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Quando prendiamo un farmaco che abbassi la febbre pensiamo sempre a un ipotetico vantaggio personale, senza ragionare sugli effetti sociali di questo tipo di azione. Già dal 2001 sappiamo con certezza che abbassare la febbre per andare a lavorare in ufficio o per riuscire a mantenere un appuntamento è una scelta antifisiologica che allunga i tempi di guarigione, ma ora sappiamo anche che si tratta di una scelta che può diventare lesiva nei confronti degli altri che ci circondano, bambini o adulti che siano. La febbre è un meccanismo difensivo potente e nella guida alla prevenzione delle malattie invernali da sempre segnaliamo che la giusta prevenzione porta spesso a evitare di ammalarsi, oppure consente di affrontare in tempi brevi e con ottime capacità di risposta lievi forme influenzali, che obblighino magari a un paio di giornate di riposo prima di riprendere la propria attività.

Questo tipo di incontro con il virus e il superamento dell'infezione aiutano a stimolare le cellule NK (particolari cellule del sistema immunitario) che svolgeranno nei mesi e anni successivi una migliore difesa antitumorale e antidegenerativa. Ammalarsi "gentilmente" può aiutare a prevenire malttie più gravi. Eppure ora sappiamo che chi si ammala con un deciso rialzo febbrile e cerca di abbassare la febbre allunga i tempi della sua guarigione, ma soprattutto mette a rischio la salute di chi gli sta intorno. Un recentissimo studio ha dato un valore numerico al rischio di diffusione della malattia dovuto all'uso dei farmaci antipiretici nel corso di una stagione influenzale. Il lavoro è stato effettuato da un gruppo di ricerca canadese composto da statistici, infettivologi, matematici e neurologi, che ha pubblicato su Proceedings Biological Sciences il risultato della analisi di quanti eventi mortali possano dipendere dall'uso di antipiretici (dal paracetamolo ai salicilati, comprendendo i moltissimi attualmente pubblicizzati su radio e televisione) (Earn DJ et al, Proc Biol Sci. 2014 Jan 22;281(1778):20132570. doi: 10.1098/rspb.2013.2570. Print 2014). Abbassando la febbre con un farmaco, anziché accompagnarla in modo fisiologico, si riduce l'azione difensiva messa in atto dall'organismo, concedendo così al virus la possibilità di proseguire nella sua opera di diffusione e di trasmissione agli altri esseri viventi. In pratica, durante una stagione influenzale, abbassando la febbre in modo chimico si facilita la progressione dell'epidemia. La valutazione fatta dai ricercatori canadesi è di forte impatto, perché a fronte di un'epidemia stagionale si ipotizza che il 5% dell'intera mortalità influenzale sia dovuto alla riduzione della febbre ottenuta per via farmacologica. Anche siti e riviste di divulgazione internazionale (come Science) si sono occupati della notizia, che riveste sicuramente un'importanza di carattere sociale.

La febbre può essere accompagnata modificando le reazioni cellulari, con gli oli giusti (Olio di Perilla o Zerotox Ribilla), stimolando le difese immunitarie con una associazione di minerali come Oximix 1+, con betaglucani o con vitamina C (Ester-C Plus 500), o ancora con uno dei rimedi più validi di questa stagione, a base di estratto di broccolo, zinco, inositolo e betaglucani. L'uso di Zerotox Betamune, di cui suggeriamo l'assunzione di 1 tavoletta al giorno durante tutto il periodo invernale, può essere incrementato in qualsiasi forma acuta da raffreddamento a 2-4 tavolette al giorno per i 2-3 giorni in cui l'infezione possa essere controllata.
In questo caso la scelta terapeutica (che porta anche all'abbassamento della febbre) origina da presupposti completamente diversi. Dove il farmaco blocca semplicemente un sintomo (la febbre) in modo chimico, i trattamenti indicati stimolano la risposta difensiva dell'organismo e lo portano a ridurre la febbre attraverso un percorso di graduale guarigione.
Decisamente tutta un'altra storia...

Fonte: Eurosalus

Eurosalus si batte da anni per la valorizzazione delle uova, un'economica fonte proteica che per anni è stata a torto additata come la causa di tutte le nefandezze più terribili per la salute. In realtà non solo si scopre che non interferiscono con l'aumento del colesterolo (ne genera molto di più un pacchettino di cracker), ma per il loro ottimo contenuto di proteine bilanciano perfettamente il rapporto con i carboidrati che troppo spesso sono in eccesso, e grazie al tuorlo, apportano una buona quantità di Vitamina D3. Un articolo appena apparso sul British Medical Journal sancisce, attraverso una metaanalisi molto ben documentata che nel soggetto sano l'assunzione di un uovo al giorno non provoca alcun aumento di patologia cardiovascolare.

Inoltre evidenzia che nel soggetto gravemente diabetico l'aumento del consumo di uova porta forse ad un lieve incremento della malattia coronarica ma ad una netta riduzione dei fenomeni di emorragia cerebrale (Rong Y et al, BMJ. 2013 Jan 7;346:e8539. doi: 10.1136/bmj.e8539).  Insomma, sembra che le uova stiano andando verso una assoluzione totale. Noi suggeriamo serenamente l'utilizzo di un numero anche più elevato di uova al giorno, proprio perché ci rendiamo conto che la parziale cecità del mondo accademico è quella che per anni ha posto come concessione estrema il limite di due uova alla settimana, verificando oggi la totale inesattezza di quanto indicato.  Non sono convinto che ci si fermerà qui: a breve troveremo che anche tre uova al giorno non sono deleterie (facendo attività fisica, mangiando frutta e verdura in abbondanza e usando cerali integrali). Sappiamo già da oggi che i veri colpevoli delle ipercolestrolemie non sono certo le uova ma i carboidrati raffinati in eccesso e gli zuccheri aggiunti.
Pronti a rimangiare quella fantastica frittata (fatta al forno) che porterà solo benessere e salute...

Fonte: Eurosalus

In questo periodo dell’anno è facile sentirsi stanchi e senza energie, a causa del cambio di stagione, ma anche della pressione arteriosa, che con l’avvicinarsi dell’estate tende ad abbassarsi ulteriormente. Sembra, tuttavia, che il succo di barbabietola sia un prezioso alleato contro l’astenia e il merito sarebbe tutto dei nitrati.
Secondo uno studio condotto di recente dall’Università di Dexter, inoltre, il succo di barbabietola, oltre che essere un eccezionale anti-fatica naturale, sarebbe addirittura una sorta di doping naturale in grado di migliorare considerevolmente le prestazioni fisiche.

La barbabietola rossa, infatti, è una vera miniera di Sali minerali, quali potassio, calcio, sodio, ferro e fosforo, è ricca anche di antociani, preziosi antiossidanti, vitamine B1, B2 e B3, e la vitamina C. Grazie alle sue ottime proprietà rimineralizzanti è particolarmente indicata per chi soffre di anemia e per i bambini e gli anziani deboli.
I ricercatori, infatti, hanno scoperto come lo sforzo richiesto ad una persona anziana durante una passeggiata, grazie al succo di barbabietola, si fosse ridotto del 12%. Gli esperti, hanno coinvolto anche un gruppo di ciclisti, che hanno condotto diverse prove di velocità dopo aver bevuto mezzo litro di succo di barbabietola con e senza nitrati.
Dai risultati ottenuti, è emerso come le prestazioni atletiche, con il succo di barbabietola non filtrato, fossero decisamente migliorate, inoltre, i ciclisti hanno riferito una minore stanchezza.
Come ha spiegato il professor Andrew Jones sulle pagine del Journal of Applied Physiology:
I nitrati aiutano il cuore e i muscoli a lavorare meglio. Ciò è valido non solo per gli atleti professionisti ma per chiunque voglia migliorare le proprie prestazioni fisiche. Inoltre questi risultati mostrano un miglioramento in termini di prestazioni che, a livello agonistico, potrebbero fare la differenza.
Se questo è valido per gli atleti, che si sottopongono a sforzi fisici molto intensi, a maggior ragione lo è per le persone anziane, con l’avanzare dell’età, infatti, la quantità di ossigeno tende a diminuire.

FONTE: Medicina Live

Non è certo la prima volta che se ne parla. Le prime indicazioni in tal senso sono emerse dalla conferenza della WCRF tenutasi a Londra nel 2007 e di cui Eurosalus ha dato ampia copertura. Considerazioni poi ribadite nel 2009 a Washington al congresso dell’AICR (American Institute of Cancer Research), con evidenza del fatto che insulinoresistenza e produzione di citochine sono tra le possibili concause della genesi tumorale.

La relazione tra sindrome metabolica e cancro e tra obesità viscerale (premessa al diabete di tipo 2) e sviluppo tumorale sta evidenziandosi in modo sempre più preciso. Almeno due lavori recenti segnalano lo stesso dato: uno pubblicato sui Proceedings of Nutrition Society nel mese di novembre 2011 (Doyle SL et al, Proc Nutr Soc. 2011 Nov 3:1-9. [Epub ahead of print]), a seguito di un altro pubblicato in giugno su Diabetology & metabolic syndrome (Donohohe CL et al, Diabetol Metab Syndr. 2011 Jun 22;3:12).
In entrambi questi lavori viene evidenziata la relazione tra infiammazione diffusa (la low-grade inflammation) e obesità viscerale. Le ragioni che spiegano l’azione positiva e preventiva sullo sviluppo tumorale da parte di molti antiossidanti, e di quegli aspetti alimentari che guidino il controllo della infiammazione derivante dall’introduzione di particolari cibi, sono sempre più documentate. Questa azione infiammatoria è connessa con la produzione di BAFF, le cui azioni di induzione diabetica e la relazione con le intolleranze alimentari è oggi molto più precisa di solo pochi anni fa.
Quindi, come dice la WCRF, può bastare poco per ridurre il rischio cancro e per aiutarne la cura e la guarigione. In chi ha eccesso di massa grassa, controllare l’insulino resistenza e perdere massa grassa migliora la prognosi. Questa certezza ha fatto nascere alcune perplessità circa la proposta di regimi alimentari che rischiano di favorire la resistenza insulinica, sostenuta anche da un noto oncologo italiano e su cui Eurosalus ha già espresso la propria opinione.
Su tutti non dimentichiamo un punto di forza della possibilità di prevenire il cancro. L’attività fisica, un tempo considerata la “Cenerentola” della medicina, ha invece una profonda azione di difesa e può aiutare chiunque a controllare nello stesso momento infiammazione, malattie degenerative, malattie cardiovascolari, depressione e allergie. Non poco per una forma di terapia gratuita e a disposizione di tutti. Con l’unico rammarico di vederla poco prescritta dai colleghi.

FONTE: Eurosalus

Consumare con regolarità il cioccolato fondente può aiutare ad abbassare la pressione arteriosa, secondo uno studio tedesco. I ricercatori hanno seguito 19,357 adulti nell’arco di 10 anni e hanno scoperto che il maggiore consumo di cioccolato (7,5g al giorno) era associato a valori di pressione più bassa e ad una riduzione del 39% di infarto e di ictus. Secondo gli autori di questo studio, il consumo di un quadratino di cioccolato in più al giorno porterebbe ad una riduzione di 85 casi di infarto e ictus ogni 10.000 abitanti (European Heart Journal, 2010). L'azione protettiva cardiovascolare del cioccolato, secondo altri recenti studi, sarebbe riconducibile alle epicatechine, antiossidanti presenti oltre che nel cacao, anche nel tè, nel vino rosso e in alcuni frutti e verdure. Recenti studi sui topi hanno mostrato che queste sostanze hanno un particolare effetto protettivo sulle cellule cerebrali, effetto che potrebbe essere vantaggiosamente sfruttato nel caso di pazienti colpiti da ictus.

E’ da oltre 2000 anni che l’uomo trae vantaggio dal consumo di questo alimento così ricco di antiossidanti. I Kuna, nativi del Centroamerica, assumono regolarmente bevande a base di cacao e hanno tassi di incidenza cardiovascolare estremamente bassi.Ma non tutto il cioccolato ha le stesse quantità di antiossidanti. Quello al latte ne ha meno di tutti, mentre il cacao puro ne contiene la quantità massima. Per esempio, una tazza calda di cacao puro fornisce quasi il doppio di antiossidanti rispetto ad un bicchiere di vino rosso, più del doppio rispetto ad una tazza di tè verde e quattro volte di più rispetto ad una tazza di tè nero. Quindi, il cioccolato che fa bene è tuttaltro che dolce, anzi decisamente amaro e spesso poco appetibile per il consumatore comune. In fase di produzione, inoltre, meno trattamenti termici ed esposizioni alla luce si fanno subire al cacao e migliore sarà il prodotto finale. In media, il cacao del cioccolato commerciale contiene meno della metà dei flavonoidi che erano presenti all’inizio del processo di produzione. Concludendo, gli esperti consigliano un consumo di cioccolato fondente pari a 7g al giorno e non oltre. E’ chiaro che questo è un consiglio generale, perché il cacao, essendo un istamino-liberatore, potrebbe non essere indicato agli allergici, o per le sue proprietà astringenti aggravare la stitichezza.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

Su uno degli ultimi numeri della prestigiosa rivista internazionale New England Journal of Medicine, sono apparsi in contemporanea ben due articoli sugli effetti collaterali dell'alendronato (Fosamax - Merck) e di uno dei farmaci di più recente introduzione sul mercato mondiale (acido zoledronico o Reclast, di Novartis).

Il secondo studio, supportato da fondi della stessa Novartis, ha sì evidenziato che gli effetti sull'osso delle donne in menopausa sono gli stessi degli altri farmaci della categoria, ma ha anche documentato una incidenza elevatissima di effetti cardiaci, aritmie severe appunto, che compaiono in percentuale più che doppia di quella presente nella popolazione che, nel lavoro scientifico, assumeva placebo (Black DM et al, N Engl J Med 2007 May 3;356(18):1809-22).
Nel primo lavoro invece (Cummings SR et al, N Eng J Med 2007 May 3;356(18):1895-6) la incidenza del fenomeno aritmico nelle donne che assumevano Fosamax era lievemente minore di quella manifesta nelle utilizzatrici di acido zoledronico, ma era comunque molto elevata.
Se pensiamo che nei soli Stati Uniti le donne che impiegano costantemente (per anni continuativi) il Fosamax sono più di 1.800.000 ci rendiamo conto dell'importanza strategica di questo farmaco, e del valore commerciale di questo tipo di somministrazione.
Inoltre sono ormai noti gli altri effetti collaterali dei prodotti come l'alendronato, effetti che complessivamente devono portare ogni donna a potere scegliere con serenità tra le tante altre alternative proposte, dall'uso dell'equiseto (ricco di silicio) all'impiego degli isoflavoni di soia (fitoestrogeni) alla semplice attitudine alla attività fisica che rimane complemento obbligato per una salute vera dell'osso a qualunque età.

FONTE: Eurosalus

L'articolo è tratto dal mio nuovo libro, di prossima pubblicazione, "MANGIA GRASSO E VIVI BENE edizioni Junior". Il libro che demolisce la teoria "colesterolo e grassi saturi = infarto", dissipa le vostre paure nei riguardi dei grassi animali, riabilita alimenti come uova, burro e strutto e vi mette in guardia dai grassi che davvero sono nocivi per la vostra salute. La gran parte dei grassi vegetali, soprattutto di semi, non si presta molto ad essere utilizzata per i prodotti da forno. Infatti, se provate a fare un dolce o dei biscotti con l’olio vegetale vi accorgerete che il prodotto finale avrà un aspetto “unto” e non tiene bene la forma che gli avete dato. Invece, l’impiego di grassi più solidi come il burro, lo strutto e il lardo non pone questo problema. L’industria alimentare lo sa bene e sono ormai anni che fa largo uso di grassi parzialmente idrogenati. L’idrogenazione, infatti, è un processo chimico che trasforma un olio liquido in un grasso solido. Le lunghe catene di acidi grassi saturi naturali e le lunghe catene di acidi grassi così prodotte sono equivalenti per quanto riguarda le loro proprietà fisiche e quindi l’utilizzo industriale, ma non per quanto riguarda l’effetto sull’organismo. A partire da oli vegetali economici si possono ricavare surrogati del burro e strutto, che sono decisamente più cari. Veramente, si tratta di grassi “parzialmente idrogenati”. Grassi totalmente idrogenati sarebbero duri come la cera e non potrebbero essere utilizzati nell’alimentazione se non dopo ulteriori trattamenti. Comunque, nelle etichette degli alimenti le diciture “grassi parzialmente idrogenati” o “grassi idrogenati” si equivalgono. 

Breve storia della margarina

Tra tutti i grassi idrogenati spicca la margarina, un vero “gioiello” della mistificazione alimentare. Nasce in Francia sotto il regno di Napoleone III L’imperatore era alla ricerca di una fonte di grasso a buon mercato, di facile conservazione da destinarsi ai meno abbienti: i militari, le classi lavoratrici e i poveri. Nel 1867 bandì una sorta di concorso invitando tutti gli inventori a proporre ricette e formule. Il professor Hippolite Mege-Mouris vinse la competizione, realizzando “l’oleomargarina”, una miscela fatta con grasso bovino e latte scremato. Nel 1871 vendette il procedimento ad alcuni grossi commercianti olandesi. Il prodotto ebbe un successone, tanto che presto furono costruiti degli stabilimenti in Belgio, in Germania e in Inghilterra. Nel 1895, la produzione di margarina raggiunse le 300.000 tonnellate, che a quei tempi corrispondeva ad un decimo di quella del burro. Rispetto a questo, costava decisamente meno. Tuttavia, non tutti furono subito convinti dal nuovo alimento. Infatti, ci volle un po’ per convincere molte casalinghe. All’inizio, il sapore non era dei migliori. I più diffidenti sospettavano addirittura che la margarina potesse far male alla salute. Da allora si è fatto di tutto per correggere il sapore di questo nuovo prodotto e modificare l’immagine di alimento per i poveri.  Nel 1910 il processo d’idrogenazione fu brevettato. Questo avrebbe permesso l’uso di oli vegetali nella preparazione della margarina. Mentre nel 1899 i grassi animali costituivano il 70% degli ingredienti della margarina, già nel 1928 si erano ridotti al 6%. Gli oli fluidi idrogenati e la frazione solida degli oli densi passarono nello stesso tempo dal 23% all’89%. Infatti, dopo i grassi animali, vennero presi in considerazione anche gli oli di mais, di noccioline, di cotone e di cocco. Già nel 1940, le margarine in commercio erano al 90% di origine vegetale. Attualmente per la produzione di margarine si usano principalmente oli economici, come quello di cotone, soia e mais. Nel precedente capitolo ho descritto il procedimento di raffinazione di questi oli, ricavati dalle materie prime in seguito a trattamenti chimici meccanici e termici. E’ da questi oli così raffinati che parte il processo d’idrogenazione. La miscela di oli viene trattata con alte temperature, da 120° a 210°C, sottoposta ad una forte pressione e fatta reagire per 6-8 ore con gas idrogeno in presenza di un catalizzatore metallico. Normalmente, si tratta di nickel, ma si possono usare anche platino o rame. Nel caso del nickel, spesso ne viene usato un tipo (Nickel di Raney) composto dal 50% di nickel e dal 50% di alluminio. Residui di entrambi i metalli rimangono nel prodotto finale. Nella produzione di margarina, creme spalmabili e oli vegetali, più precisamente si parla di “idrogenazione parziale”.

Le margarine in commercio contengono una quantità variabile di grassi idrogenati: in media il 15%, ma anche fino al 45%. Più recentemente, sono comparse in commercio margarine che dichiarano l’assenza, o la presenza minima, di questi pericolosi acidi grassi. Sono ottenute con la metodica del frazionamento (scomposizione dei diversi tipi di acidi grassi) e dell’esterificazione intermolecolare (modifica la struttura chimica degli acidi grassi senza idrogenarli), che minimizza o evita la formazione delle forme trans. Tuttavia, si tratta pur sempre di prodotti altamente manipolati, non naturali e comunque ricavati da oli a loro volta raffinati industrialmente. Comunque sia, la margarina è un non-cibo. Non va consumata in nessuna forma e non c’è davvero alcun motivo di preferirla al burro o ad altri grassi animali.  All’industria alimentare piacciono i “trans”. La parziale idrogenazione aumenta in modo variabile il grado di saturazione del grasso. I polinsaturi possono essere fatti diventare meno insaturi, ma non solo. L’idrogenazione cambia anche la configurazione strutturale di alcuni legami. Si forma così una nuova classe di acidi grassi, gli acidi grassi “trans” (vedi il I capitolo). Questi hanno diversi legami insaturi, con la configurazione “trans”, che è artificiale, e non con quella “cis” che è naturale. La maggioranza dei grassi parzialmente idrogenati ha il 50% o più dei propri acidi grassi nella forma “trans”(2). Utilizzare questi grassi ha diversi vantaggi.  Sono più economici dei grassi tradizionali, come il burro e lo strutto. Si possono produrre utilizzando oli anche scadenti o già rancidi.  Sono ottimi per i prodotti da forno e da pasticceria: viene eliminato l’effetto “unto” e i prodotti hanno una forma più definita.  Hanno un’ottima conservabilità e stabilità, superiori anche a quelle dei grassi saturi. Un prodotto commerciale, come un biscotto o una merendina, può avere una lunga data di scadenza e può essere tranquillamente trasportato in giro per il mondo senza che si deperisca facilmente. Molti oli per la frittura sono parzialmente idrogenati, quindi la frittura di pesce e le patatine fritte avranno un aspetto più “asciutto”.  Per essere più precisi, gli acidi trans si trovano anche in natura. In quantità inferiori all’1% sono presenti in tutti i grassi dei ruminanti: antilope, bufalo, bovino, cervo, capra e pecora. Nulla in confronto ai valori decisamente superiori, fino al 60%, che si ritrovano nei grassi idrogenati commerciali. Peraltro, i trans dei ruminanti differiscono da quelli degli oli vegetali per il doppio legame in posizione diversa lungo la catena di carbonio e per il fatto di essere considerati innocui. 

I pericoli dei grassi idrogenati

La nascita della teoria lipidica e la diffusione della “colesterolofobia”, rappresentarono una grande occasione per promuovere, oltre agli oli polinsaturi di semi, la margarina come alimento salutare e al passo coi tempi. La margarina non ha colesterolo ed è vegetale, due prerogative essenziali per un prodotto in sintonia con le nuove tendenze dietologiche. Inoltre, per lungo tempo si è giocato su un equivoco. I grassi idrogenati contengono il doppio di polinsaturi rispetto ai saturi e siccome il consumatore deve abbandonare i malvagi “saturi” a favore dei benefici “insaturi”, ecco bello e pronto un prodotto ad hoc. Anche per questo motivo, dal 1965 e fino agli anni ’80, l’Associazione Cardiologica Americana (AHA) ha incoraggiato il consumo di acidi grassi trans per prevenire le malattie cardiovascolari. Poi si è scoperto che forse sono proprio loro a determinarle. Oggi le  margarine e i grassi idrogenati sono molto diffusi nei prodotti commerciali, anche se non sempre sappiamo esattamente in quale misura. Hanno ormai quasi completamente soppiantato l’uso del burro e dello strutto. Anche molti prodotti artigianali ne contengono, come gelati, biscotti, grissini, torte, pasticcini e certe specialità che vantano centinaia di anni di tradizione. Non si capisce come fa un prodotto ad essere “artigianale” e “tradizionale” quando si utilizza un ingrediente che è il risultato di un processo industriale e che ha poco più di 100 anni. Anche in molti ristoranti viene fatto largo uso di grassi e di oli idrogenati.  Già negli anni ’60, alcuni ricercatori ed esperti alimentari hanno espresso seria preoccupazione per il diffondersi di questi grassi nell’alimentazione quotidiana. Da allora, sono stati condotti numerosi studi che hanno dimostrato senza ombra di dubbio la loro pericolosità. In America, il dibattito va avanti da parecchi anni e recentemente il governo ha emanato norme per regolarne l’uso. Dal gennaio 2006 negli USA è obbligatorio segnalare sulle etichette dei cibi il livello di acidi grassi trans.  I grassi idrogenati, una volta nell’organismo, non sono riconosciuti come estranei. Se ne mangiamo troppi, come stiamo facendo adesso, una volta incorporati nei nostri tessuti al posto di quelli naturali possono causare disturbi del funzionamento cellulare. Alla fine, intossicano. Sono soprattutto le nuove generazioni, che consumano molti cibi processati dall’industria alimentare, che spesso contengono grassi trans, le più esposte a questo subdolo avvelenamento.  Vediamo, in sintesi, quali sono gli effetti negativi dovuti al consumo dei grassi parzialmente idrogenati osservati sull’uomo e sugli animali:  Alterano la funzione cellulare e condizionano il funzionamento di molti enzimi, come nel caso della delta-6 desaturasi che è necessaria per la conversione di entrambi gli omega 6 e omega 3 nelle forme allungate (EPA e DHA). Questo peggiora gli effetti da carenza d’acidi grassi essenziali. Causano una riduzione, dose-dipendente, della acuità visiva nei bambini che sono allattati con latte materno ricco di acidi trans. L’effeto si protrae per i primi 14 mesi di vita. 

Abbassano il colesterolo buono, l’ HDL.
Aumentano i livelli sierici di LDL.
Aumentano la lipoproteina aterogenica Lp(a) nell’uomo, mentre i grassi saturi la abbassano.
Aumentano i livelli del colesterolo totale del 20-30%.
Riducono la quantità di grasso nel latte nelle femmine che allattano in tutte le specie, incluso l’uomo, con grave danno al lattante. I grassi infatti servono soprattutto per lo sviluppo del sistema nervoso. Inoltre, il poppante che non riceve adeguate quantità di grasso con il latte materno non si sente sazio e quindi continuare a piangere.
Nell’uomo, attraversano la barriera placentare e raggiungono il feto, con possibili effetti sulla crescita. Possono così provocare nascite sotto peso.
Nei topi giovani riducono la crescita del 20-25%.
Nell’uomo, aumentano i livelli d’insulina, dopo carico da glucosio, con aumento del rischio di diabete.
Riducono la risposta dei globuli rossi all’insulina, creando effetti indesiderati nei diabetici.
Influenzano la risposta immune, abbassando l’efficienza delle cellule B e aumentando la proliferazione dei linfociti T.
Aumentano i livelli di testosterone, che negli animali maschi causa un più facilmente uno sperma anomalo e nelle femmine interferisce nella gestazione. In particolare nei ratti danneggiano i testicoli e causano sterilità.
Causano alterazioni nell’attività dell’importante sistema enzimatico che metabolizza le sostanze cancerogene chimiche e le medicine (citocromo P-488/450).
Alterano le proprietà fisiologiche delle membrane cellulari, compromettendo i processi di trasporto e di fluidità.
Causano alterazioni nelle dimensioni e nel numero delle cellule adipose e nella composizione degli acidi grassi.
Aumentano la carenza di acidi grassi essenziali.
Scatenano attacchi di asma nei bambini.
Potenziano la formazione di radicali liberi.

Un resoconto della Comunità Europea riporta che le donne con tumore alla mammella hanno più alti livelli di acidi grassi trans nei loro tessuti rispetto alle altre. Questo dato suggerisce, ma non dimostra, che questi acidi grassi possano avere un qualche ruolo nel rischio di tumore mammario.  Il consumo di grassi idrogenati è stato associato ad altre malattie degenerative, come il cancro, la sclerosi multipla, la diverticolite e le complicazioni del diabete.  Per quanto riguarda il rischio cardiovascolare, due famosi precursori delle ricerche sugli effetti negativi dei grassi idrogenati, i dottori Fred Kummerov e George Mann (1) hanno affermato “….. gli acidi grassi trans non hanno nessun effetto benefico sulla salute e una notevole mole di dati suggerisce che contribuiscono decisamente al rischio cardiovascolare…”.
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Come difendersi

Negli USA, tra il 1970 e il 1990, sono state condotte diverse analisi per valutare la presenza di grassi idrogenati negli alimenti. Ad esempio, si è visto che negli oli di semi la percentuale può variare dal 10 al 50 %. In un normale sacchetto di patatine fritte commerciali in cui è stato usato olio di soia, ne sono stati trovati fino a 9 g. In media, un cucchiaino di margarina ne conteneva 4,6 g.  Negli USA il consumo pro capite di grassi idrogenati è passato dai 12 g al giorno del periodo antecendente la Seconda Guerra Mondiale ai 38,7 g del 1985. Agli inizi degli anni ’80, in Inghilterra, una persona in media consumava con gli alimenti 12 g di acidi grassi idrogenati. Nello stesso periodo in Canada se ne consumavano 9,1 g, mentre in Germania, tra i 4.5 e i 6,5 g. Negli anni ’90, in Italia si calcolava che il consumo fosse in media di 1,3 g al giorno per persona, ma temo che se guardiamo a come mangiano le nuove generazioni, il dato sia oltremodo sottostimato se riferito alla situazione attuale. Nel nostro Paese non è obbligatorio segnalare la presenza di acidi grassi idrogenati. Pertanto nelle confezioni, non troviamo scritto “grassi idrogenati” o “parzialmente idrogenati”, ma più spesso troviamo solo la vaga dicitura “grassi o oli vegetali”, oppure “margarina” o “margarina vegetale”. Ci sono buone possibilità che questi non meglio specificati “oli o grassi vegetali” non siano proprio di qualità superiore e che una parte sia idrogenata.  Non ci sono dubbi sulla pericolosità dei grassi idrogenati. Dovete ridurrne il consumo al minimo o eliminarli del tutto dalla vostra alimentazione, soprattutto quella dei vostri bambini. Inoltre, prestate attenzione nell’acquisto di cibi confezionati, in particolar modo quelli da forno, come grissini, biscotti, torte, crackers, merendine e pane per sandwich. Il problema tuttavia non riguarda solo gli alimenti di larga distribuzione, ma anche certi prodotti artigianali. Per esempio, gelaterie, pasticcerie e fornai, ormai fanno ampio uso di margarina per la preparazione di gelati, torte, pasticcini e biscotti. Non si è mai certi di che tipo di margarina si tratti e di quanti grassi idrogenati contenga. Quindi, preferite decisamente i prodotti preparati col burro, l’olio extravergine o lo strutto.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

Ora che si avvicina la "prova bikini" la maggior parte delle persone pone un occhio di riguardo al proprio aspetto fisico. Dimagrire sì, ma il problema sembra non tanto quello di preoccuparsi dei chili di troppo, quanto di dove sono localizzati, perchè questo può compromettere non solo la silhouette, ma anche il nostro stato di salute. Il dubbio è stato sollevato da una ricerca del centro medico Kaiser Permanente di Oakland, in California, pubblicata da Neurology, rivista della società americana di neurologia, secondo cui persone di mezza età con un addome di notevoli dimensioni hanno una possibilità tre volte maggiore di andare incontro alla demenza senile, rispetto alle persone con peso e pancia nella norma (RA Whitmer et al, Neurology 2008 Mar 26 [Epub ahead of print]).

Ma l'aspetto più rilevante della scoperta è che il rischio di demenza è alto anche in quelle persone che, pur mantenendo il proprio "peso forma", accumulano tutto il grasso intorno al giro vita. Una possibile ragione è che questo tipo di tessuto adiposo, chiamato grasso viscerale, può produrre una serie di adipochine e di altri agenti ormonali come la leptina, che interferiscono sulla funzione ormonale e possono determinare infiammazione cronica del tessuto cerebrale. Le condizioni alimentari che provocano questo tipo di reazione sono le stesse che generano resistenza insulinica. Avere la pancetta quindi significa mettere a rischio la salute del nostro cervello? Secondo Leonore Launer, capo della divisione di neuroepidemiologia del National Institute of Aging, è troppo presto per arrivare a questa conclusione ed è necessario portare avanti ulteriori ricerche per osservare che ruolo gioca l'obesità sulle funzioni cerebrali delle persone che invecchiano.

Il suo parere, palesemente difensivo, è contrastante con i dati clinici, sempre più evidenti, sulla relazione tra alimentazione squilibrata, insulinoresistenza e Parkinson od Alzheimer. Come scoprire se abbiamo una pancetta a rischio demenza? Chiunque può farsi un'idea di quanto grasso in eccesso ha sulla pancia: la misurazione, conosciuta come diametro addominale sagittale (SAD), è l'altezza dell'addome quando una persona è distesa ed è considerata un buon indicatore di grasso addominale, come lo è in genere la misurazione del giro vita. Secondo gli studiosi, un giro vita maggiore di 80 cm per le donne e di un metro per gli uomini è generalmente indice di troppo grasso addominale.

La buona notizia è che questo tipo di grasso dipende dalla paura dell'organismo di non avere abbastanza da mangiare. È sufficiente quindi impostare una modalità alimentare orientata allo stimolo del metabolismo per riequilibrare pancia e salute. Dobbiamo mantenere una forte attenzione all'esercizio fisico e controllare l'alimentazione. Chi pensa di ridurre l'apporto calorico per ridurre questa pancetta va invece contro se stesso, perché la riduzione del metabolismo determina proprio la conservazione del grasso in quella sede. Le maniglie dell'amore piacciono a molte donne, si sa, ma se eliminarle significa invecchiare in salute, proviamoci subito.

Fonte: Eurosalus

Una ricerca condotta da The University of Texas Health Science Center di San Antonio mostra che le noci contengono una buona concentrazione di melatonina, un ormone che protegge le nostre cellule dal danno ossidativo. “Relativamente pochi alimenti sono stati esaminati per il loro contenuto di melatonina” afferma il Dr Russel Reiter, professore di biologia strutturale e cellulare del Health Science Center. “I nostri studi dimostrano che la noce contiene melatonina, che viene assorbita dal nostro organismo dopo la digestione. La melatonina aumenta la capacità di resistere allo stress ossidativo dovuto a molecole tossiche note come radicali liberi”. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Nutrition. Molte malattie legate all’invecchiamento come l’Alzheimer e il Parkinson sono causate da radicali liberi. Una nuova teoria afferma che l’invecchiamento è il risultato di cambiamenti degenerativi dei tessuti dovuti ai danni da radicali liberi. La melatonina ha la funzione di contrastare l’effetto di queste pericolose molecole.

“La melatonina si trova in tutti vertebrati e gli invertebrati, ma anche nelle alghe, nelle muffe e nei batteri” dice il dr Reiter. “Nel 1995 un paio di pubblicazioni ne segnalavano la presenza anche nelle piante. Questo vuol dire che non solo la produciamo nel nostro corpo, ma anche che la assumiamo con l’alimentazione”. Le noci, inoltre, contengono anche ottime quantità di omega-3, che hanno mostrato di inibire certi tipi di tumore. “Forse i due componenti si potenziano tra loro”, aggiunge il Dr Reiter. Nel mondo vegetale, la melatonina è stata scoperta, sebbene in minime quantità, inizialmente nelle patate, nel mais e nei pomodori. La noce ne ha molta di più, ma ancora non sappiamo quante ne dobbiamo mangiare per assumere una dose “terapeutica” di melatonina. La melatonina è meglio conosciuta come integratore per favorire il sonno. La ghiandole pineale del nostro corpo secerne una piccola quantità di questo ormone durante il giorno e una quantità maggiore durante la notte. Man mano che invecchiamo, i livelli notturni di melatonina si riducono, spesso compromettendo il sonno. Anche i danni da radicali liberi aumentano con l’età, mentre la melatonina decresce.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

Come spesso amo dire, una vita "al Curry" (che contiene Curcuma in gran percentuale) ha meno Alzheimer, meno Parkinson, meno cancri, meno diabete, umore migliore, meno malattie autoimmuni, meno allergie e meno malattie cardiache.
Non è una battuta, perché emerge dalle precise indicazioni scientifiche studiate sulla Curcuma e sul suo uso alimentare. Nel 2009, solo per fare un esempio, il congresso annuale dell'American Institute of Cancer Research (in pratica il Bethesda) ha dedicato un'intera sessione del convegno all'uso antitumorale delle spezie, valorizzando in modo specifico l'azione dei curcuminoidi presenti appunto nella Curcuma come attivo farmaco naturale utile per molte forme tumorali e attivo sul metabolismo.

Già allora, grazie agli studi di Bharat Aggarwal (responsabile degli studi farmacologici antitumorali della Texas University a Houston), si era definita la forte azione antitumorale della curcuma in forme altrimenti non trattabili con la chemioterapia, come il cancro del pancreas.
Oggi anche il Regno Unito sta sviluppando questo tipo di ricerca e la curcumina sta trovando, come riferito dall'articolo della BBC, un possibile impiego nel trattamento delle forme metastatiche del cancro intestinale.
In genere, quando questo tipo di cancro si diffonde, è necessario l'uso di almeno tre differenti cure chemioterapiche e nonostante questo, una alta percentuale di soggetti non risponde al trattamento.
Grazie alla curcuma invece, la sensibilità al farmaco aumenta ed è possibile usare farmaci a dosaggio minore con effetti finalmente verificabili ed utili. La curcuma è uno dei più importanti strumenti "di segnale" che ci siano. Induce risposte sul fattore nucleare kB (NF-kB) agendo così sul metabolismo, sulla resistenza insulinica e sulla modulazione dell'infiammazione.
Non si tratta della scoperta di un nuovo farmaco antitumorale, si tratta invece della evidenza della efficacia di una forma di terapia tradizionale, la cui importanza ha vissuto lunghi anni di rimozione dalla sfera dell'ufficialità. Si aprono nuove speranze per la terapia e la prevenzione del cancro, ma soprattutto dell'equilibrio che ordina qualsiasi essere vivente e che va interpretato su una scala diversa da quella del "farmaco sintomatico".

Fonte: Eurosalus

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