Tutto merito della vitamina D. Riduce il rischio di decessi del 60%. È l'interessante scoperta di un team di ricercatori spagnoli. La ricerca ha indagato sull'efficacia del calcifediolo (la vitamina D3) su oltre 550 pazienti ricoverati nei reparti Covid dell'Hospital del Mar, a Barcellona, in Spagna. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale o come destinatari del trattamento con calcifediolo o come controlli ripetuti durante il periodo di ospedalizzazione. Quindi, dal momento del ricovero, prima di ricevere cinque dosi di vitamina a intervalli crescenti di due, quattro, otto e 15 giorni. Insomma, ulteriore conferma gli effetti positivi del trattamento con la vitamina D in pazienti con comorbilità incidendo notevolmente sulla riduzione dei decessi e le eventuali complicanze con i relativi trasferimenti in terapia intensiva. Lo studio, che evidenzia scientificamente l'effettivo ruolo della vitamina D sui malati di coronavirus, è stato coordinato dall'Università di Padova con il supporto delle Università di Parma, di Verona e gli Istituti di Ricerca CNR di Reggio Calabria e Pisa e pubblicato sulla rivista Nutrients. Tuttavia, questo non è certo un caso isolato. Altri lavori scientifici, infatti, avevano associato l'ipovitaminosi a un rischio maggiore di infezione e alle sue manifestazioni cliniche più aggressive. Tra questi, una recente indagine francese aveva suggerito che la terapia con colecalciferolo, assunta nei mesi precedenti il contagio, potesse favorire un decorso meno critico in pazienti anziani fragili affetti da Covid-19.
Lo studio mostra i potenziali effetti positivi della somministrazione di vitamina D sul decorso della malattia in persone con comorbilità affette da SARS-CoV2. «I pazienti della nostra indagine, di età media 74 anni - spiega il prof. Sandro Giannini dell'Università di Padova - erano stati trattati con le associazioni terapeutiche allora causate in questo contesto e, in 36 soggetti su 91 (39.6%), con una dose alta di vitamina D per 2 giorni consecutivi. I rimanenti 55 soggetti (60.4%) non erano stati trattati con vitamina D». L’indagine nasce con l'obiettivo di valutare se la proporzione di pazienti che andavano incontro al trasferimento in terapia intensiva e/o al decesso potesse essere condizionata dall'assunzione di vitamina D. Durante un periodo di follow-up di 14 giorni circa, 27 (29,7%) pazienti venivano trasferiti in terapia intensiva e 22 (24,2%) andavano inevitabilmente incontro al decesso. Nel complesso, 43 pazienti (47,3%) andavano incontro a decesso o trasferimento in terapia intensiva. L'analisi statistica rivelava che il peso delle comorbidità (rappresentate dalla storia di malattie cardiovascolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, malattia neoplastica non in remissione, diabete mellito, malattie ematologiche e malattie endocrine) modificava in modo ampiamente significativo l'effetto protettivo della vitamina D sull'obiettivo dello studio, in modo tale che maggiore era il numero delle comorbidità presenti, più evidente era il beneficio indotto dalla vitamina D. «In particolare – evidenzia il ricercatore -, in coloro che avevano assunto il colecalciferolo, il rischio di andare incontro a "decesso/trasferimento in ICU" era ridotto dell'80% rispetto ai soggetti che non l'avevano assunto».
La vitamina-ormone preziosa non solo per rafforzare il nostro sistema immunitario e per il benessere di denti e ossa, ma fondamentale alleata in questa pandemia nella lotta contro un nemico comune. Tanto discussa e altrettanto fondamentale per la nostra salute. Riduce il rischio di cancro, protegge dal diabete, dalle malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni. Il nostro organismo produce vitamina D tramite i raggi solari che irradiano la cute (circa l’80%). Una piccola parte poi, seppur insufficiente, può essere assunta con gli alimenti. Tuttavia, l’unica fonte quindi è il sole che una volta entrato tramite la pelle, viene accumulata nel nostro tessuto adiposo e poi viene immagazzinata e rilasciata lentamente durante l’anno, soprattutto in inverno. I suoi importanti effetti a livello immunitario era confermati già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. In un’intervista a Napoli Today il dottor Giuseppe Russo, medico di base presso l’ASL Napoli 1 spiega l’importanza della vitamina del “sole”:
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
Quella che comunemente chiamiamo "vitamina D", in realtà appartiene ben poco al gruppo delle vitamine, bensì, per struttura chimica (steroidea) e per funzione, è un pro-ormone. I pro-ormoni non sono altro che dei precursori della sintesi degli ormoni. 1/3 del nostro fabbisogno giornaliero di vitamina D – continua l’esperto nell’intervista - proviene dagli alimenti (pesce azzurro, tuorlo d’uovo, latte e formaggio), la restante parte si forma nella pelle attraverso l’esposizione ai raggi solari, e viene immagazzinata nel fegato e nel tessuto adiposo. Gli effetti sono molteplici e svariati. Quelli più noti riguardano la crescita ossea, l’allattamento e la gravidanza. Tuttavia molti studi hanno evidenziato che una sua carenza è spesso associata a diversi tipi di malattie, quali diabete, infarto, morbo di Alzheimer, allergie, sclerosi multipla, obesità e riduzione del tono dell’umore. - Poi, evidenzia ancora Russo, la sua possibile correlazione tra Covid.19 e ipovitaminosi D: - L’integrazione della vitamina D, anche in dosi generose, nel contagio da COVID 19, è giustificata dalla sua azione di modulazione del processo infiammatorio e di regolazione del sistema immunitario. Un suo uso preventivo, però, per essere efficace, non può prescindere da un corretto e puntuale dosaggio della sua concentrazione nel sangue.
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo.
Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi.
Negli ultimi mesi, diverse evidenze scientifiche oltre alla sperimentazione nel Regno Unito, hanno confermato la correlazione tra l’ipovitaminosi D e il maggior rischio di esposizione al Covid e di successive complicanze. Prima tra tutte, l’indagine condotta da due ricercatori dell’Università di Torino sulla necessità di adeguati livelli di questa vitamina, soprattutto negli anziani. Questo perché, nell’indagine condotta dagli esperti, ma non solo, la carenza di questa vitamina viene associata a un aumento delle infezioni, da qui le complicanze riscontrate nei soggetti positivi al coronavirus con un deficit di questo nutriente. Già nel maggio scorso, Giancarlo Isaia, autore di una recente indagine sugli effetti della vitamina D e su una sua correlazione con il Covid, insieme al collega Enzo Medico, docente dell’Università di Torino, avevano parlato dei notevoli benefici della vitamina D come alleata nel contrasto alla pandemia. Lo studio dei ricercatori mostrava come molti pazienti ricoverati per Covid presentavano gravi carenze di vitamina D. Anche la review pubblicata qualche mese fa su Nutriens, evidenziava la capacità dell’integrazione della vitamina D di incidere sul rischio di sviluppare infezioni da COVID-19. Seguita poi dallo studio norvegese condotto a marzo su 15 mila persone, ha mostrato laddove vi era un consumo abituale dell'olio di fegato di merluzzo, fonte di vitamina D, c’erano anche i meno esposti al virus e coloro che l'avevano contratto avevano sviluppato una forma più lieve della malattia. Sulla stessa linea anche una recente indagine condotta dall’Università della Cantabria a Santander in Spagna ha sottolineato un’interessante correlazione tra le persone positive al coronavirus, ricoverate in ospedale, con una carenza di vitamina D.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
E ancora un altro studio spagnolo, prima di questo, ha evidenziato la carenza di vitamina D come fattore di rischio del Covid, mostrando come oltre l’80% dei pazienti ricoverati per il virus presentasse una carenza di vitamina D. La ricerca condotta dall'équipe di scienziati guidati da José Hernàndez e pubblicata recentemente sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, ha sottolineato che nell’82,2% dei pazienti ricoverati in un ospedale spagnolo sono stati riscontrati scarsi livelli di vitamina D. Altra indagine degna di nota che era arrivata a conclusioni simili è quella condotta dall’Università di Chicago e pubblicata sul Journal of American Medical Association Network Open dove le persone con scarsi livelli di vitamina D potrebbero avere fino al 60% di probabilità in più di contrarre il coronavirus. Ultima tra le più rilevanti, ma non per importanza, una teoria comune proposta anche in studi meno recenti. Un team di ricerca britannico composto da scienziati del The Queen Elizabeth Hospital Foundation Trust e dell’Università dell’East Anglia avevano trovato un’associazione tra tasso di decessi superiore per COVID-19 e popolazioni con vitamina D carente. Tirando le somme, una dieta ricca di vitamina D è risultata in grado di attenuare i sintomi della polmonite interstiziale in modelli murini e una sua carenza è stata correlata con la severità della polmonite interstiziale sperimentalmente indotta. Non dimentichiamo poi che l’Italia – soprattutto le donne con il 76% - è tra i Paesi europei (insieme a Spagna e Grecia) con maggiore prevalenza di ipovitaminosi D.
RIPRODUZIONE RISERVATA LIFE 120 © Copyright A.R.
Per approfondimenti:
Gazzetta del Sud "Studio sul Covid: la vitamina D riduce le morti del 60%. Ricerca analoga al Cnr di Reggio"
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
JAMA Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"
LEGGI ANCHE: Dalla vitamina D al Covid: una lunga storia tra mito e scienza
Covid, calo morti e trasferimenti in terapia intensiva dell'80%: merito della vitamina D
Il sole contro il Covid: la vitamina D ci rende più forti e meno vulnerabili
Covid, studio a Pavia: carenza di vitamina D associata all’infezione
Regno Unito: contro il Covid, vitamina D a oltre 2 milioni di persone
Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti
Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D
Non solo un ormone fondamentale per mantenere il nostro organismo in perfetta salute. «La vitamina D è fondamentale per il corpo umano ed è disponibile in due tipi: vitamina D2 e D3», spiega Gabriele Stangl della Martin Luther University. Quindi di fondamentale importanza per fissare il calcio nelle ossa. Previene, inoltre, sia lo sviluppo del rachitismo nei bambini, che dell’osteoporosi negli anziani. Agisce come un ormone, controllando vari organi e sistemi e ha un'azione regolante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario. La sua carenza potrebbe, infine, essere associata a diverse patologie, quali il diabete, l’Alzheimer, l’asma e la sclerosi multipla. Circa l’80% viene prodotta dalla nostra pelle grazie ai raggi UVB, mentre la parte residua viene introdotta con l’alimentazione. Dalla capacità di modulare e influenzare meccanismi fisiologici dell’organismo al mantenimento di ossa e denti in salute, dal buon funzionamento dei muscoli al rinforzo del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è ormai da anni oggetto di ricerca. La vitamina D3 è prodotta dalla pelle attraverso l'esposizione al sole. «Gli esseri umani - prosegue l'esperto - ottengono il 90% del loro fabbisogno di vitamina D in questo modo. Il resto viene consumato attraverso il cibo, come il pesce grasso o le uova di gallina. La vitamina D2 si trova invece nei funghi: le fave di cacao sono sensibili alla contaminazione da funghi e spesso contengono quantità considerevoli di ergosterolo, il precursore della vitamina D2, proprio per questo motivo». Tanto discussa, soprattutto nei mesi scorsi, a seguito dei recenti studi circa una sua correlazione ed eventuale efficacia nel contrasto dell’infezione da Covid. Diversi studi avevano, infatti, evidenziato la necessità di adeguati livelli di questa vitamina, soprattutto negli anziani. Questo perché, nelle indagini condotte dai diversi esperti, la carenza di questa vitamina viene associata a un aumento delle infezioni, da qui le complicanze riscontrate nei soggetti positivi al coronavirus con un deficit di questo nutriente. «La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo e nutrizionista.
Il recettore per la vitamina D – continua il biologo - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi conclude il biologo.
«Io preferisco definirla un ormone», chiarisce in un’intervista a Gazzetta Active il professor Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology.
A differenza delle altre vitamine – continua l’endocrinologo - la fonte principale non è il cibo, bensì la luce solare. E infatti lo stile di vita attuale, che ci vede trascorrere sempre più tempo in luoghi chiusi, può portare a deficit di vitamina D che una alimentazione anche ricca di quelle che sono le fonti alimentari di questa vitamina non è in grado di sopperire. - Cibi addizionali o integratori alimentari? - Quello dei cibi addizionati è un aspetto utile dal punto di vista della popolazione. A livello di singolo, i supplementi di vitamina D sono sicuramente più indicati, anche perché dosaggio e somministrazione possono essere modulati. - Quanto sole prendere per sopperire a un’eventuale carenza di vitamina D? - Bisognerebbe esporsi ogni giorno almeno per mezz’ora, lasciando scoperti non solo il viso e le mani, ma anche le braccia o le gambe, almeno. E purtroppo sì, un fattore protettivo elevato blocca la produzione di vitamina D. - Le fonti principali per fare il pieno di vitamina D - : Le uova, i pesci grassi come il salmone o lo sgombro, i crostacei, i funghi. Ma se manca il sole è facile avere carenze.
Sintomi e cause di un’ipovitaminosi D, come riconoscerla.
La vitamina D in sé quando è carente non dà segnali evidenti. Ma dal momento che la sua azione principale è l’assorbimento del calcio, in caso di carenze gravi si possono avere i sintomi tipici di una ipocalcemia, come formicolii e parestesie alle mani e ai piedi. Anche una propensione alle fratture può essere un segnale in questo senso, come pure l’astenia, la debolezza muscolare e la conseguente facilità alle cadute, poiché la vitamina D ha funzioni extrascheletriche, sul muscolo». «Con un semplice esame del sangue che misuri i livelli di calcifediolo o 25 idrossivitamina D. Livelli inferiori ai 20 nanogrammi per millilitro indicano una carenza di vitamina D». «Le cause possono essere molteplici, ma quella principale è, appunto, la ridotta esposizione al sole. La gran parte della vitamina D che serve all’organismo viene prodotta dalla pelle sotto forma di vitamina D3 o colecalciferolo (la forma inattiva della vitamina D), in risposta alle radiazioni solari. Come abbiamo visto parlando del possibile legame tra deficit di vitamina D e Covid, lo stile di vita attuale, che ci vede sempre più in luoghi chiusi, è un fattore di rischio in questo senso. Per questo il consumo di cibi addizionati di vitamina D può essere risolutivo, soprattutto a livello di popolazione generale, come sanno i Paesi del Nord Europa, in cui questa è una consuetudine consolidata e il deficit di vitamina D è meno diffuso che nei Paesi del Mediterraneo.
Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene
Tra i numerosi fattori che aumentano il rischio di un deficit di vitamina D anche i farmaci:
Oltre alla scarsa esposizione solare abbiamo problemi specifici, come quello legato all’età. Negli anziani, infatti, la pelle è meno capace di produrre colecalciferolo (la vitamina D inattiva, che poi il nostro organismo metabolizza a forma attiva) dopo l’irradiazione della luce solare, e quindi c’è una cute meno efficiente. Questo è un elemento che predispone l’anziano ad avere livelli di vitamina D più bassi rispetto ai giovani, che hanno una pelle più efficiente nel produrre la vitamina D. Poi ci sono anche problematiche legate a situazioni patologiche: per esempio ci sono malattie gastrointestinali, i cosiddetti malassorbimenti come la celiachia, in cui anche quel poco di vitamina D presente nei cibi non viene correttamente assorbito. E questo aggrava ulteriormente il problema, localizzandolo anche in fasce di popolazione più giovani. Anche l’ipoparatiroidismo è una patologia che tipicamente nell’uomo provoca una carenza di vitamina D. Quando le paratiroidi, piccole ghiandole dietro la tiroide, vengono asportate o lesionate generalmente a seguito dell’asportazione della tiroide, viene meno anche l’ormone che queste ghiandole producono, e che è fondamentale per attivare la vitamina D. Come conseguenza si ha anche una grave carenza di calcio, dal momento che la vitamina D è fondamentale per assorbirlo». E poi «il cortisone riduce la produzione e la conversione della vitamina D da colecalciferolo (inattiva) a calcifediolo e calcitriolo (attiva). Anche gli antiepilettici agiscono a livello epatico e ne riducono la conversione.
Gazzetta Active "Carenza di vitamina D: ecco perché è facile averla. Come diagnosticarla ed evitarla?"
Il Giornale "Come fare il pieno di vitamina D in estate"
Fondazione Veronesi "Sette italiani su dieci sono sotto i livelli minimi di questo prezioso micronutriente con grave rischio di osteoporosi"
La Repubblica "Un mare di bellezza"
Il Giornale "Tintarella salvavita: da 15' di sole vitamina D come 100 uova"
Ansa "Salute: importante ruolo vitamina D in infartuati"
Meteo Web "Infarto, importante ruolo della vitamina D: una carenza può aumentare il rischio"
Fanpage "Cancro, vitamina D e Omega-3 riducono il rischio di morte e infarto"
Quotidiano di Ragusa "Carenza di vitamina D? A rischio infarto"
Meteo Web "La vitamina D può aiutare a prevenire l’insufficienza cardiaca dopo un infarto"
Onco News "Legame tra infarto miocardico e deficit di Vitamina-D"
Tintarella di sole: al via la scorta di vitamina D per l'inverno
Dalla vitamina D al Covid: una lunga storia tra mito e scienza
Cuore e vitamina D: riduce il rischio di infarto e le complicanze future
Vitamina D, gli scienziati: dopo l'isolamento, "bagni di sole" e integrazione
Dal sovrappeso all'obesità: Vitamina D, nemica dei chili di troppo
Calcio, magnesio e vitamina D: i principali nemici dell'osteoporosi
Sport e vitamina D: riduce il rischio di fratture ed aumenta la tonicità muscolare
Meno morti e meno pazienti in terapia intensiva riaccendono la speranza nell'estenuante lotta contro il Covid. E il merito sembrerebbe proprio degli effetti della tanto discussa vitamina D. I dati registrati negli ultimi mesi dimostrano l’efficacia di questo prezioso nutriente nel trattamento delle persone con comorbidità nella riduzione sia dei decessi sia dei trasferimenti in terapia intensiva. Numerose le evidenze scientifiche a sostegno dell’utilizzo di questa importante vitamina nel trattamento e nella prevenzione del Covid. Tra gli altri, lo studio 'Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-GeneratingStudy' che ha evidenziato l'effettivo ruolo della vitamina D sui malati di Covid-19, è stato coordinato dall'Università di Padova con il supporto delle Università di Parma, di Verona e gli Istituti di Ricerca CNR di Reggio Calabria e Pisa e pubblicato sulla rivista Nutrients. L’indagine mostra come la somministrazione abbia potenziali effetti positivi sul decorso della malattia. Già confermata dalle ricerche dei mesi precedenti la correlazione tra l'ipovitaminosi D a una maggiore esposizione al coronavirus e alle sue manifestazioni cliniche più aggressive. Poco, invece, era noto sugli effetti dell'assunzione di colecalciferolo (vitamina D nativa) in pazienti già affetti da coronavirus. Uno studio francese aveva suggerito che la terapia con colecalciferolo, somministrato nei mesi precedenti il contagio, potesse favorire un decorso meno critico nei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto anziani e soggetti con patologie. Tuttavia, il ruolo della vitamina D nel rafforzare le difese immunitarie è assodato da tempo. Difatti «c’è un’importante metanalisi pubblicata sul British Medical Journal nel 2017 che sostiene che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa avevano meno infezioni respiratorie» spiega a Gazzetta Act!ve Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente dell'European Society of Endocrinology.
Studiata anche da un gruppo di ricercatori del Policlinico San Matteo la correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19. L’indagine condotta nel corso della prima ondata della pandemia su 129 pazienti ricoverati, di cui 34 hanno perso la vita durante la degenza ospedaliera, ha cercato di individuare la prevalenza dell’ipovitaminosi D, ponendola in correlazione con gli esiti clinici e i marker di gravità della malattia. E anche in questo studio, i ricercatori hanno riscontrato livelli molto bassi di vitamina D nelle persone ricoverate in gravi condizioni, anche se tali livelli non sono risultati associabili a variabili di esito, probabilmente anche in considerazione della criticità del quadro clinico di molti pazienti al momento dell’arrivo in ospedale. Insomma, quello presentato da ricercatori italiani, e pubblicato sulla prestigiosa rivista Clinical Nutrition, è un lavoro scrupoloso effettuato su un campione più ampio che porta la firma di Riccardo Caccialanza e del suo team. «I livelli sierici di vitamina D sono stati valutati a 48 ore dal ricovero ospedaliero e il 54,3% ne era gravemente carente» spiega in un'intervista al Giorno Riccardo Caccialanza, direttore dell'Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo, che ha firmato il lavoro. Fondamentale per l’assorbimento del calcio, appare evidente il collegamento tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio, e quindi, di vitamina D e SARS-CoV2. «Ritengo che ci sia un nesso tra vitamina D, calcio, fragilità ossea, vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Queste fratture indicano una fragilità sistemica dell’organismo. Già nella precedente infezione da Sars era emersa una elevata prevalenza di ipocalcemia. Al San Raffaele abbiamo visto come moltissimi malati ricoverati con il Covid abbiano valori di calcio molto bassi. E il calcio basso aumenta la percentuale di rischio di ricovero per Covid» conclude l'esperto.
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni». Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo.
Sono disponibili poche informazioni sugli effetti benefici del trattamento con colecalciferolo in pazienti in comorbidità ospedalizzati per Covid. Lo scopo di questo studio era di esaminare retrospettivamente l'esito clinico dei pazienti che ricevevano colecalciferolo ad alte dosi in ospedale. Sono stati presi in considerazione pazienti con diagnosi positiva di SARS-CoV2 e COVID-19 palese, ricoverati in ospedale dal 15 marzo al 20 aprile 2020. In base alle caratteristiche cliniche, sono stati integrati (o meno) con 400.000 UI di colecalciferolo orale in bolo (200.000 UI somministrati in due giorni consecutivi) ed è stato registrato l'esito composito (trasferimento all'unità di terapia intensiva - ICU e/o morte). Novantuno pazienti (di età compresa tra 74 ± 13 anni) con COVID-19 sono stati inclusi in questo studio retrospettivo. Cinquanta (il 54,9%) pazienti presentavano due o più malattie concomitanti (p <0.0001). Durante il periodo di follow-up (14 ± 10 giorni), 27 pazienti (il 29,7%) sono stati trasferiti in terapia intensiva e 22 (il 24,2%) sono morti (16 prima della terapia intensiva e sei in terapia intensiva). Complessivamente, 43 pazienti (il 47,3%) hanno manifestato l'endpoint combinato di trasferimento in terapia intensiva e/o morte. Le analisi di regressione logistica hanno rivelato che il carico di comorbidità ha modificato in modo significativo l'effetto del trattamento con vitamina D sui risultati dello studio, sia nelle analisi grezze (p=0,033) che in quelle arrotondate, per il punteggio di propensione (p= 0,039), quindi l'effetto positivo del colecalciferolo ad alte dosi sull'endpoint combinato è stato significativamente amplificato con l'aumento del carico di comorbidità. Questo studio che genera ipotesi garantisce la valutazione formale cioè, sperimentazione clinica, del potenziale beneficio che il colecalciferolo può offrire in questi pazienti in comorbidità COVID-19.
«La nostra è stata una ricerca retrospettiva condotta su 91 pazienti affetti da Covid-19, ospedalizzati durante la prima ondata pandemica nell'area Area Covid-19 della Clinica Medica 3 dell’Azienda Ospedale-Università di Padova» spiega il professore Sandro Giannini, del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e autore dello studio. «I pazienti inclusi nella nostra indagine, di età media 74 anni, erano stati trattati con le associazioni terapeutiche allora adoperate in questo contesto e, in 36 soggetti su 91 (il 39,6%), con una dose elevata di vitamina D per 2 giorni consecutivi. I rimanenti 55 soggetti (il 60,4%) non erano stati trattati con vitamina D. La scelta del medico di trattare i pazienti era stata essenzialmente basata su alcune caratteristiche cliniche e di laboratorio: avere bassi livelli nel sangue di vitamina D al momento del ricovero, essere fumatori attivi, dimostrare elevati livelli di D-Dimero ematico (indicatore di maggiore aggressività della malattia) e presentare un grado rilevante di comorbilità». «Lo studio aveva l’obiettivo - evidenzia ancora l'esperto - di valutare se la proporzione di pazienti che andavano incontro al trasferimento in Unità di Terapia Intensiva e/o al decesso potesse essere condizionata dall’assunzione di vitamina D. Durante un periodo di follow-up di 14 giorni circa, 27 (29.7%) pazienti venivano trasferiti in Terapia Intensiva e 22 (il 24,2%) andavano incontro al decesso. Nel complesso, 43 pazienti (47,3%) andavano incontro a 'Decesso o Trasferimento in ICU' L’analisi statistica rivelava che il 'peso' delle comorbidità (rappresentate dalla storia di malattie cardiovascolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, malattia neoplastica non in remissione, diabete mellito, malattie ematologiche e malattie endocrine) modificava in modo ampiamente significativo l’effetto protettivo della vitamina D sull’obiettivo dello studio, in modo tale che maggiore era il numero delle comorbidità presenti, più evidente era il beneficio indotto dalla vitamina D». «In particolare, nei soggetti che avevano assunto il colecalciferolo, il rischio di andare incontro a "Decesso/Trasferimento in ICU" era ridotto di circa l’80% rispetto ai soggetti che non l’avevano assunto. Il nostro lavoro dimostra, quindi, il potenziale effetto benefico della somministrazione della vitamina D in quei pazienti affetti da Covid-19 che, come molto spesso accade, presentano rilevanti comorbidità e indica l’opportunità di condurre studi appropriati a conferma di questa ipotesi» conclude Giannini.
Evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia grazie alle sue principali capacità ovvero quelle di rafforza il sistema immunitario e protegge dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre virus. A questo interessante dilemma fanno eco altre indagini condotte dallo scorso anno, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza:
Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"
Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"
SOS ipovitaminosi. Il 60% dei bambini con carenza di vitamina D
Prima il lockdown poi lo smart working. Dal Covid alla bilancia: tutte le cattive abitudini che hanno fatto ingrassare gli italiani. Tra le conseguenze di questa pandemia proprio il cambio dello stile di vita. Le limitazioni imposte, in ultimo, con il coprifuoco, il lavoro all’interno delle mura domestiche, la sporadica attività fisica e la maggiore tendenza a dedicarsi alla cucina. È quanto emerge da una analisi di Coldiretti su dati Crea, il centro di ricerca alimenti e nutrizione. Computer, divano e tavola hanno, infatti, allontanato dall’attività motoria e dallo sport il 53% degli italiani. La situazione peggiora poi per le persone obese soprattutto per quelle alle prese con il cosiddetto smart working e in cassa integrazione, che nel 54% dei casi ha registrato un aumento medio di peso di ben 4 Kg, secondo i dati riportati da una ricerca della Fondazione Adi dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica. Insomma, soprattutto in questa fascia della popolazione, il lavoro agile ha favorito l’adozione di comportamenti poco salutari. Da non dimenticare poi che questo fenomeno si verifica in un Paese dove peraltro più di un terzo della popolazione italiana adulta è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%) con il 45,1%. Il rischio obesità non risparmia neanche bambini e adolescenti duramente provati dal lockdown. In Italia si stimano – conclude la Coldiretti – circa 2 milioni e 130 mila bambini e adolescenti in eccesso di peso, pari al 25,2% della popolazione di 3-17 anni secondo l’Istat.
Le vere causa dell'obesità
Dal 1980 ad oggi l’obesità nel mondo è più che raddoppiata. Questa la rivelazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Gli adulti in sovrappeso raggiungono il 39% e gli obesi sono il 13%. Secondo le più recenti stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, 2017) il 65,1% della popolazione adulta degli Stati Uniti ha un problema di eccesso di peso e tra questi, quasi la metà è obesa. L’epidemia dell’obesità si è diffusa negli ultimi decenni anche in Europa. A peggiorare un quadro già drammatico gli ultimi mesi della pandemia. Dal lockdown al coprifuoco, passando per mesi di smart working e quasi totale assenza di attività motoria. Un fattore che ha senza dubbio peggiorato la situazione delle persone obese o in sovrappeso, costrette a casa tra lavoro e Dpcm.
L’obesità è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come «l’epidemia del XXI secolo». Inoltre, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come «un’epidemia estesa a tutta la regione europea» poiché circa la metà della popolazione adulta è in sovrappeso ed il 20-30 % degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso. Rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo, sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena) con progressiva aterosclerosi, aumentato rischio di eventi cardio/cerebrovascolari e tumori. Sovrappeso e obesità sono responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive tra gli adulti; sono condizioni associate a morte prematura e ormai universalmente riconosciute come fattori di rischio per le principali malattie croniche. L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi) con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie nei depositi di tessuto adiposo. E’ causata nella maggior parte dei casi da stili di vita scorretti: da una parte, un’alimentazione non equilibrata e ipercalorica e dall’altra un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica. L’obesità è quindi una condizione ampiamente prevenibile. Un’emergenza socio-sanitaria quella dell’obesità che sia l’OMS che l’European Association for the Study of Obesity ha ripetutamente evidenziato. Inoltre, non dimentichiamo che questa malattia, «potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di 10 anni» sostiene Andrea Lenzi, presidente Health City Institute e del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Via della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Obesità e ipertensione arteriosa
Sovrappeso e obesità affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minor reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette e si accompagna dunque alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso. Un problema particolarmente grave è quello dell’insorgenza dell’obesità tra bambini e adolescenti, esposti fin dall’età infantile a difficoltà respiratorie, problemi articolari, mobilità ridotta, ma anche disturbi dell'apparato digerente e di carattere psicologico. Inoltre, chi è obeso in età infantile lo è spesso anche da adulto: aumenta quindi il rischio di sviluppare precocemente fattori di rischio di natura cardiovascolare (ipertensione, malattie coronariche, tendenza all’infarto) e condizioni di alterato metabolismo, come il diabete di tipo 2 o l’ipercolesterolemia - evidenzia Andrea Urbani Ministero della Salute, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria.
Una corretta strategia di prevenzione del sovrappeso e dell’obesità rientra nell’ambito più generale della prevenzione e controllo delle patologie croniche nel loro complesso. E’ importante perseguire un approccio di promozione della salute e di sensibilizzazione dei soggetti con incremento ponderale sui vantaggi collegati all’adozione di stili di vita sani, in una visione che abbracci l’intero corso della vita. Inoltre, il rapporto dell’Italian Diabetes & Obesity Barometer evidenzia tra gli altri, due aspetti su cui porre particolare attenzione. In primo luogo, la persistente ed elevata prevalenza di obesità e sovrappeso tra i bambini la cui salute rischia di essere seriamente compromessa dall’aumento dei fattori di rischio. Su questo aspetto l’Italia si colloca tra i paesi europei con la più elevata prevalenza. La raccomandazione, a livello nazionale, è quella di seguire stili alimentari adeguati, riducendo il consumo di alimenti ricchi di zuccheri e promuovendo un maggiore consumo di frutta e verdura, oltre a sensibilizzare le industrie alimentari verso la produzione di alimenti più sani ed equilibrati. In secondo luogo, il rapporto documenta ampiamente come la prevalenza di obesità sia fortemente associata a condizioni di svantaggio socioeconomico. I dati relativi alle diseguaglianze sociali nell’alimentazione e nell’attività fisica concorrono a indicare che la maggior parte delle abitudini insalubri sono inversamente correlate con il livello di istruzione e la classe sociale.
(Fonte: Il Sole 24Ore)
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il numero di persone obese nel mondo è raddoppiato a partire dal 1980: nel 2014 oltre 1,9 miliardi di adulti erano in sovrappeso, tra cui oltre 600 milioni obesi. Nella Regione Europea dell’Oms, nel 2013, oltre il 50% della popolazione adulta era in sovrappeso e oltre il 20% obesa. Dalle ultime stime fornite dai Paesi Ue emerge che il sovrappeso e l’obesità affliggono, rispettivamente, il 30-70% e il 10-30% degli adulti. Si ritiene che l’obesità sia responsabile del 10-13% dei decessi. Ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile della perdita di 12 milioni di Dalys (anni di vita in salute persi per disabilità o morte prematura). In Italia, secondo il rapporto Osservasalute 2016 (che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana”) emerge che, nel 2015, più di 1/3 della popolazione adulta (35,3%) era in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%); complessivamente, il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni risultava in eccesso ponderale. Le differenze sul territorio confermano un gap Nord-Sud in cui le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone maggiorenni obese (Molise 14,1%, Abruzzo 12,7% e Puglia 12,3%) e in sovrappeso (Basilicata 39,9%, Campania 39,3% e Sicilia 38,7%) rispetto a quelle settentrionali (obese: PA di Bolzano 7,8% e Lombardia 8,7%; sovrappeso: PA di Trento 27,1% e Valle d’Aosta 30,4%). La percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età e, in particolare, il sovrappeso passa dal 14% della fascia di età 18-24 anni al 46% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità passa, dal 2,3% al 15,3% per le stesse fasce di età. Inoltre, la condizione di eccesso ponderale è più diffusa tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44% vs 27,3%; obesità: 10,8% vs 9%).
Nel 2017 in Italia, sono circa 15 milioni le persone di 18 anni e più che praticano nel tempo libero uno o più attività sportive (29,7% della popolazione di riferimento, di cui il 20,2% con continuità e il 9.5% saltuariamente). Circa il 29% della popolazione (14,8 milioni persone), pur non praticando uno sport, svolge un’attività fisica (come fare passeggiate di almeno due km, nuotare, andare in bicicletta o altro). I sedentari, ovvero coloro che non praticano alcuno sport e nemmeno attività fisica nel tempo libero, sono oltre 20 milioni e 400 mila, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più. Rispetto al 2001 la pratica sportiva è in aumento sia per gli uomini (da 32,1% a 36%) sia per le donne (da 18,8% a 23,9%) e, seppure in maniera differenziata, in tutte le classi di età. Il fenomeno appare ancor più critico se si considera la quota di popolazione adulta che, come suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, svolge almeno 150 minuti a settimana di attività fisica moderata o intensiva, ovvero i livelli considerati adeguati nella popolazione adulta per mantenersi in buona salute. Nel nostro Paese solo il 18,3% della popolazione adulta pratica attività fisica. «La sua diffusione “epidemica” favorisce l’incremento della prevalenza di svariate note patologie come diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemie che contribuiscono alla rilevante mortalità per patologie cardio e cerebrovascolari, prima causa di morte nella popolazione italiana» spiega Giuseppe Malfi, presidente Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (A.D.I.). L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico e spesa energetica con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto adiposo. L’obesità è una patologia eterogenea e multifattoriale, al cui sviluppo concorrono sia fattori ambientali che genetici (geni che si sono evoluti in ere di scarsità di cibo). A livello mondiale, l’OMS stima che circa il 58% del diabete mellito, il 21% della malattie coronariche e quote comprese tra l’8% ed il 42% di certi tipi di cancro sono attribuibili all’obesità. A queste vanno aggiunte, la sindrome delle apnee notturne (che aumenta il rischio di morte improvvisa per aritmia), artrosi, calcolosi della colecisti, infertilità e depressione. Per queste ragioni l’obesità contribuisce in modo molto significativo allo sviluppo delle malattie non trasmissibili (NCDs) che causano nel nostro paese il 92% di morti e più dell’85% di anni persi per disabilità. Si tenga presente che un obeso grave riduce la propria aspettativa di vita di circa 10 anni ma ne passa ben venti in condizioni di disabilità. E se oggi metà della popolazione è in sovrappeso o obesa, le proiezioni dell’OMS per il 2030 danno un quasi raddoppio della prevalenza di obesità che sommata al sovrappeso costituirà circa il 70% della popolazione.
Insomma, la continua crescita della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità è causa di serie preoccupazioni in tutte le regioni del mondo, e il fenomeno si configura sempre più come pandemia globale. In base alle stime dell’OMS, nel 2017 il sovrappeso e l’obesità sono stati responsabili di 4,72 milioni di decessi e di 148 milioni di anni vissuti con disabilità. Fra le cause di morte, l’eccesso ponderale è passato dal 16° posto nel 1990 al 7° posto nel 2007, fino a raggiungere il 4° posto nel 2017, preceduto soltanto da ipertensione, fumo e iperglicemia. Si stima che nel mondo ci siano oggi 2.1 miliardi di persone in sovrappeso o obese, circa il 30% della popolazione mondiale. Se l’andamento in crescita del fenomeno resterà immodificato, nel 2030 circa la metà delle persone nel mondo avrà un eccesso ponderale, con drammatici risvolti clinici, sociali ed economici. Stando ai dati riportati in un rapporto Istat, è pari al 44,9% la popolazione di 18 anni (o più) in eccesso di peso (34,1% in sovrappeso, 10,8% obeso). Il 64,7% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno: il 51,7% beve vino, il 47,8% consuma birra e il 43,2% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori. Inoltre, 20.400.000mila persone, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più, dichiarano di non praticare sport né attività fisica nel tempo libero. Elevate le differenze di genere: è sedentaria la metà delle donne contro un terzo degli uomini. Giusto per completare il quadro, in un Paese con una legge anti-fumo e con pubblicità sui pacchetti di sigarette che dovrebbero indurre a smettere o a non cominciare, nel 2016 il 19,8% della popolazione di 14 anni e più dichiara di essere fumatore (circa 10.400.000mila persone), il 22,6% di aver fumato in passato e il 56,1% di non aver mai fumato. Quindi ancora vincono gli stimoli per cattivi stili di vita. La diffusione dell’obesità tra bambini e ragazzi è un fenomeno che si sta diffondendo e sta caratterizzando non soltanto l’Italia e i Paesi europei, ma anche tutti i Paesi del resto del mondo, ad una velocità diversa a seconda del Paese e seguendo differenti modelli di sviluppo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, attualmente, più di 30 milioni di bambini in eccesso di peso. In Italia, si stima siano circa 1.700.000mila i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso pari al 24,2% della popolazione di 6-17 anni (media 2016-2017)4. Rispetto al biennio 2010-2011 si osserva una lieve tendenza alla diminuzione del fenomeno, sebbene le differenze non risultino statisticamente significative. Emergono forti differenze di genere: il fenomeno è più diffuso tra i maschi (27,3% vs 20,8% femmine). Tali differenze non sussistono tra i bambini di 6-10 anni, mentre si osservano in tutte le altre classi di età. L’eccesso di peso raggiunge la prevalenza più elevata tra i bambini di 6-10 anni, dove raggiunge il 32,9%. Al crescere dell’età, il sovrappeso e l’obesità vanno tuttavia diminuendo, fino a raggiungere il valore minimo tra i ragazzi di 14-17 anni.
Obesity Monitor "1st Italian Obesity Barometer Report"
La Repubblica "Obesità in crescita in Italia. 23 milioni in sovrappeso: uno su 4 ha meno di 17 anni"
AGI "Lockdown e smart working hanno fatto ingrassare gli italiani: il 44% è in sovrappeso"
Corriere della Sera "Adolescenti obesi (e dipendenti)"
La Repubblica "Obesità in Italia: riguarda il 36% della popolazione tra i 5 e i 19 anni"
Obesity Review "Individuals with obesity and COVID‐19: A global perspective on the epidemiology and biological relationships"
La Repubblica "L’obesità raddoppia il rischio di ricovero per Covid 19"
JAMA Network "Large Meta-analysis Digs Into Obesity’s COVID-19 Risks"
Fanpage "L’obesità può aggravare l’infezione da coronavirus nei giovani"
La Stampa "Scatta l’allarme obesità: è la regina di ogni malattia eppure la sottovalutiamo"
Agi " Gli obesi sono più a rischio Coronavirus "
OK Benessere e Salute " Obesità: in Italia un morto ogni 10 minuti. Serve una svolta "
OK Benessere e Salute " Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono" "Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono "
Società Italiana Obesità (SIO)
Società Italiana di chirurgia dell'Obesità e delle Malattia Metaboliche (SICOB.)
Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)
LEGGI ANCHE: Obesità e altri disordini metabolici: in Italia, un morto ogni 10 minuti
Nella lotta al coronavirus un altro potente alleato del nostro organismo. Dopo la lattoferrina e la vitamina D, un’altra sostanza è oggetto di studio per il potenziale ruolo contro il coronavirus, ora è il turno della melatonina che, secondo uno studio statunitense, potrebbe aiutare ad abbassare il rischio di contrarre l’infezione. Dopo le numerose indagini e delle evidenze scientifiche circa il rapporto tra vitamina D e SARS-CoV2 ora, la scoperta dei ricercatori della Cleveland Clinic (Ohio) che identificando nell’ormone che regola il ciclo sonno-veglia, solitamente utilizzato come integratore alimentare per risolvere i problemi di insonnia una possibile opzione di trattamento per il Covid. Secondo gli studiosi, l’uso regolare di questo ormone che regola il ciclo sonno-veglia, comunemente utilizzato come integratore contro l’insonnia, è associato a una «probabilità ridotta di quasi il 30% di positività al test diagnostico per Sars-Cov-2», una percentuale può arrivare a coprire più della metà dei casi (52%) nella popolazione afroamericana. Nella ricerca pubblicata sulla rivista Plos Biology, i ricercatori hanno utilizzato i dati delle cartelle cliniche di quasi 27mila pazienti con Covid-19 per identificare le manifestazioni cliniche e le patologie comuni tra l’infezione da coronavirus e altre malattie, integrando queste informazioni con tecnologie di analisi utili alla descrizione e l’interpretazione del sistema biologico sottostante. In particolare gli studiosi hanno valutato l’associazione con altre 64 malattie (cancro, malattie autoimmuni, cardiovascolari, metaboliche, neurologiche e polmonari) individuando il nesso tra le diverse patologie. L’analisi ha evidenziato che, ad esempio, alcune proteine associate alle difficoltà respiratorie e alla sepsi (due delle principali cause di morte nei pazienti con forme gravi di Covid-19) erano altamente correlate con più proteine di Sars-Cov-2.
Nell’insieme, gli studiosi hanno determinato che le malattie autoimmuni (come ad esempio la malattia infiammatoria intestinale), polmonari (come la broncopneumopatia cronica ostruttiva e fibrosi polmonare) e neurologiche (depressione e disturbo da deficit di attenzione e iperattività) mostravano una significativa associazione con geni e proteine coinvolte nell’infezione da SARS-CoV-2. L’indagine ha analizzato circa 3.000 sostanze, individuandone 34 interessanti per la loro potenziale azione antivirale e fra queste, prima tra tutte, la melatonina. «Questo ci ha indicato – precisa Feixiong Cheng del Genomic Medicine Institute della Cleveland Clinic e autore dello studio – che farmaci già approvati per il trattamento di queste condizioni respiratorie potrebbero avere qualche utilità nel trattare anche l’infezione da coronavirus agendo su quei bersagli biologici condivisi». Anche gli scienziati del Life Science avevano già indagando il potenziale effetto terapeutico nei pazienti affetti da Covid-19. La review pubblicata su Life Science dal titolo “Lungs as target of COVID-19 infection: Protective common molecular mechanisms of vitamin D and melatonin as a new potential synergistic treatment” ha indagato il potenziale terapeutico dell’azione sinergica della vitamina D e della melatonina nei pazienti affetti da coronavirus. Secondo la ricerca, sia la vitamina D che la melatonina, grazie alle notevoli proprietà che le contraddistinguono tra cui quelle antinfiammatorie, antifibrotiche e antiossidanti, svolgono un’azione regolatrice nei confronti del sistema renina-angiotensina-aldosterone, influendo positivamente sulla “tempesta delle citochine”, causa di infiammazioni e fibrosi dei tessuti a livello polmonare, e più in generale sul sistema immunitario. Quindi non solo l’ipovitaminosi tra le cause di maggior rischio. La review pone l’attenzione su come la carenza di queste sostanze potrebbe influire sugli stati di infiammazione acuta causati da Covid-19, provocando sintomi più gravi rispetto a quelli registrati nei pazienti con livelli ematici di vitamina D e melatonina più alti.
Tutti i consigli per RIPOSARE meglio ed essere più energici
Dalla capacità di modulare e influenzare meccanismi fisiologici dell’organismo al mantenimento di ossa e denti in salute, dal buon funzionamento dei muscoli al rinforzo del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è ormai da anni oggetto di ricerca. Non meno interessante è la correlazione fra la carenza di vitamina D con i disturbi del sonno, condizione che ha registrato una vera e propria impennata nella popolazione italiana soprattutto nel periodo del lockdown marzo-maggio 2020, nel pieno della prima ondata. Altra grande protagonista nella regolazione del ritmo circadiano del sonno è la melatonina. Questo ormone viene prodotto naturalmente dalla ghiandola pineale e a livello mitocondriale, a cui sono state attribuite, secondo quanto dimostrano le ricerche di diversi studi clinici e review, anche proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e immunomodulanti. E proprio a questa esigenza rispondono i nutraceutici e gli integratori alimentari a base di vitamina D e melatonina efficaci per aiutarci a ritrovare benessere e serenità.
Tuttavia, anche se il legame fra melatonina e coronavirus è ancora da esplorare, e se i ricercatori hanno individuato alcuni processi fisiologici che potrebbero entrare in gioco, la sostanza potrebbe giovare ai pazienti anziani, ovvero a quelli a rischio di forme di infezione più gravi. Inoltre, la melatonina, sopprime alcuni processi infiammatori, anche a livello polmonare, ad esempio aumentando le citochine anti-infiammatorie. Senza trascurare poi, come risaputo, che un buon riposto (almeno 8 ore a notte) aiuta ad abbassare i livelli dello stress. Inoltre, nell’indagine che ha indagato il rapporto tra melatonina e coronavirus è emerso che l’uso di melatonina era associato a una probabilità ridotta di quasi il 30% di risultare positivo al Covid-19 dopo l’adeguamento per età, razza e varie comorbidità della malattia. In sostanza, l'uso adiuvante della melatonina ha un potenziale per migliorare i sintomi clinici dei pazienti COVID-19 e contribuire a un più rapido ritorno dei pazienti alla salute di base. Considerate le alte prestazioni della melatonina, la sua prescrizione nella profilassi del COVID-19 è fortemente raccomandata.
Authorea "Efficacy of a Low Dose of Melatonin as an Adjunctive Therapy in Hospitalized Patients with COVID-19: A Randomized, Double-blind Clinical Trial"
Fanpage "La melatonina potrebbe prevenire e curare l’infezione da coronavirus"
Leggo "Vitamina D e Melatonina: Life Science indaga il potenziale terapeutico nei pazienti affetti da Covid-19"
Wired "Cosa sappiamo sulla melatonina contro il coronavirus"
Focustech "Covid-19, scoperto un legame tra la melatonina e il virus"
Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"
La Repubblica "Coronavirus: irritabilità, insonnia e paura per il 70% dei ragazzi"
Io Donna "Post lockdown: 6 bambini su 10 mostrano ansia, irritabilità e disturbi del sonno"
LEGGI ANCHE: Covid, studio a Pavia: carenza di vitamina D associata all’infezione
Dormire poco danneggia cuore e cervello: ecco tutti i possibili rischi dell'insonnia
Sonno e apnee notturne: oltre al fastidio, aumenta il rischio di infarto e ictus
Dall’aumento degli ormoni dello stress al risveglio delle cellule tumorali “dormienti”. Questi i risultati su Science Translational Medicine. L’équipe di ricercatori dell’Università della Pennsylvania (Usa), guidato dall’italiana Michela Perego, hanno individuato, nei topi, un meccanismo biologico legato allo stress e all’infiammazione che può portare alla riattivazione delle cellule “dormienti” del cancro, favorendo di conseguenza le recidive. Gli studiosi sono partiti da uno dei grandi quesiti ad oggi ancora insoluti della ricerca sul cancro, ovvero la ricomparsa dei tumori. «Oggi sappiamo che il tumore può tornare perché alcune cellule si diffondono e rimangono quiescenti - spiega Perego - ma poco si sa su come, quando e perché si risveglino, e tornino a crescere». La domanda, quindi, è: cosa causa la loro riattivazione? Gli scienziati hanno condotto dei test in vitro e studiato alcuni topi con cellule dormienti di tumore del polmone, sottoposti a situazioni di stress. Hanno osservato che gli ormoni prodotti in risposta allo stress, come il cortisolo e la noradrenalina, agiscono su un particolare tipo di globuli bianchi, chiamati neutrofili, inducendoli a rilasciare delle proteine, S100 A8/A9. A loro volta queste proteine, negli animali studiati, hanno portato le cellule tumorali dormienti a riattivarsi e a diffondersi.
Per avere un’ulteriore conferma, i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento somministrando a un gruppo di topi un beta-bloccante in grado di inibire gli effetti degli ormoni dello stress sui neutrofili, impedendo così la produzione delle proteine S100 A8/A9. Risultato: gli animali trattati con il farmaco hanno avuto un tasso di sopravvivenza migliore degli altri. Così hanno analizzato campioni di sangue di un piccolo gruppo di 80 pazienti (26 uomini e 54 donne tra 50 e 84 anni) con un tumore del polmone in fase iniziale (stadio I o II), in cura presso il New York University Medical Center. I campioni erano stati prelevati a tre mesi dall’intervento chirurgico, per evitare gli effetti diretti dello stress associato all'operazione e alla riabilitazione. Ebbene, i pazienti con livelli più alti delle proteine S100 A8/A9 hanno avuto maggiore probabilità di ammalarsi nuovamente nei 33 mesi successivi. «Pensiamo, però, che monitorare i livelli degli ormoni dello stress possa essere molto importante», sottolinea l’esperta. Le proteine individuate potrebbero quindi essere utilizzate come biomarcatori. Anche altre indagini hanno suggerito che i beta-bloccanti potrebbero aumentare la sopravvivenza di pazienti con tumore del polmone e ridurre il rischio di recidiva in pazienti con tumore al seno.
Insomma, una notizia positiva nella lotta al cancro. Anche gli scienziati del Cold Spring Harbor Laboratory avevano capito in che modo i tumori 'addormentati', ovvero in remissione, possono risvegliarsi. Una scoperta quella descritta su Science, progettata proprio per prevenire recidive e metastasi del cancro. Anche dopo il successo delle terapie anti-cancro, le cellule tumorali dormienti, che in precedenza si erano staccate dal tumore originale, possono ancora essere presenti nell'organismo. Quindi, se risvegliate, queste cellule possono proliferare e crescere, provocando tumori metastatici. Il team di scienziati, guidato da Mikala Egeblad, che studia le metastasi ai polmoni, ha identificato i segnali che accompagnano l'infiammazione in grado di risvegliare le cellule tumorali dormienti.
Come abbiamo visto le cause di insorgenza di un tumore possono essere legate a fattori ambientali e genetici. Quello che è certo è che molti dei fattori che compongono il nostro sangue ed il nostro organismo, possono essere modificati dal cibo e dal nostro stile di vita, dunque è ragionevole pensare che possiamo intervenire attivamente in prima persona per ridurre il rischio di ammalarci. Alcuni dei fattori interni che possono danneggiare il DNA e creare cellule tumorali, sono sicuramente i radicali liberi. Questi ultimi sono molecole molto nocive, prodotte normalmente dalle reazioni che avvengono nell’organismo umano: possono essere considerate come veri e propri rifiuti in grado di danneggiare le nostre cellule. Ciò si verifica perché i radicali liberi, essendo molto reattivi e instabili, nel tentativo di ritrovare il loro equilibrio, aggrediscono (ossidano) altre molecole presenti nel nostro organismo dando origine a sua volta a nuove molecole instabili, innescando così una reazione a catena che porta a danneggiare le strutture cellulari e ad accelerare l’invecchiamento. Se i radicali liberi non vengono prontamente neutralizzati possono creare o aggravare molti processi patologici, come quelli relativi all’apparato circolatorio, alle malattie degenerative (come il morbo di Parkinson e l’Alzheimer) e persino quelli relativi all’insorgenza di alcuni tumori. L’azione dei radicali liberi si si verifica normalmente ogni giorno nel corpo umano, ma possono essere prodotti anche da agenti esterni come stress, inquinamento, fumo, raggi ultravioletti, etc… si legge in un articolo pubblicato su Fondazione Cesare Serono.
Le reazioni di stress: le tre fasi della Sindrome Generale d'Adattamento
Inoltre, il ruolo dello stress ossidativo (attribuito all’azione dei radicali liberi), e quindi, non solo nell’invecchiamento in sé, ma anche come fattore scatenante e corresponsabile di altre patologie. Tra i radicali liberi, i più pericolosi sono quelli chiamati ROS, o “specie reattive dell’ossigeno”, che si formano nell’organismo e che, se non vengono adeguatamente contrastati, scatenano reazioni che possono dare origine a danni cellulari, compromettere l’efficacia del sistema immunitario e perfino arrivare a ledere il DNA, accelerando l’invecchiamento dell’organismo e aumentando il rischio sia di una maggiore sensibilità alle malattie infettive, che sono ancora più pericolose in età avanzata perché predispongono a maggiori complicanze in caso di contagio, come ha dimostrato la pandemia di Covid-19, sia di sviluppare patologie gravi come tumori e malattie neurodegenerative, legate a loro volta al processo di invecchiamento. Sebbene l’elisir di lunga vita, inteso come "pozione" dell’immortalità, sia ancora un miraggio, grazie alle scoperte degli ultimi decenni, la scienza punta sempre più a contrastare gli effetti dell’invecchiamento soprattutto limitando l’azione dei ROS, non solo per combattere i segni che il tempo imprime sui volti di uomini e donne, come le rughe, ma anche per consentire di arrivare in salute a quella che in Giappone (primo Paese al mondo per longevità della popolazione) viene definita “seconda giovinezza” e che parte dal sessantesimo compleanno. Difatti, tra i segreti della lunga vita degli orientali, un ruolo di primo piano viene svolto senza dubbi dall’alimentazione grazie al consumo quotidiano di cibi fermentati: la ricerca medica ha infatti scoperto che il processo di fermentazione di alcuni alimenti ne modifica la composizione, aumentando il contenuto vitaminico e modificando il profilo enzimatico, con la formazione di molecole che nell’alimento fresco non si riscontrano. Queste molecole possono essere sfruttate come potenti antiossidanti per contrastare l’azione dei radicali liberi e perfino, in alcuni casi, per “riparare” i danni provocati dallo stress ossidativo.
La Repubblica "Cellule tumorali “dormienti”, uno studio indaga il ruolo dello stress"
Science Traslational Medicine "Reactivation of dormant tumor cells by modified lipids derived from stress-activated neutrophils"
Adnkronos "Tumori, ecco come il cancro 'addormentato' si risveglia"
SkyTg24 "Cortisolo, cos'è l'ormone dello stress e come abbassarlo"
Fondazione Cesare Serono "I radicali liberi"
LEGGI ANCHE: Dal disagio allo stress psicologico: raddoppiato il numero di uomini ansiosi
Coronavirus: stress, ansia e depressione. I 7 consigli anti-panico
Lo stress e l'ormone cortisolo: i dieci segni da non sottovalutare
A confermare le recenti teorie sul rapporto tra coronavirus e la “vitamina del sole” questa volta è una ricerca tutta italiana. Studiata da un gruppo di ricercatori del Policlinico San Matteo la correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19. L’indagine condotta nel corso della prima ondata della pandemia su 129 pazienti ricoverati, di cui 34 hanno perso la vita durante la degenza ospedaliera, ha cercato di individuare la prevalenza dell’ipovitaminosi D, ponendola in correlazione con gli esiti clinici e i marker di gravità della malattia. E anche in questo studio, i ricercatori hanno riscontrato livelli molto bassi di vitamina D nelle persone ricoverate in gravi condizioni, anche se tali livelli non sono risultati associabili a variabili di esito, probabilmente anche in considerazione della criticità del quadro clinico di molti pazienti al momento dell’arrivo in ospedale. La ricerca, approvata dal Comitato etico, ha fotografato, al momento del ricovero, Un fattore, tra gli altri, non trascurabile ovvero la prevalenza della carenza vitaminica che, al di là dell’infezione da SARS-CoV-2 è fondamentale per il benessere del nostro organismo, e quindi, per la nostra salute. Inoltre, è stata anche riscontrata l’associazione tra lo stato della vitamina e gli esiti clinici come polmonite grave, ricovero in reparti di terapia intensiva, seguita poi dalle relative complicazione che hanno portato, in alcuni casi, persino alla morte, oltre a marcatori biochimici di gravità della malattia (come, ad esempio, conta dei linfociti, proteina C-reattiva).
L'importanza della vitamina D - intervista di Adriano Panzironi
Insomma, quello presentato da ricercatori italiani, e pubblicato sulla prestigiosa rivista "Clinical Nutrition", è un lavoro scrupoloso effettuato su un campione più ampio che porta la firma di Riccardo Caccialanza e del suo team. «I livelli sierici di vitamina D sono stati valutati a 48 ore dal ricovero ospedaliero e il 54,3% ne era gravemente carente» spiega in un'intervista al Giorno Riccardo Caccialanza, direttore dell'Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo, che ha firmato il lavoro. «Tuttavia – precisa nell’intervista -, se l’adeguatezza della vitamina D possa prevenire l’infezione da Covid 19 o influenzare gli esiti clinici deve essere ancora valutato rispettivamente da studi di popolazione e studi di intervento dimensionati e progettati, che potrebbero essere molto rilevanti considerato l’andamento della pandemia a livello globale». Tuttavia, il ruolo della vitamina D nel rafforzare le difese immunitarie è assodato da tempo. Difatti «c’è un’importante metanalisi pubblicata sul British Medical Journal nel 2017 che sostiene che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa avevano meno infezioni respiratorie» spiega a Gazzetta Act!ve Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente dell'European Society of Endocrinology.
L’esperto, già lo scorso marzo, in una lettera al British Medical Journal aveva evidenziato come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria, favorendo anche il rischio di malattie autoimmuni. In quel periodo, era soprattutto il Nord Italia ad essere alle prese con la maggior parte di persone con il Covid e a far schizzare il bilancio dei contagi, catapultando il nostro Paese in cima alla classifica mondiale. Ma perché, nella prima come nella seconda ondata, sono le regioni settentrionali quelle con la peggiore letalità? Tra le varie ipotesi, ad oggi, l’unica confermata: soprattutto al Nord e nei mesi invernali, viene meno l’esposizione al sole, ovvero il mezzo primario per sintetizzare questa preziosa vitamina.
Il 20 marzo abbiamo pubblicato la lettera sul British Medical Journal – si legge nell’intervista a Gazzetta Act!ve - era allora il momento in cui l’Italia sembrava il Paese più colpito, cosa che si è rivelata vera anche nel prosieguo. Si era cercato di capire perché da noi la situazione fosse così drammatica soprattutto dal punto di vista della mortalità. In realtà ancora oggi non abbiamo una spiegazione del tutto convincente. Ma da studi epidemiologici emerge che nella popolazione italiana si hanno bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno, per esempio, i Paesi scandinavi, tanto che questa situazione è nota come paradosso scandinavo: quei Paesi che non conoscono una grande esposizione alla luce solare, fonte principale di vitamina D, la addizionano ai cibi. E così i loro livelli sono in media il doppio di quelli degli abitanti di Paesi del Sud Europa come Spagna, Grecia e, appunto, Italia.
Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D
Inoltre, è scientificamente dimostrato che gli italiani hanno livelli di vitamina D più bassi di quelli degli scandinavi: «Loro hanno sopperito alla mancanza del sole con integrazioni, noi no» evidenzia presidente della Società Europea di Endocrinologia. La spiegazione è nel cambiamento delle abitudini degli italiani. Al contrario di quanto accadeva circa mezzo secolo fa, la persone trascorrono un tempo irrisorio all’aria aperta. Poi, l’arrivo del lockdown a dare il colpo di grazia a questo stile di vita che prevedeva sporadiche esposizioni ai raggi UV. In pratica, la carenza di questo nutriente sembrerebbe proprio un fattore predisponente per ammalarsi di Covid. Numerose evidenze scientifiche suggeriscono che i pazienti con Covid-19 hanno livelli di vitamina D più bassi rispetto alla popolazione generale. L’esperto, in un recente studio dell’Ospedale San Raffaele, ha evidenziato che nei pazienti ospedalizzati per Covid-19 con fratture vertebrali sembrerebbero aumentare il rischio di complicanze. Fondamentale per l’assorbimento del calcio, appare evidente il collegamento tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio, e quindi, di vitamina D e Covid-19. «Ritengo che ci sia un nesso tra vitamina D, calcio, fragilità ossea, vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Queste fratture indicano una fragilità sistemica dell’organismo. Già nella precedente infezione da Sars era emersa una elevata prevalenza di ipocalcemia. Al San Raffaele abbiamo visto come moltissimi malati ricoverati con il Covid abbiano valori di calcio molto bassi. E il calcio basso aumenta la percentuale di rischio di ricovero per Covid» conclude Giustina. E poi consiglia a tutta di esporsi al sole, almeno mezzora al giorno e di fornire al nostro organismo, con l’alimentazione e l’integrazione, la quantità necessaria di vitamina D per stare bene.
Il Giorno "Nesso tra Covid e vitamina D": eccezionale scoperta a Pavia"
Gazzetta Act!ve "Covid-19, carenze di vitamina D associate all’infezione: “Forse per questo l’Italia è così colpita”
Napoli Today "Vitamina D e prevenzione del Covid-19, qual è la connessione: risponde l’esperto"
Corriere di Arezzo "Arezzo, il medico Pier Luigi Rossi guarito dal Covid: "Come l'ho preso e come mi sono difeso con vitamina D e dieta mirata"
Quercetina, esperidina, eugenolo e butirrati. Non sono gli ingredienti di una pozione magica, ma potenti alleati in questa grande battaglia contro il coronavirus. Contro il Covid, l'azione delle molecole bioattive. «Quercetina, ma anche esperidina, eugenolo e butirrati: sono solo alcune delle molecole bioattive che sfruttano un meccanismo d'azione identificato grazie al nostro studio per contrastare il coronavirus Sars-Cov-2» spiega in un’intervista all'Adnkronos Salute Laura Teodori, del Laboratorio Diagnostiche e Metrologia Enea, autore di uno studio realizzato in collaborazione con le Università di Urbino e Singapore, che ha portato all’individuazione, in alcuni composti, proprietà che contrastano i meccanismi cellulari e molecolari dell'infezione da virus Sars-CoV-2 e la relativa progressione del Covid. «La nostra ricerca è stata realizzata grazie ai Big Data – precisa l’esperta -, ovvero a una serie di piattaforme che raccolgono una grande mole di informazioni». L’indagine è stata pubblicata sulla piattaforma Research Square e a breve apparirà anche sulla rivista internazionale peer-reviewed Frontiers in Pharmacology.
«Abbiamo indagato sul meccanismo molecolare usato dal virus per entrare nelle cellule evidenzia Teodori -, in particolare sulla via metabolica. Così abbiamo identificato la proteina Hdac (istone deacetilasi), una tra le più importanti molecole che regola l’espressione dei nostri geni, come utile bersaglio terapeutico per contrastare il virus. I risultati, validati dal confronto con i dati clinici di uno studio cinese su 1096 pazienti di Covid-19, aprono la strada a nuovi studi nel settore del drugrepurposing e drug-discovery». «Successivamente – precisa la ricercatrice - anche altri gruppi di ricerca hanno evidenziato l’Hdac come utile bersaglio per contrastare il virus Sars-CoV-2. Si tratta di un risultato di notevole impatto clinico, in quanto esiste già un discreto numero di farmaci e anche composti bioattivi di origine naturale come la quercitina, un flavonoide presente in alcuni alimenti, con comprovata attività Hdac inibitrice, attualmente utilizzati per altre patologie che potrebbero essere reclutati per contrastare la malattia Covid-19». La conferma arriva anche da altri studi recenti, secondo i quali gli alimenti che contengono quercetina sarebbero in grado di contrastare il Covid-19. Questa sostanza - si legge in un articolo pubblicato sulla rivista International journal of biological macromolecules - sarebbe in grado di destabilizzare la proteina (3CLpro) del virus che incide sul suo sviluppo.
Direttamente dalla famiglia dei flavonoidi, la quercetina è presente in tantissimi alimenti tra cui frutta, verdure. Assunta regolarmente gioca un ruolo importante per la salute perché aiuta a contrastare i danni prodotti dai radicali liberi, ma anche l’insorgenza di una molteplicità di malattie croniche. Rinomata anche per le notevoli proprietà antiossidanti, questa preziosa sostanza è indispensabile per ridurre infiammazioni, allergie e per regolarizzare la pressione sanguigna. Un pigmento che apporta molteplici benefici per la nostra salute e che può essere assunto tramite un regime alimentare vario ed equilibrato, ma anche ricorrendo a degli integratori mirati. Inoltre, la quercetina, aiuta nella prevenzione dell’invecchiamento cutaneo e contrasta gli effetti negativi delle radiazioni solari. Ma non è tutto, oltre a essere un miracoloso toccasana per il nostro benessere, contribuisce a rallentare l’insorgenza di varie patologie come malattie cardiovascolari, aterosclerosi, psoriasi, artrite, lupus, disturbi cerebrali cronici, allergie e problemi cutanei oltre a regolare la pressione arteriosa. Utile anche in caso di emorroidi, fragilità capillare, pesantezza e gonfiore alle gambe. E poi un giusto apporto di questo flavonoide permette di rinforzare la risposta immunitaria, combattere infiammazioni, allergie e, infine, migliorare le prestazioni fisiche e mentali.
BURRO, PANNA e GRASSI SATURI: amici della salute e del cuore
Fra questi appunto i butirrati, sostanze che derivano dalla fermentazione nell'intestino delle fibre alimentari. L'acido butirrico è già studiato per contrastare le malattie degenerative» sottolinea l’esperta. Tra gli acidi a catena corta quello su cui più si è concentrata la ricerca è senza dubbio l’acido butirrico, a cui sono stati attribuiti diversi ruoli fisiologici. Questi studi hanno dimostrato che l’acido butirrico regola il trasporto di fluidi, protegge i colonociti dallo stress ossidativo, influenza la motilità lungo il tratto gastrointestinale, modula la proliferazione cellulare e il differenziamento cellulare, regola inoltre, l’espressione genica. La produzione di acido butirrico svolge un ruolo importante. Considerati i notevoli stimoli a cui è continuamente esposto il colon, infatti, dalla maggiore produzione di butirrato, potrebbe scaturire una resistenza più incisiva contro stimoli tossici migliorando così la funzione della barriera intestinale. Ma c’è dell’altro! Indagini recenti hanno evidenziato che gli acidi a corta catena dopo essere stati assorbiti a livello intestinale, influenzano anche fegato e tessuti extraeptici. «L’acido butirrico – precisa Christian Orlando, biologo e nutrizionista - sembra avere ottime proprietà anti-infiammatorie grazie alla capacità di sopprimere l’attività di alcune proteine che scatenano l’infiammazione, in particolare aiuta a controllare la risposta immunitaria regolando l’attività dei linfociti T. Le cellule T, attraverso un complesso meccanismo che si avvale di marcatori chiamati MHC, sono in grado di riconoscere e distruggere le cellule patogene risparmiando quelle sane; se però non funzionano correttamente il sistema immunitario può arrivare ad attaccare organi come il pancreas (diabete di tipo 1) o la tiroide.
Ricavata, in larga parte, dagli agrumi, l’esperidina è una molecola naturale preziosa per migliorare circolazione e resistenza dei capillari. Appartiene alla famiglia dei glucosidi e, sintetizzata da particolari specie di piante, si ottiene dall’unione di due composti: flavonoide e rutinosio. Come già detto, si trova principalmente negli agrumi, soprattutto nell’albedo, la parte bianca della scorza. Presente anche in alcune verdure ed erbe a foglie verdi come la menta. Le tante proprietà benefiche sono legate soprattutto al rinforzo dei vasi sanguigni, al miglioramento della circolazione, inoltre riduce dell’infiammazione, riduce il colesterolo cattivo (LDL), abbassa la glicemia, efficace contro le allergie, contrasta il diabete e migliora l’attività cardiaca esercitando una funzione cardioprotettiva. Interviene poi anche nel contrasto di altre problematiche quali problemi circolatori, vene varicose, emorroidi e capillari. Ma anche «l'esperidina, presente nella parte bianca degli agrumi, o l'eugenolo presente nei chiodi di garofano. Le ricerche sulle potenzialità di queste sostanze - assicura Teodori - vanno avanti in tutto il mondo. Ma voglio sottolineare l'importanza di non assumerle sotto forma di integratori alimentari: gli integratori infatti non vanno mai presi senza una indicazione del medico. Piuttosto, si può prediligere un'alimentazione a base di cibi naturalmente ricchi di questi principi attivi, che può essere utile all'organismo» conclude Teodori.
Estratto da alcuni oli essenziali, in particolare da cannella e chiodi di garofano, l’eugenolo dalle note proprietà antisettiche e anestetiche, viene usato anche come rimedio naturale contro il mal di denti. Un olio essenziale antivirale ad ampio spettro che agisce diminuendo la capacità di replicazione dei virus all’interno delle cellule.
Adnkronos "Covid, quercetina, esperidina e butirrati molecole naturali promettenti"
MSN "Quercetina: cos'è, proprietà e efficacia"
Adnkronos "Covid, un composto naturale può ucciderlo: scoperta del Cnr"
Fondazione Umberto Veronesi "Microbiota intestinale: in che modo può influenzare la salute?"
La Stampa "Burro chiarificato e i molti benefici per la salute!"
INRAN "Burro Chiarificato: cos’è e a cosa serve?"
Vivo in Salute "Il burro: I Benefici Del Burro per la salute. Sfatiamo i miti falsi…"
Eurosalus "Burro chiarificato: cos'è e come si usa?"
LEGGI ANCHE: Acido butirrico, dall’ecosistema intestinale alla flora batterica
Burro chiarificato, fa bene alla salute: le notevoli proprietà nutritive e terapeutiche
Ricercatori: ecco 10 buoni motivi per mangiare il burro
Sono 230 mila le persone affette dal morbo di Parkinson in Italia. Tra questi, sono soprattutto le persone con età media superiore ai 60 anni. Come sappiamo, il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa, che determina la morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina (un neurotrasmettitore responsabile di numerose funzioni cerebrali). Lunga e silenziosa. Oltre alle conseguenze neurologiche, una forte escalation dell'incidenza del morbo di Parkinson. Secondo alcuni ricercatori spagnoli, l’infezione da coronavirus potrebbe innescare il morbo di Parkinson, proprio come già accaduto in Spagna. Lancia l’allarme il Journal of Parkinson’s Disease dove emerge la paura di alcuni ricercatori dell’autorevole istituto australiano di neuroscienza e salute mentale, Florey Institute of Neuroscience and Mental Health, che temono che i sintomi neurologici indotti dall’infezione di Sars-Cov-2 possano essere solo le prime fasi di un processo infiammatorio del cervello dalle conseguenze ben più gravi. Lo studio, condotto da Kevin Barnham teme una storia già vista circa un secolo fa, quando, dopo la pandemia di influenza Spagnola, l’incidenza di malattia di Parkinson aumentò fino a tre volte. Dalle encefaliti alla perdita di olfatto e gusto. I dati finora raccolti sui sintomi neurologici correlati all’infezione di Sars-Cov-2, sostengono gli autori dell’articolo, suggeriscono che le premesse ci sono tutte e che il rischio sia reale.
Insomma, secondo lo studio, l'infiammazione neurale subita da molte persone positive al Covid-19 potrebbe essere un fattore chiave di rischio di contrarre il Parkinson's. I ricercatori evidenziano come la malattia degenerativa rischia con probabilità di rappresentare la «terza ondata della pandemia di Covid-19 e stimano che in tre persone su quattro con il Covid-19 si riscontrano sintomi neurologici. Sostengono inoltre gli esperti, che i sintomi stessi, che vanno da encefalite a perdita dell'olfatto, sono probabilmente riportati per difetto. Questo potrebbe includere test di olfatto e vista e scansioni cerebrali per identificare sintomi motori. Gli esperti non hanno ancora compreso fino in fondo le modalità usate da Sars-CoV-2 per raggiungere il cervello, ma «è acclarato il fatto che questo si verifichi e può causare danni alle cellule cerebrali innescando un potenziale processo neurodegenerativo» spiega all’Adnkronos il professor Kevin Barnham, del Florey Institute. Tra i principali segnali, proprio la perdita dell'olfatto potrebbe essere un nuovo modo per rilevare il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson, dato che si presenta nel 90% delle persone che hanno contratto il coronavirus e si trovano ancora nella prima fase e che si manifesta circa un decennio prima dei sintomi motori. Attualmente, per diagnosticare la malattia si presta particolare attenzione ai sintomi motori. Tuttavia, «se si aspetta fino a questa fase della malattia di Parkinson per diagnosticare e curare, si perde l'opportunità di adottare terapie neuroprotettive con l'effetto desiderato» sottolineano gli esperti.
Si celebra il 28 novembre, la XII edizione della Giornata Nazionale Parkinson per offrire a tutti informazioni preziose e puntuali su questa malattia così complessa ed eterogenea.
«Nella malattia di Parkinson – evidenzia Christian Orlando, biologo - l'importanza dell’alimentazione è ormai nota a tutti. In presenza di malattie croniche un’alimentazione corretta diventa condizione fondamentale per il benessere dell’individuo e influisce positivamente sull’efficacia della terapia farmacologica e sullo stato di salute generale». Inoltre, «un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati insulinici ha un enorme potenziale nella prevenzione e nella gestione delle patologie neurodegenerative come il Parkinson. Gli studi clinici che esplorano l’effetto dei cambiamenti dietetici a livello neuronale sono pochi e lontani tra loro, ma esiste già un’enorme quantità di materiale scientifico che dettaglia come le diete ad alto contenuto di zucchero mettono a repentaglio la salute del cervello e quanto invece, al contrario, le diete a basso contenuto di carboidrati supportano la salute del cervello. Infatti nella patologia del Parkinson la funzione mitocondriale indebolita si suppone sia coinvolta nella morte dei neuroni che forniscono la dopamina. I ricercatori ipotizzano che i corpi chetonici, utilizzati come fonte energetica in caso di ridotto apporto di carboidrati, possono proteggere i mitocondri e sostenere la loro funzione» conclude l’esperto.
Una diversa risposta all’infiammazione di alcune cellule non neuronali, le microgliali rispetto alle astrocitarie, è quanto dimostrato da un nuovo studio, tutto italiano, sul morbo di Parkinson, la ricerca sperimentale pubblicata sulla rivista Neuropathology and Applied Neurobiology è stata condotta da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, in collaborazione con il Dipartimento di Biotecnologia e Scienze della vita dell’Università dell’Insubria. Una novità che forse potrebbe meglio orientare l’approccio terapeutico alla malattia. I test comportamentali, infatti, convergono nell’indicare l’influenza dello stato infiammatorio su fenomeni patologici a livello cerebrale. Inoltre, l’indagine dimostra in due modelli sperimentali distinti che l’infiammazione sistemica contribuisce in maniera determinante ad aggravare il danno cerebrale indotto dall’alfa-sinucleina, la proteina che in forma aggregata svolge un ruolo patologico nel morbo di Parkinson.
«Il ruolo dell’infiammazione nelle malattie neuro-degenerative è stato evidenziato in diversi contesti sperimentali e clinici – spiega in un’intervista al Fatto Quotidiano Gianluigi Forloni, capo del Dipartimento di Neuroscienze del Mario Negri e coordinatore dello studio -. Questo studio ha il merito di indicare un possibile meccanismo biologico alla base dell’interazione tra infiammazione sistemica e neuro-degenerazione. I nostri risultati indicano in maniera precisa un nesso tra infiammazione e la neurotossicità indotta dalla proteina alfa-sinucleina che si accumula a livello intracellulare nei cosiddetti corpi di Lewy nel morbo di Parkinson e nelle demenze associate. L’induzione a livello sperimentale di uno stato infiammatorio cronico, non solo aggrava la tossicità neuronale indotta dall’applicazione intracerebrale di alfa-sinucleina, ma amplifica anche il quadro patologico che caratterizza topi transgenici modello di Parkinson». «L’azione sinergica tra alfa-sinucleina e infiammazione – secondo Pietro La Vitola, ricercatore del Mario Negri e primo autore della pubblicazione – produce un danno delle cellule nervose, ma ha un effetto differenziato sulle popolazioni cellulari non neuronali. Infatti, alcune (le cellule microgliali) mostrano un’attivazione amplificata, mentre altre (le cellule astrocitarie) risultano meno coinvolte nel processo infiammatorio o addirittura danneggiate. Questo risultato evidenzia come interventi più specifici sui diversi tipi cellulari, piuttosto che l’utilizzo di anti-infiammatori generici, possano rappresentare una nuova e promettente strategia terapeutica per il morbo di Parkinson». «Nel complesso – conclude Forloni – i nostri risultati devono trovare conferma a livello clinico, ma possono spiegare alcune evidenze già emerse nell’uomo e soprattutto orientare in maniera più mirata l’approccio terapeutico al morbo di Parkinson».
Il Messaggero "Il Covid può portare al Parkinson, studio australiano: Sarà la terza ondata della pandemia"
Libero "Coronavirus e Parkinson, la correlazione col morbo: "Questa sarà la vera terza ondata della pandemia"
Il Fatto Quitidiano "Parkinson, “un nesso tra infiammazione e la neurotossicità”. Lo studio dell’istituto Mario Negri"
Wired "A causa di Covid-19 potremmo vedere un'ondata di Parkinson"
PubMed "Peripheral inflammation exacerbates α-synuclein toxicity and neuropathology in Parkinson's models"
Biomedicalcue "Parkinson: scoperta la coppia molecolare che frena il morbo"
LEGGI ANCHE: Infiammazione? Lo stile alimentare che aiuta la prevenzione di tante patologie
Rush University: la cannella per arrestare la progressione del morbo di Parkinson
Studi: la curcuma può curare Parkinson e Alzheimer ma la medicina non studia prodotti a basso costo...
Continua a far parlare di se. Non solo un ormone fondamentale per mantenere il nostro organismo in perfetta salute, ma anche una valida strategia di prevenzione dal Covid. Al centro dei riflettori c’è ancora la vitamina D. Ormai consolidato il suo ruolo nella protezione delle ossa e nel rinforzo fornito al sistema immunitario, questo nutriente è molto importante per le sue innumerevoli capacità. Tra queste, riduce il rischio di cancro, protegge dal diabete, dalle malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni. Circa l’80% viene prodotta dalla nostra pelle grazie ai raggi UVB, mentre la parte residua viene introdotta con l’alimentazione. Tanto discussa, soprattutto negli ultimi mesi, a seguito dei recenti studi circa una sua correlazione ed eventuale efficacia nel contrasto dell’infezione da SARS-CoV-2. Primo tra tutti, lo studio condotto da due ricercatori dell’Università di Torino sulla necessità di adeguati livelli di questa vitamina, soprattutto negli anziani. Questo perché, nell’indagine condotta dagli esperti, ma non solo, la carenza di questa vitamina viene associata a un aumento delle infezioni, da qui le complicanze riscontrate nei soggetti positivi al coronavirus con un deficit di questo nutriente.
A far luce sulla vicenda, interviene il dottor Giuseppe Russo, medico di base presso l’ASL Napoli 1 che in un’intervista a Napoli Today spiega l’importanza della vitamina del “sole”.
«Quella che comunemente chiamiamo "vitamina D", in realtà appartiene ben poco al gruppo delle vitamine, bensì, per struttura chimica (steroidea) e per funzione, è un pro-ormone. I pro-ormoni non sono altro che dei precursori della sintesi degli ormoni». «1/3 del nostro fabbisogno giornaliero di vitamina D – continua l’esperto nell’intervista - proviene dagli alimenti (pesce azzurro, tuorlo d’uovo, latte e formaggio), la restante parte si forma nella pelle attraverso l’esposizione ai raggi solari, e viene immagazzinata nel fegato e nel tessuto adiposo. Gli effetti sono molteplici e svariati. Quelli più noti riguardano la crescita ossea, l’allattamento e la gravidanza. Tuttavia molti studi hanno evidenziato che una sua carenza è spesso associata a diversi tipi di malattie, quali diabete, infarto, morbo di Alzheimer, allergie, sclerosi multipla, obesità e riduzione del tono dell’umore». Poi, evidenzia ancora Russo, la sua possibile correlazione tra Covid.19 e ipovitaminosi D: «L’integrazione della vitamina D, anche in dosi generose, nel contagio da COVID 19, è giustificata dalla sua azione di modulazione del processo infiammatorio e di regolazione del sistema immunitario. Un suo uso preventivo, però, per essere efficace, non può prescindere da un corretto e puntuale dosaggio della sua concentrazione nel sangue».
Un dibattito che va avanti dall’inizio della pandemia e sembra essere in dirittura d’arrivo. Insomma, il rapporto tra Covid e vitamina D continua a far discutere gli esperti e nel frattempo aumentano le tesi a favore. «L’integrazione di questa vitamina, in presenza dell'infezione da SARS-CoV-2, è dovuta alla sua azione di modulazione del processo infiammatorio e di regolazione del sistema immunitario» precisa nell’intervista. E poi raccomanda: «Se vi è carenza, può essere integrata a qualsiasi età». Nel dubbio, il governo inglese ha deciso di seguire l’esempio della Scozia e somministrare la vitamina D alle fasce più rischio, nel rispetto delle linee guida stabilite dal National Institute for Health and Care Excellence e dalla Public Health. In attesa del vaccino, quindi, saranno così rafforzate le difese immunitarie di anziani e persone con gravi patologie che hanno manifestato questa carenza. Nel mare magnum di evidenze scientifiche che hanno conquistato le prime pagine di riviste e quotidiani c’è anche una testimonianza importante. Quella che Pier Luigi Rossi, specializzato in Scienza dell'Alimentazione, racconta in un’intervista al Corriere di Arezzo.
L'importanza della vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
«Con questa malattia non si dorme, si suda e si ha una sensazione di caldo continuo. Il virus entra con il respiro nei polmoni e poi tramite il sangue si diffonde in tutti gli organi, compreso il cervello dove attacca i neuroni provocando appunto insensibilità ai sapori e agli odori. Si localizza molto anche nell'intestino, provocando vari disturbi dalla diarrea alla stipsi. C'è un collegamento diretto tra il microbiota polmonare e quello intestinale. E mantenendo sano e attivo quello intestinale, rendiamo più reattivo anche quello polmonare, ovvero capace a reagire ai vari batteri e virus». Una battaglia contro il Covid che il dottor Rossi ha combattuto e vinto grazie anche a un corretto stile di vita e alimentare. «Io non ho fatto terapia farmacologica – spiega l’esperto - né terapia per controllare la febbre che per fortuna solo una volta mi è salita a 38. Ha applicato tutte le norme anti contagio e tanto riposo in casa. Ho fatto ossigeno terapia con semplici esercizi di inspirazione ed espirazione. Per fortuna ho un parco e mi sono esposto a lungo ai raggi del sole per aumentare la vitamina D, aiutata anche con l'inserimento di 8/10 gocce al giorno di questa vitamina. E poi ho praticato un'alimentazione studiata apposta per superare gli attacchi all'organismo da parte del Covid».
Dopo aver superato la malattia, poiché in ognuno di noi, non muta il virus, ma cambia la reazione nell’organismo in base alle difese immunitarie, consiglia a tutti di fare la massima attenzione senza abbassare mai la guardia! Difatti, le evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia. Infatti, tra le sue principali capacità emerge proprio quella che contribuisce a rafforzare il sistema immunitario e a proteggere dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre di virus. A questo interessante dilemma, infatti, fanno eco altre indagini condotte in questi mesi, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza.
LEGGI ANCHE: Il sole contro il Covid: la vitamina D ci rende più forti e meno vulnerabili