallato. Ho riassunto alcuni degli articoli più interessanti.
Per la salute delle ossa
Ricercatori dell’Università di Toronto hanno esaminato i benefici di epigallocatechina-3-gallato (EGCG) sulla salute delle ossa. Nello studio, concentrazioni di 1-5 muM di EGCG hanno causato un aumento dose-dipendente di noduli ossei mineralizzati. [2]
EGCG può avere effetti benefici nel diabete
Ricercatori dell’Università di Dundee, in Scozia, hanno evidenziato le proprietà – insulino-simili – ipoglicemizzanti di epigallocatechina gallato (EGCG) nei mammiferi. EGCG è noto per agire almeno in parte nella repressione dei geni gluconeogenici quali fosfoenolpiruvato carbossichinasi. Il loro studio dimostra che l’EGCG esercita i suoi effetti insulino mimetici, almeno in parte attraverso un meccanismo che è simile ma non identico all’insulina.
Ricercatori di un altro gruppo hanno utilizzato dei ratti, a cui è stato somministrato EGCG per 50 giorni. I risultati hanno mostrato iperglicemia repressa, proteinuria, perossidazione lipidica, e solo deboli effetti sui livelli di creatinina sierica e di proteina glicosilata.
Questi risultati suggeriscono che EGCG migliora la glucotossicità e il danno renale, attenuando il danno renale causato da elevati livelli di glucosio nel metabolismo associato allo stress ossidativo nelle lesioni renali della nefropatia diabetica. [3]
EGCG e cancro
Molti studi suggeriscono che le persone a rischio di tumore possono trarre giovamento dall’epigallocatechina gallato (EGCG).
Il dottor Rath ha condotto ricerche per la lotta naturale contro il cancro utilizzando l’ECGC in sinergia con altri nutrienti. La sinergia si è dimostrata più efficace nel controllo del cancro rispetto al singolo nutriente. Approfondimento.
Studi che hanno utilizzato linee cellulari tumorali sia ormone-sensibili che non, hanno dimostrato che EGCG induce l’apoptosi (morte cellulare) delle cellule cancerogene. [4]
EGCG potrebbe avere benefici nel carcinoma ovarico. [5]
I ricercatori della Harvard Medical School hanno valutato i potenziali benefici per la salute di epigallocatechina-3-gallato (EGCG) nel mieloma multiplo (MM). In sostanza, hanno scoperto che l’EGCG ha indotto sia l’arresto (a dose e tempo dipendente) che la crescita e la successiva morte cellulare per apoptosi in diverse linee cellulari di mieloma. Senza effetto significativo sulla crescita delle cellule periferiche mononucleate del sangue (PBMC ) e fibroblasti normali. [6]
I ricercatori della Soochow University, Cina, hanno dimostrato che l’EGCG è in grado di inibire il tumore al polmone e lo stress ossidativo causato dalla somministrazione di acido dimetilarsinico (DMA (V)) nei topi. [7]
Soppressione della crescita delle cellule del carcinoma pancreatico umano.
Scienziati giapponesi hanno scoperto che la crescita di tre cellule di carcinoma pancreatico (PANC-1, MIA PaCa-2, e BxPC-3) è stata significativamente soppressa da trattamento con EGCG in modo dose-dipendente. L’EGCG ha causato una significativa soppressione della capacità invasiva delle cellule del carcinoma pancreatico PANC-1, MIA PaCa-2 e BxPC-3.
I ricercatori hanno concluso che l’EGCG può essere un potente inibitore biologico dei carcinomi pancreatici umani, riducendo le loro attività proliferative ed invasive. [8]
La chemio-prevenzione del cancro orale da tè verde.
I risultati di questo studio giapponese hanno dimostrato che il tè verde e i suoi costituenti inducono l’apoptosi in modo selettivo solo nelle cellule del carcinoma orale, mentre l’EGCG riesce ad inibire la crescita e l’invasione delle cellule del carcinoma orale. Queste risposte differenziali al tè verde e dei suoi costituenti tra le cellule normali e maligne sono stati correlati con l’induzione di p57, un regolatore del ciclo cellulare. Mentre i meccanismi che consentono alle cellule normali di eludere l’effetto apoptotico ancora non sono stati compresi, lo studio conclude che il consumo regolare di tè verde potrebbe essere utile nella prevenzione del cancro orale.[9]
Risultati meccanicistici del tè verde come prevenzione del cancro per l’uomo.
Questo studio introduce tre nuove scoperte: 1) EGCG interagisce con la membrana doppio strato dei fosfolipidi e conferma l’effetto di tenuta di EGCG; 2) EGCG inibisce l’espressione del gene TNF-alfa nelle cellule e il rilascio di TNF-alfa dalle cellule; 3) il consumo elevato di tè verde è stato strettamente associato con un ridotto numero di metastasi linfonodali ascellari in pazienti con cancro al seno in pre-menopausa, e con una maggiore espressione di recettori per gli estrogeni e il progesterone tra quelle in post-menopausa. Questi risultati forniscono nuove informazioni per la comprensione dei meccanismi di azione dei polifenoli del tè e di estratto di tè verde come prevenzione del cancro. [10]
EGCG nelle infiammazioni

EPATITE
Topi pretrattati con epigallocatechina-3-gallato (EGCG) prima di ricevere una iniezione di concanavalina A (lectina estratta da fagiolo che danneggia il fegato). Essi hanno scoperto che i topi pretrattati con EGCG mostravano livelli più bassi di alanine aminotransferase nel plasma, una ridotta infiltrazione infiammatoria e ridotta apoptosi degli epatociti nel fegato rispetto ai topi di controllo. [11]
ARTRITE
Ricercatori dell’Università del Michigan hanno scoperto che l’EGCG può inibire la distruzione articolare nell’artrite reumatoide. [12]
EGCG e disordini NEURONALI
La malattia di Huntington è una malattia neurodegenerativa progressiva e i trattamenti disponibili hanno un’efficacia limitata. I ricercatori hanno dimostrato che il polifenolo (-)-epigallocatechina-3-gallato (EGCG) inibisce l’insorgenza e la progressione di tale malattia in modo dose-dipendente. [13]
Malattia di Alzheimer
L’epigallocatechina-3-gallato modula l’attività di alcune proteine e riduce l’amiloidosi cerebrale in topi transgenici con Alzheimer. [14]
Gli individui con parziali trisomie HSA21 e i topi con parziali trisomie MMU16 contenenti una copia extra del gene DYRK1A, presentano varie alterazioni nella morfogenesi del cervello. Ricercatori francesi provenienti dall’ Université Paris Diderot hanno sostenuto che l’EGCG è un inibitore sicuro per DYRK1A. [15]
L’EGCG può avere effetti benefici per gli ansiosi
Vignes e colleghi presso l’Università di Montpellier hanno osservato che l’EGCG esercita effetti ansiolitici in modelli murini.
Test comportamentali nei topi hanno mostrato effetti ansiolitici e amnesici, proprio come le benzodiazepine e il clordiazepossido. [16]
EGCG nelle malattie fungine
Ricercatori giaponesi hanno messo a confronto le attività antifungine di EGCG con sei agenti antifungini: amfotericina B (ANF), fluconazolo (FLCZ), flucytosin (5FC), itraconazolo (ITCZ) , micafungin (MCFG), e miconazolo (MCZ).
Lo studio conclude che l’EGCG ha un’attività comparabile ad alcuni antifungini. [17]
EGCG e sistema cardiovascolare
Per il colesterolo alto
La ricerca dimostra che il tè verde abbassa il colesterolo totale ed aumenta l’HDL (il colesterolo “buono”) in uomini ed animali. Uno studio basato sulla popolazione clinica ha trovato che gli uomini che bevono tè verde hanno più probabilità di avere il colesterolo totale inferiore a coloro che non lo bevono.
I risultati di uno studio su animali suggeriscono che i polifenoli contenuti nel tè verde possono bloccare l’assorbimento del colesterolo nell’intestino e anche aiutare il corpo ad eliminarlo. In un altro piccolo studio di fumatori maschi, i ricercatori hanno scoperto che il tè verde ha ridotto in modo significativo i livelli ematici di colesterolo dannoso LDL. (Fonte: UMMC – Univeristà del Maryland)
Le catechine del Tè verde migliorano la disfunzione endoteliale nel braccio umano e hanno effetti antiaterosclerotici nei fumatori.
Poiché il tè verde riduce il rischio cardiovascolare e cerebrovascolare, lo scopo di questo studio è di chiarire l’effetto delle catechine del tè verde sulla disfunzione endoteliale nei fumatori.
Lo studio conclude che le catechine del tè verde hanno effetti antiaterosclerotici sui vasi disfunzionali nei fumatori attraverso l’aumento del livello di ossido nitrico e sono in grado di ridurre lo stress ossidativo. [18]
Associazione tra assunzione di tè verde e malattia coronarica in una popolazione cinese.
Data l’esistenza di risultati contrastanti sull’attività protettiva del tè verde contro l’aterosclerosi coronarica questo studio [19] ha valutato l’associazione tra il consumo di tè verde e l’aterosclerosi coronarica in una popolazione cinese.
Lo studio conclude che il consumo di tè verde può proteggere contro lo sviluppo dell’aterosclerosi coronarica nei pazienti maschi cinesi. [19]
I ricercatori dell’Università di Bari hanno dimostrato il vaso-rilassamento nelle arterie oftalmiche grazie all’EGCG. [20]
Ricerca Recente
Ricercatori di Wuhan University hanno dimostrato che l’EGCG ha un forte effetto contro l’influenza A H1 N1 virus in vitro e in vivo, in modo dose-dipendente. [21]
Ci sono effetti collaterali o interazioni di EGCG con sostanze farmacologiche?
La sostanza isolata e il the verde che la contiene non sono la stessa cosa. Mentre gli effetti collaterali da sovradosaggio di EGCG non sono stati ancora chiariti, una grande quantità di consumo di tè verde può portare a insonnia, ansia, inibire l’assorbimento del ferro e dar luogo ad altri sintomi dovuti al contenuto di caffeina.

Come migliorare

Verso la metà del 19° secolo il medico Britannico Alfred Garrod scopre che l’acido urico è la causa della gotta, una malattia caratterizzata da attacchi di artrite acuta. L’acido urico si accumula nel sangue e precipita sotto forma di cristalli aghiformi di urato nei tessuti molli delle articolazioni delle estremità, classicamente quella dell’alluce, causando intensa infiammazione e dolore. Fino al 17° secolo questa malattia era appannaggio quasi esclusivo delle classi più ricche e benestanti. Nobili e borghesi potevano permettersi pasti regolari e spesso copiosi. Tra le altre cose, consumavano decisamente più carne. Siccome l’acido urico è un prodotto delle proteine, per oltre 130 anni si è creduto che la gotta fosse causata da un consumo eccessivo di carne. Tuttavia, l’associazione tra carne e gotta è tuttaltro che dimostrata in modo convincente: così come il colesterolo alimentare ha pochissima influenza sulla colesterolemia e il sale alimentare ne ha poca sulla ipertensione, una dieta povera di purine ha poco effetto sull’uricemia. Una dieta vegetariana, per esempio, è in grado di abbassare i livelli di acido urico del sangue del 15% rispetto ad una dieta abituale, ma non è in grado di riportare questi livelli alla normalità. Inoltre è dimostrato che una dieta ricca di proteine è in grado di ridurre i livelli di acidi urici nel sangue in seguito ad una aumento della loro escrezione: i reni automaticamente eliminano più acido urico quando la dieta è ricca di purine.

Quindi, è probabile che coloro che soffrono di gotta siano dei “ridotti escretori di acido urico” e che una dieta ricca di proteine non sia la causa della gotta in assoluto. Verosimilmente, quindi, il problema sta in un aumentata produzione di acidi urici a livello del fegato e una riduzione della loro eliminazione renale. Stando agli studi, certamente le bevande alcoliche fermentate hanno un sicuro e documentato effetto negativo su questa malattia. Un’altra ipotesi che si è fatta strada e quella che lega questa malattia ad un eccesso di carboidrati nella dieta. Dopo tutto, nel passato la gotta colpiva i nobili e i borghesi che non mangiavano solo più carne, ma anche più dolciumi, pane e soprattutto bevevano parecchie bevande alcoliche, in modo non dissimile da quello che oggi fa la maggioranza della popolazione del mondo occidentalizzato. Una dieta ricca di carboidrati può portare all’obesità, cui spesso è associata la gotta, e alla resistenza insulinica, che incide non poco nell’andamento di questa malattia. Secondo alcuni studi, e anche secondo la mia esperienza clinica, una dieta a basso impatto di carboidrati e ricca di proteine e fibre abbassa i livelli di acido urico, LDL, trigliceridi e insulina molto meglio di una dieta convenzionale per la gotta, basata su quantità illimitate di carboidrati e restrizione di alimenti proteici ricchi di purine. L’iperinsulinemia causata da una dieta ricca di carboidrati ridurrebbe l’escrezione di acidi urici a livello urinario.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

Console Debug Joomla!