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La melagrana, il frutto del melograno, contiene delle sostanze attive nel mantenere in salute le arterie, l’apparato cardiocircolatorio in genere, e allontanare il rischio di malattie cardiache, infarto e ictus. In più può anche invertire i danni causati dal cibo spazzatura. Le sostanze contenute nel frutto del melograno pare siano un toccasana per cuore e arterie, riuscendo anche a contrastare i danni di una dieta ricca di grassi. Buone notizie anche per chi fa vita sedentaria, segue una dieta scorretta (fatta magari anche di cibo spazzatura), chi ha il colesterolo alto e troppi grassi nel sangue. C’è un frutto di stagione, la melagrana, che è risultato avere molte proprietà benefiche per l’organismo: in particolare sull’apparato cardiovascolare e circolatorio. Ma non solo. A concedere la palma di frutto salutare alla melagrana è un nuovo studio condotto dai ricercatori spagnoli dell’Istituto Catalano di Scienze Cardiovascolari e presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia.

I ricercatori, coordinati dalla dottoressa Lina Badimon, hanno testato gli effetti di una pillola che era un concentrato di sostanze antiossidanti, come i polifenoli, estratte dalla melagrana. Lo studio è stato condotto su modello animale: un gruppo di suini, scelto proprio perché il sistema cardiovascolare di questi animali è molto simile a quello degli esseri umani. I ricercatori hanno voluto osservare e studiare gli effetti sul sistema vascolare di una dieta ricca di grassi, per poi verificare gli effetti della somministrazione della pillola a base di melagrana. Come previsto, la dieta scorretta aveva danneggiato la salute cardiovascolare, i vasi sanguigni e l’endotelio: delicato rivestimento di questi ultimi e quella parte deputata al rilascio di sostanze chimiche che controllano l’espansione e la contrazione dei vasi sanguigni. Una diretta conseguenza di un danno all’endotelio è l’indurimento delle arterie, o aterosclerosi, che è poi l’anticamera di eventi cardiovascolari come per esempio infarto e ictus. Il passo successivo è stato quello di somministrare una dose giornaliera (200 g) di polifenoli, chiamati punicalagine (l’antiossidante maggiore contenuto proprio in questo tipo di frutto) per mezzo di una compressa. I risultati sono stati più che promettenti, e hanno mostrato che il concentrato di melagrana aveva annullato molti degli effetti deleteri della dieta ricca di grassi. «Arricchire una dieta con i polifenoli della melagrana può aiutare a prevenire e ritardare le disfunzioni endoteliali, che sono tra i primi segni di aterosclerosi e ictus», ha concluso nel comunicato ICSC la dottoressa Badimon. Bene. Visto che siamo proprio in stagione di melegrane, passiamo dal fruttivendolo e facciamone scorta, il nostro apparato cardiovascolare ringrazierà.

Fonte: La Stampa

La tiroide è una ghiandola endocrina che produce ormoni indispensabili per la regolazione del consumo energetico dell'organismo. La sua funzione è necessaria a tutto l'organismo non solo per regolare l'ingrassamento e il dimagrimento, ma si integra nell'intero equilibrio ormonale. I primi studi sul rapporto tra alimentazione e funzione tiroidea risalgono al 1994, quando si scoprì la prima adipochina (la leptina), una sostanza prodotta dalle cellule del tessuto adiposo con una azione sia di tipo ormonale sia di tipo regolatorio sull'infiammazione. Senza assunzione di cibo, comportamento che attiva la produzione di leptina, non viene attivata la funzione tiroidea, modificando quindi la risposta energetica dell'organismo.

Poi si scoprì che una delle più comuni affezioni della tiroide, la tiroidite, è in stretta relazione con la condizione allergica della persona che ne soffre. La minore o maggiore reazione tiroiditica può quindi dipendere dalla presenza di una maggiore o minore reattività allergologica. La ricerca sulle adipochine ha portato poi a capire come il modo in cui si mangia (ad esempio il bilanciamento di carboidrati e proteine nel singolo pasto) può determinare la produzione di una particolare adipochina, condizionando cosìa lcuni aspetti ormonali o la induzione di alcune patologie. Ma anche il fatto di mangiare in modo da aumentare la resistenza insulinica può interferire con la funzione della tiroide. La dominate assunzione di carboidrati e lo sviluppo di obesità (condizione non certo rara in questi tempi) è sicuramente correlata alla funzione tiroidea. In particolare alcuni dei lavori più recenti hanno potuto definire che alcune adipochine (come la visfatina) hanno unafunzione specificamente infiammatoria senza dipendere dalla resistenza insulinica (Oki K et al, Clin Endocrinol (Oxf).2007 Nov;67(5):796-800. Epub 2007 Jul 18), ma che la loro azione, affiancata alla presenza di una resistenza insulinica è strettamente correlata ad una disfunzione tiroidea come l'ipertiroidismo (Chu C eta al, Metabolism. 2008Oct;57(10):1380-3).

Quest'ultimo lavoro, pubblicato da pochissimo sulla rivista Metabolism apre delle importanti chiavi di applicazione per una terapia veramente integrata e “olistica” delle disfunzioni tiroidee. Infatti la interpretazione della ricerca consente di capire che una citochina infiammatoria come la visfatina e l'insulinoresistenza indotta da scorrette abitudini alimentari (ecceso di carboidrati alimentari) e comportamenti (assenza di attività fisica) convergono insieme nel determinare una alterazione di funzione tiroidea, che tende al riequilibrio dopo la terapia farmacologica. È ovvio che il medico, l'immunologo e l'endocrinologo hanno quindi a disposizione non solo farmaci che vadano ad agire sulla disfunzione in sé, ma una serie di indicazioni comportamentali che possono portare l'organismo ad una autoterapia in alcuni casi e ad una corretta cooperazione verso la guarigione in altri. Da oggi, andando dall'endocrinologo non dobbiamo aspettarci solo di ricevere un farmaco, ma dobbiamo sentire la responsabilità di modificare dei comportamenti per riportare l'organismo verso il riequilibrio e la regolazione ormonale. Quindi non più solo la pillola in tasca, ma anche le scarpette da corsa nella borsa e una chiara idea di cosa mangiare a prima colazione e pranzo, per una vera terapia integrata degli squilibri tiroidei.

Fonte: Eurosalus

Secondo dati OMS, più di 15 milioni di italiani hanno la pressione alta (ipertensione arteriosa) e la maggior parte evita di effettuare dei regolari controlli. E’ bene sapere che la pressione elevata è il fattore di rischio più significativo per attaccchi cardiaci e ictus. I farmaci per abbassare la pressione sanguigna sono tra quelli più prescritti, in particolare gli ACE-inibitori, con una distribuzione media ogni 1000 abitanti di circa 116,1 dosi al giorno. Tenere a bada la pressione talvolta può risultare abbastanza complesso e il medico si vede costretto ad associare più farmaci: ad esempio un Ace-inibitore e un bloccante dei canali del calcio. Tutte le classi di farmaci che abbassano la pressione sanguigna sono in possesso di effetti collaterali significativi. Un nuovo studio indica che le donne che assumono farmaci bloccanti dei canali del calcio, come il Norvasc (amlodipina), per 10 anni o più, hanno un rischio 2,5 volte maggiore di sviluppare il cancro al seno rispetto a chi non ha mai preso il medicinale o che hanno utilizzato altri trattamenti per la pressione sanguigna. Dati OMS del 2012 suggeriscono che le morti per cancro potrebbero aumentare del 93% rispetto al periodo precedente. E’ un fatto triste che molte di queste morti possano essere vittime del cancro causato prendendo un calcio-antagonista. Informazioni base sui calcio antagonisti

I farmaci calcio-antagonisti riducono la pressione sanguigna, impedendo al calcio di entrare nelle cellule che rilassano i vasi sanguigni. Poiché il calcio è necessario nella funzione di trasmissione nervosa e nella contrazione muscolare, l’effetto di bloccare il canale del calcio è quello di rallentare la conduzione nervosa e inibire la contrazione del muscolo. Nel cuore e nel sistema vascolare, questa azione ha come risultato la riduzione del tasso e della forza di contrazione, rilassando le arterie e rallentando gli impulsi nervosi nel cuore. Sebbene i calcio antagonisti hanno dimostrato di ridurre il rischio di ictus, hanno anche dimostrato di produrre un aumento del rischio di attacchi cardiaci. Benchè meglio tollerati rispetto ad altre categorie di farmaci utilizzati per il controllo della pressione alta (beta-bloccanti, ACE-inibitori e diuretici), i calcio-antagonisti producono alcuni lievi effetti collaterali quali stipsi, reazioni allergiche, ritenzione di liquidi, vertigini, mal di testa, stanchezza e impotenza (circa il 20% degli utenti). Effetti collaterali più gravi includono disturbi del ritmo cardiaco, scompenso cardiaco e angina. Esempi di calcio-antagonisti sono: amlodipina (Norvasc), diltiazem (Cardizem CD, Cartia, Dilacor Xr, Diltia Xt, Tiazac), felodipina (Plendil), lacidipina (Motens), lercanidipina (Zanidip), nicardipina (Cardene, Carden SR), Nifedipina (Adalat CC, Procardia XL), nimodipina (Nimotop), nisoldipina (Sular), nitrendipina (Cardif, Nitrepin), verapamil (Calan, Covera-Hs, Isoptin, Verelan). Nuovi dati sugli effetti collaterali dei farmaci calcio-antagonisti. Precedenti studi hanno indicato che i farmaci che abbassano la pressione del sangue possono aumentare il rischio di alcuni tumori.

Per valutare le associazioni tra l’uso di diverse classi di farmaci per la pressione sanguigna ed i rischi di tumori al seno lobulare invasivo duttale nelle donne in post-menopausa, uno studio è stato condotto nell’area metropolitana di Seattle-Puget. I partecipanti erano donne tra i 55 ei 74 anni, 880 con carcinoma mammario duttale invasivo, 1027 con cancro mammario invasivo lobulare e 856 senza cancro. I risultati hanno dimostrato che l’uso di calcio-antagonisti per 10 o più anni è associato ad un maggior rischio di tumore al seno sia duttale che lobulare. Questa relazione non varia sensibilmente a secondo del tipo di calcio-antagonista usato. Al contrario, l’uso di diuretici, beta-bloccanti e ACE-inibitori, non è stato associato con il rischio di cancro al seno. Il rischio relativo di sviluppare il cancro al seno è stato di 2,5 volte (250%) maggiore tra le utenti della sostanza bloccante i canali del calcio. Conclusione: meglio preferire terapie naturali per ridurre la pressione, soprattutto per le donne Questi risultati forniscono una causa importante di preoccupazione e sottolineano l’importanza di utilizzare terapie alternative per il controllo della pressione arteriosa nelle donne, preferibilmente terapie non farmacologiche. Tutte le classi di farmaci che abbassano la pressione sanguigna presentano significativi effetti collaterali. Si dovrebbe fare ogni possibile sforzo per controllare la pressione sanguigna attraverso la dieta, modificando lo stile di vita e l’uso corretto di prodotti naturali.

Fonte: ComeMigliorare.com

Nessun farmaco che sia solo ed esclusivamente sintomatico ci è mai piaciuto; gli antiacidi e gli inibitori di pompa protonica, cioè i farmaci attualmente più diffusi tra l'esercito di reflussisti gastrici (veri o presunti) e ormai proposti come compagnia obbligata a qualsiasi terapia farmacologica minimamente disturbante, stanno evidenziando, grazie a ricerche molto precise, possibili effetti collaterali di notevole importanza. Trattandosi di farmaci sintomatici, che non guariscono cioè, ma che fermano un possibile segno di allarme o di difesa dell'organismo, dovrebbero essere usati per brevissimi periodi in condizioni particolari. Invece vengono usati come terapia prolungata, e dato il loro elevato costo, con notevole soddisfazione delle case produttrici e con dispendio protratto da parte dello Stato.

Abbiamo di recente segnalato l'evidenza dell'aumentato rischio di frattura ossea in soggetti che fanno uso di queste sostanze, ma a seguito di una ricerca neozelandese del 2006 (Clark DW et al, Eur J Clin Pharmacol 2006 Jun;62(6):473-9. Epub 2006 Apr 22), che evidenziava il rischio di malattie muscolari e di polimiosite, fino ad arrivare alla rabdomiolisi (la stessa malattia che talvolta provocano le statine, e per la quale fu ritirato negli anni scorsi il Lipobay) si è voluto, più di recente valutare la realtà di queste affermazioni attraverso una ricerca spagnola che ha confrontato tutte le segnalazioni di aventi negativi correlabili con la assunzione di queste sostanze. Da questo lavoro (Salqueiro E et al, Int J Clin Pharmacol Ther 2006 Nov;44(11):548-56) è emerso con chiarezza che i possibili effetti collaterali di queste sostanze sono sicuramente molti, anche se questi vengono raramente segnalati, perché spesso i medici sono portati a pensare che un farmaco “protettivo” non possa avere effetti dannosi. Non sanno costoro quanto si sbagliano.

Citando a caso dall'elenco, troviamo che problemi di pelle, alterazioni del sistema endocrino e riproduttivo, problemi epatici e biliari, mialgie e problemi articolari, disturbi intestinali e gastrici (quegli stessi che dovrebbero curare...) sono purtroppo i frequenti effetti correlati alla assunzione dei prodotti di tutta questa classe farmacologica. E non sfugge neanche l'artrite, perchè si è documentato che il lansoprazolo determina una alterazione del sistema immunitario che può portare proprio in quella direzione. Quanta gente con dolori di articolazioni, muscoli o schiena sotto lansoprazolo li vede scomparire quando il farmaco viene sospeso? Tanta purtroppo, e ci auguriamo che alcuni lavori vadano ad approfondire questi aspetti, anche se restiamo comunque un po' sorpresi, come sempre, del fatto che effetti simili non riescano mai ad essere evidenziati in fase di studio preliminare del farmaco. Compaiono solo quando i farmaci sono ormai dei “best selling” e l'opera per poterli modificare potrebbe rivelarsi inutile.

Tra gli articoli correlati sono riportati alcuni dei lavori su questo tema che Eurosalus ha già approfondito e divulgato. È necessario prendere coscienza di questa relazione, per non rendere inutile lo sforzo di altri, e per aumentare la conoscenza di tutti e difenderci dai farmaci, che diventano pericolosi quando vengono prescritti inutilmente.

Fonte: Eurosalus

Un lavoro scientifico ribalta le teorie oggi esistenti sulle cause genetiche o familiari dell’Alzheimer.
Il confronto è stato fatto tra due gruppi con radici genetiche molto simili, che si nutrono però in modo radicalmente diverso; il risultato strabiliante è che l’incidenza dell’Alzheimer e della demenza senile in un gruppo (con la classica alimentazione occidentale) è circa tre volte maggiore che nel gruppo con alimentazione più povera.

Il problema riguarda milioni di persone in tutto il mondo e coinvolge risorse economiche enormi per la terapia e il sostegno delle persone disabili. Una parte di questa malattia dipende dalle condizioni genetiche; occuparsi solo di questi aspetti tralasciando le cose più semplici e meno costose come la alimentazione e l’ambiente può essere un grave errore.
Sul numero del JAMA (Journal of American Medical Association) pubblicato il giorno di S. Valentino (Hendrie HC, JAMA ,2001 Feb 14;285(6):739-47) il Dr. Hugh C. Hendrie (docente di neurologia e psichiatria alla Indiana University) ha presentato questo confronto fatto nel corso di 5 anni tra due grandi gruppi di soggetti (circa 4500 persone) con numerose basi genetiche in comune, perché la provenienza storica della maggior parte dei neri di Indianapolis è di fatto la "costa degli schiavi" nigeriana.
Un gruppo di neri, abitanti ad Indianapolis (USA), alimentato con la classica dieta mista e ricca americana.
Un gruppo di neri, abitanti a Ibadan (Nigeria), alimentato con la loro povera dieta a base di verdure, frutta, cassava, olio di palma e pesce.
Lo studio è iniziato tra soggetti sani e con funzioni neurologiche normali a 65 anni (età in cui negli USA già il 10% della popolazione presenta segni di Alzheimer). Nel corso di 5 anni il deterioramento mentale progressivo si è presentato nel 3,25% degli abitanti di Indianapolis, e solo nell’1,35% dei nigeriani.
Gli autori dell’articolo segnalano una possibile connessione con la pressione alta, che affligge sicuramente più gli statunitensi dei nigeriani; anche la pressione arteriosa è però strettamente dipendente dalla dieta, quindi il discorso non cambia.
E il problema non dipende da una maggiore o minore propensione alla depressione, come evidenziato dallo stesso autore in un lavoro del 2007 sugli stessi gruppi di popolazione (Baiyewu O. et al, Int Psychogeriatr 2007 Aug;19(4):679-89. Epub 2007 May 16). Si tratta di una scoperta di enorme importanza; di certo per ora non si è autorizzati a dire che è solo la dieta l’elemento che crea la differenza.

Esistono anche alcune condizioni ambientali che non sono state ancora oggetto di studio, ma di certo l’alimentazione ha una sua importanza, e deve essere tenuta in serissima considerazione.
Probabilmente elementi come la dieta e l’esercizio fisico possono ottenere effetti di prevenzione sull’Alzheimer molto più intensi di quelli derivanti da qualsiasi farmaco. La lezione, oggi che tutte le industrie sembrano pensare solo ai costosi interventi sul genoma dell’uomo, è grande.
Si viene richiamati a valutare aspetti basilari, naturali e fisiologici per la prevenzione e la terapia delle malattie croniche. L’azione naturale potrebbe alla fine dimostrarsi più attiva ed efficace di qualsiasi altra.

FONTE: Eurosalus

Per noi nessuna sorpresa, ma chi si occupa di respiro probabilmente ha un balzo sulla sedia e dovrà ricredersi almeno un po', vista l'intensa contestazione degli ultimi anni. Un bellissimo lavoro pubblicato sul Journal of Allergy and Clinical Immunology (Brandt EB et al, J Allergy Clin Immunol 2006 Aug;118(2):420-7) precisa una situazione che da tanti anni noi già affrontiamo con cognizione di causa, tanto da proporre comunque in ogni caso di tosse persistente, anche una analisi dei livelli di IgG verso gli alimenti (che spesso si dimostra risolutiva) oltre che ovviamente quella delle allergie respiratorie.

La sequenza del lavoro scientifico è veramente interessante: i ricercatori statunitensi hanno studiato cosa succedeva ai polmoni dei topini (sensibilizzati all'uovo) cui veniva fatto mangiare dell'uovo. Fino a 12 giorni dopo un carico alimentare di cibo contenente uovo si poteva vedere ancora la presenza di una infiammazione e di una reazione irritativa del sistema respiratorio. Polmoni, trachea, bronchi e naso erano stimolati a reagire da sostanze diffusissime come acari e polveri verso cui precedentemente non avevano mai manifestato “antipatia”. In pratica se trasportassimo l'esempio su un normale bambino italiano intollerante al latte, ci troveremmo ad avere un piccolo paziente che semplicemente perché supera il livello di soglia della sua reattività mangiando un gelato o uno yogurt si trova ad avere la tosse, l'asma e la rinite. Di solito prima che qualcuno ragioni in termini di alimentazione il bambino si è fatto mesi di antibiotici ripetuti ed ha rischiato di diventare diabetico per le tonnellate di sciroppi per la tosse che ha dovuto ingurgitare.

Il fatto che la reattività alimentare possa dare asma nell'81% dei casi è un dato già riferito da Hugh Sampson (il massimo esperto mondiale di allergia alimentare) fin dal 2002, ma il problema severo resta quello della ottusità di chi si ostina a pensare che il cibo è solo un elemento “da digerire” senza riuscire a vederne le profonde azioni sul sistema immunitario. Oggi abbiamo la conferma che per tanti anni abbiamo percorso una strada corretta. Sappiamo che la ricerca di una ipersensibilità alimentare (allergia o intolleranza alimentare che sia) diventa un passaggio necessario (e molto frequente) nella ricerca delle cause di un problema respiratorio. Ma andando oltre, anche di qualsiasi problema infiammatorio non causato direttamente da virus o batteri. E sappiamo che il medico che prima “derideva” e oggi “non ci pensa”, potrebbe essere chiamato a rispondere, scientificamente, di omissione e di negligenza. Quando il vostro medico vi dirà che tossite perché state mangiando male, non pensate che sia impazzito: probabilmente sta iniziando a riflettere più profondamente sulla globalità di funzionamento del vostro sistema immunitario.

Fonte: Eurosalus

All'inizio dell'anno ci siamo permessi di evidenziare le prime segnalazioni sul rapporto tra acne e latte. Oggi un lavoro analitico svolto su oltre 6000 adolescenti, e controllato in ogni sua fase, ha avuto l'onore della pubblicazione sul prestigioso Journal of Dermatology on-line (Adebamovo CA et al, Dermatol Online J. 2006;12(4)). Le evidenze della relazione tra assunzione di latte e comparsa di acne nelle adolescenti sono sempre più forti.
Certo il lavoro si riferisce alle sole adolescenti femmine, ma confrontando questi dati con gli altri che stanno evidenziandosi in ambito medico è sensato ritenere che questo valga anche per i maschietti.

Certo, possiamo ragionare sull'uso di preparati eccellenti, come l'antiossidante Cellfood Multivitamin spray, il forte regolatore cutaneo Bioenergen, il depurativo Inositolo, i protettivi minerali contenuti in Oximix 1+, o ancora l'impiego di Euphorbia Eterodoxica per la riduzione e l'attenuazione delle cicatrici residue, ma il punto focale rimane quello delle alterazioni ormonali indotte dalla assunzione di latticini.
Ed è sempre più evidente che il problema non deriva solo dall'aumento della resistenza insulinica tipicamente indotto dalla assunzione di latte, ma anche dalla reattività infiammatoria correlata alle intolleranze alimentari. Infatti nella nostra personale casistica il rapporto tra acne e latte non è sistematico, ma individuale, legato cioè alla particolare reattività immunologica di ciscuno nei confronti del latte del formaggio o dello yogurt.
E quando parliamo di questa interferenza sul metabolismo, è bene ricordare che il rapporto tra latte, calcio e obesità è oggetto di grandi dibattiti. Uno dei lavori più importanti e meno diffusi dell'ultimo periodo evidenzia su oltre 13.000 adolescenti seguiti per oltre tre anni un rapporto positivo tra assunzione di calcio e aumento di peso. Chi mangia più latte, cioè, diventa più grasso.
A breve distanza di tempo la lobby lattiero/casearia ha cercato di rispondere con un articolo (fatto a tavolino) che minimizzava questo effetto, ma i dubbi (e un lavoro fatto su 13.000 persone dei dubbi li deve creare!) restano intatti, e l'invito a mantenere oggi con i latticini un rapporto controllato è sostenibile con forza.
In questo articolo di CS Berkey della Harvard Medical School (Berkey CS et al, Arch Pediatr Adolesc Med 2005 Jun;159(6):543-50) viene evidenziato non solo l'effetto del latte, ma anche quello del calcio nel determinare un aumento di peso negli adolescenti. Viene quindi confermata l'equazione "più latte, più insulina, più effetti ormonali come ingrassamento e acne."

E siamo convinti che questa cosa, anzichè essere una dannazione per i ragazzi potrebbe, se gestita in modo adatto, diventare una occasione di consapevole crescita e di aiuto alla modifica dell'alimentazione. Nella nostra pratica clinica, in cui grazie allo studio delle intolleranze alimentari non arriviamo mai a eliminare un alimento, ma inseriamo qualche giorno di controllo nelle abitudini alimentari della settimana, vediamo che la accettazione e la fattibilità da parte del "teenager" è sempre molto elevata.


FONTE: Eurosalus

Ormai, per la gran parte dell’anno, la vita di molti di noi si svolge tra quattro mura o dentro una macchina, le occasioni di uscire all’aria aperta sono sempre meno. Questo porta ad una ridotta esposizione al sole e quindi ad una carenza di vitamina D3, che nei Paesi occidentalizzati e per lo più inurbati sta diventando quasi epidemica. Fino a poco tempo fa, la carenza di questa straordinaria vitamina era associata solo al rachitismo, mentre oggi sappiamo che potrebbe predisporre a numerose altre patologie. L’arrivo della bella stagione è una grande occasione per esporsi al sole e fare il pieno di vitamina D3. Il sole ha una straordinaria importanza per la nostra salute, nonostante la propaganda contraria, per altro non supportata da evidenze scientifiche. Addirittura, alcuni studi mostrano che una corretta esposizione al sole evitando le ustioni può ridurre significativamente il rischio di melanoma. Quindi la chiave è ancora una volta la giusta misura: esporsi senza ustionarsi, senza creare danni permanenti alla cute. L’esagerata paura del sole ha portato ad un diffuso ed eccessivo uso di prodotti per la protezione solare, che sono più pericolosi del sole stesso. In primo luogo sono pieni di sostanze chimiche, molte delle quali potenzialmente tossiche e addirittura cancerogene. Secondariamente, questi "solari" potrebbero impedire al corpo di produrre la preziosa e vitale vitamina D3, bloccando gli UVB, che sono proprio i raggi che il nostro corpo necessita per sintetizzare questa vitamina. L’uso dei solari può ridurre la produzione della vitamina D3 tra il 97.5 e il 99.9%! La vitamina D3 è davvero molto, molto importante per la nostra salute. Vediamo solo alcuni benefici:

- aumenta la forza muscolare
- influenza positivamente la pressione sanguinea
- protegge l’apparato cardiovascolare
- rafforza il sistema immunitario e combatte le infezioni
- rafforza i denti
- rafforza l’apparato scheletrico

Per quanto riguarda i tumori, l’esposizione al sole può essere utile nella prevenzione di almeno 16 tipi di cancro: mammella, colon, endometrio, esofago, ovaie, vescica, cistifellea, pancreas, retto, reni e linfoma non-Hodgkin. Tornando ai raggi solari, abbiamo detto che gli UVB sono quelli benefici perché stimolano la produzione di vitamina D3. E gli UVA ? Questi sono considerati "cattivi", perché penetrano nella pelle più profondamente e creano più danni ossidativi. La cosa curiosa è che in questi decenni abbiamo sempre consigliato alla gente di non esporsi al sole nelle ore centrali della giornata perché è il periodo di massima insolazione e quindi il rischio di ustioni è maggiore. Ultimamente invece si è scoperto che i benefici raggi UVB sono emessi con maggiore intensità proprio verso mezzogiorno. Una esposizione corretta nelle ore centrali del giorno, quindi, sarebbe di massimo beneficio. Nelle ore del mattino e i quelle del pomeriggio, l’emissioni degli UVB decrescono mentre prevalgono quelle degli UVA, che comunque sono costanti durante tutto il giorno. Contrariamente a quello che abbiamo sempre creduto, quindi, l’esposizione al sole della mattina e del pomeriggio non sarebbe poi così benefico e sicuro.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

I movimenti salutistici e vegetariani sorti alla fine dell’800 hanno dato il via ad una campagna, spesso dai toni aggressivi e terroristici, contro il consumo di carne, che ha trovato poi eco negli studi scientifici più o meno attendibili degli ultimi cinquant’anni e che in tempi più recenti è stata rafforzata dalla minaccia che gli allevamenti di bovini costituirebbero per gli equilibri ecologici del Pianeta. Non voglio per il momento addentrarmi nei risvolti ecologici o etici che implica il fatto di nutrirsi di carne. A questi dedicherò un articolo a parte. Mi interessa piuttosto affrontare l’annoso problema della presunta pericolosità di questo cibo ancestrale. La carne causa il tumore del colon o no ?

Vediamo alcuni dati:
- una recente review pubblicata sulla rivista European Journal of Clinical Nutrition ha preso in esame 44 importanti studi sul legame carne-tumore del colon ed è emerso che la maggioranza di questi (ben 31) non confermano per nulla questa relazione (1).
- uno studio pubblicato sulla rivista American Journal of Clinical Nutrition (2) ha confrontato varie categorie di consumatori: coloro che mangiano carne e pesce, quelli che mangiano pesce e non la carne, i vegetariani e i vegani. E’ emerso che i vegetariani e i vegani avevano un rischio maggiore (dal 39 al 49 % in più) di contrarre il tumore del colon rispetto alle altre categorie, diciamo “carnivore”.
- un’ altra review pubblicata sulla rivista American Journal of Clinical Nutrition ha analizzato diversi studi che hanno preso in considerazione il legame tra il consumo di proteine e grassi animali e il rischio di tumore del colon senza trovare nessuna associazione significativa (3).
Quindi, sulla base dei dati attualmente disponibili, la risposta alla nostra domanda è no, mangiare carne non aumenta il rischio di tumore al colon.

Fonte: Dr. Francesco Perugini Billi

Nel 1988 il Dr A. Wakefield (Royal Hospital London) pubblicò un lavoro in cui ipotizzava un legame tra infiammazione cronica dell’intestino e l’autismo. In questi bambini aveva riscontrato una condizione definita “Enterocolite autistica” o “Ileal-Lymphoid-nodular Hyperplasia”. Negli anni successivi, diversi studi hanno evidenziato una possibile influenza dell’intestino e quindi indirettamente dell’alimentazione sulla comparsa o sull’aggravamento di diverse problematiche cognitive del bambino, come autismo, dislessia e sindrome da deficit attentivo. Ad essere chiamati in causa sono soprattutto il glutine, contenuto in alcuni cereali, e la caseina, contenuta nei latticini. Nello stomaco, queste proteine vengono scisse in alcuni peptidi che hanno una struttura morfino-simile e definiti rispettivamente caseomorfine e gluteomorfine. Queste raggiungono l’intestino dove subiscono la digestione di alcuni enzimi (peptidasi) e vengono così inattivati prima di essere assorbiti. In alcuni soggetti questi enzimi digestivi non funzionano per via di una ecologia intestinale compromessa (disbiosi, enterociti danneggiati, aumento della permeabilità intestinale) e questo porta ad un assorbimento delle due sostanze morfino-simili, che una volta in circolo interferiscono sulle funzioni del cervello.

Diversi studi hanno messo in evidenza che nel sangue di molti pazienti affetti da autismo, schizofrenia, psicosi, defici attentivo e problematiche autoimmunitarie sono presenti notevoli livelli di caseomorfine e gluteomorfine, rispetto alle persone sane. Il legame tra peptidi morfino-simili alimentari e Disordini dello Spettro Autistico (DSA) è stato confermato da un recentissimo studio(1) che ha dimostrato come una dieta priva di latticini e cereali con glutine sia in grado di migliorare i sintomi associati al DSA. I ricercatori hanno anche notato che i bambini affetti da DSA sono più colpiti da disturbi gastro-intestinali (GI) e forme allergiche rispetto alla popolazione pediatrica generale e che sono proprio gli autistici con questi problemi quelli che rispondono meglio alla privazione di glutine e caseina. In pratica, i genitori si sono accorti che eliminando in modo rigoroso i cereali con glutine e i latticini i loro figli miglioravano nel linguaggio, nelle relazioni sociali, nella capacità di attenzione e nel contatto visivo. Per gli autori di questo studio, l’autismo non è solo un problema neurologico, ma dipende anche dall’intestino e dal sistema immunitario e una dieta priva di caseina e glutine potrebbe essere benefica per una certa parte di autistici. Inoltre, ipotizzano anche una possibile influenza da parte della soia.

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