“In vino… salus” o “vinum vita est”! La rivincita sugli astemi, al via con l’antiossidante del benessere. A piccole dosi, il vino rosso fa bene al cuore e contrasta diabete, calcoli renali e riduce il rischio di obesità. Dulcis in fundo, aiuta a prevenire l’Alzheimer! Insomma, le proprietà benefiche dell’uva sono molteplici e sorprendenti. Tutto merito del resveratrolo, potente antiossidante con importanti effetti neuroprotettivi. Inoltre, previene la demenza, l’osteoporosi e favorisce la digestione. Le sue origini risalgono al 3150 a.C., quando gli antichi egizi utilizzavano le proprietà benefiche del vino, impreziosito da erbe e resine di vario genere per ottenere una miriade di effetti salutari. Indagini scientifiche statunitensi hanno dimostrato che l’indice di mortalità degli uomini che bevono un calice di vino al giorno si abbassa di un 17% rispetto a chi non beve vino. Tuttavia, è importante restare all’interno della soglia del benessere poiché se si consuma una quantità superiore rispetto a quella consigliata, l’indice di mortalità aumenta proporzionalmente con gli stessi valori percentuali ma, naturalmente all’incontrario. Per sommi capi, quelli che bevono uno o due calici di vino al giorno hanno una vita più longeva rispetto agli astemi. Purtroppo questa teoria vale soprattutto per gli uomini poiché hanno un enzima che metabolizza l’alcol prima di farlo arrivare al fegato, le donne, al contrario, possono bere soltanto il 60% di quello che bevono gli uomini onde evitare danni al fegato. Vero e proprio toccasana che grazie al contenuto di polifenoli, provenienti dalla buccia e dai semi dell’uva, proteggono il cuore eliminando i radicali liberi. Seppur vietato a bambini, donne in gravidanza e persone con problemi al fegato rimane consigliato a tutti gli altri per le sue capacità di prevenire le malattie cardiovascolari. Insomma, un bicchiere di rosso al giorno toglie il medico di torno! Sempre nei limiti e senza lasciarsi andare a un consumo smodato. «Solo nel 1992 si è iniziato a parlare di resveratrolo come principio attivo di grande interesse per la salute umana, quando dei ricercatori hanno tentato di dare una risposta al paradosso francese» spiega Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti. Da qui l’importanza di questo potente antiossidante a spiegare quello che viene definito come il “paradosso francesce” ovvero il fenomeno per il quale in Francia, nonostante l’alto consumo di alimenti ricchi di acidi grassi saturi, l’incidenza di mortalità per malattie cardiovascolari (ossia le malattie del cuore e dei vasi sanguigni) sia relativamente bassa.
Tra i peggiori nemici di pelle e salute, proprio loro, i radicali liberi. Questi, prendono di mira i grassi che formano le membrane cellulari (liperossidazione), zuccheri, proteine e Dna dove possono alterare il codice genetico portando persino all’insorgenza di gravi malattie. «Per arginare i radicali liberi sulla pelle possiamo farci aiutare dal resveratrolo, eletta dalla facoltà di Medicina di Harvard, miglior molecola antietà naturale», spiega a Repubblica Magda Belmontesi, dermatologa a Milano. «Oggi - aggiunge -, la strategia contro i radicali liberi diventa globale: di giorno, c'è la vitamina C, attiva , infrarossi contro i danni da raggi UV, infrarossi e smog. Di notte, quando il rinnovamento cellulare è più intenso - il picco si verifica tra l'una e le 4 del mattino - bisogna invece potenziare il sistema naturale di difesa antiossidante regolato dalla proteina NRF-2, presente nel mitocondrio. Il resveratrolo è la molecola giusta per stimolarlo. Quindi niente panico, l’arma giusta è a portata di mano». Ora però facciamo un passo indietro e scopriamo cosa sono queste preziose sostanze dagli effetti cardioprotettivi. I polifenoli sono un gruppo eterogeneo di sostanze naturali, note per le loro azioni positive sulla salute umana. In natura i polifenoli vengono prodotti dal metabolismo secondario delle piante ed hanno caratteristiche che ricoprono ruoli differenti come: la difesa degli animali erbivori impartendo dei sapori sgradevoli e dai patogeni, supporto meccanico e di barriera contro l'invasione microbica, attrazione per gli impollinatori e per dispersione del frutto. Dal punto di vista chimico, invece, i polifenoli sono molecole composte da più cicli fenolici condensati; essi possiedo uno o più gruppi ossidrilici -OH legati ad un anello aromatico. In base alla loro struttura possono essere suddivisi in tre classi: quella dei fenoli semplici, quella dei flavonoidi è quella dei tannini. Un esempio di polifenolo è il resveratrolo che inibisce l'ossidazione delle LDL la sovrapposizione delle piastrine proteggendo così l'organismo dalle malattie cardiovascolari (azione antitrombotica, antinfiammatoria, antiaterogena e vaso rilassante).
Dal rosso per il cuore alle virtù del resveratrolo.
«Questo antiossidante riduce il colesterolo “cattivo” e aiuta a prevenire le malattie cardiache e cardiovascolari» spiega in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno il professor Giuseppe Paolisso, rettore dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli ed esperto in malattie del metabolismo. E, secondo alcuni studi, aiuta anche a prevenire il cancro. Altri benefici, oltre all’effetto antinvecchiamento, sarebbero nell’azione benefica contro l’infiammazione organica e nel controllo del metabolismo. Il rettore però avverte: «Trattandosi di vino, e quindi di alcol che è tossico per il fegato, tutto dipende dalle dosi. La quantità massima è di due bicchieri al giorno, non più di tanto. Non si deve mai dimenticare che l’alcol ha di per se la capacità di distruggere le cellule, e in particolare interrompe il meccanismo che serve alla produzione di energia». «Questo antiossidante – evidenzia Paolisso - riduce il colesterolo “cattivo” e aiuta a prevenire le malattie cardiache e cardiovascolari».
E, secondo alcuni studi, contribuisce anche alla prevenzione del cancro. Altri benefici, oltre all’effetto antinvecchiamento, sarebbero nell’azione benefica contro l’infiammazione organica e nel controllo del metabolismo. Senza tralasciare poi il suo effetto protettivo contro lo stress. Indagato da un gruppo di ricercatori coordinati da Mathew Sajish dello Scripp Institute, in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature. La ricerca mostra che questo composto induce, infatti, una potente risposta contro lo stress nelle cellule umane, che ha radici molto antiche dal punto di vista dell'evoluzione. Antinfiammatorie, fluidificanti, antitumorali, antitrombotiche, antiossidanti e antidiabetiche.
«È stato riscontrato - spiega ancora il giornalista nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti - che esercita effetti protettivi nei confronti della pelle (derma) preservandola dall’invecchiamento. Il resveratrolo inibisce l’apoptosi delle cellule migliorando la disfunzione mitocondriale e bloccando le radiazioni. Inoltre il resveratrolo stimola la produzione di collagene oltre che inibire l’espressione delle proteasi, responsabili della degradazione della matrice collagenica. Migliora il microcircolo che nutre la cute, rigenerando l’elasticità dei vasi periferici, permettendo l’aumento dell’ossigenazione. La sua molecola è utilizzata nel trattamento delle dermatiti seborroiche ed irritative dell’eczema. - È stato provato da diversi studi clinici che il resveratrolo è un potente antiossidante, superiore alla vitamina C ed al Beta-carotene (vitamina A), perché sviluppa con esse un’azione sinergica. Agisce inoltre inibendo la perossidazione delle lipoproteine (Ldl). - È considerato un ottimo rimedio anti-età per la sua capacità di rallentare gli effetti dell’invecchiamento». All’Università di Maastricht hanno condotto uno studio somministrando il resveratrolo per un solo mese a persone obese, a rischio di diabete, ictus e con malattie cardiocircolatorie. I ricertatori hanno riscontrato una riduzione della pressione arteriosa, una diminuzione degli zuccheri nel sangue ed un miglioramento del metabolismo dei grassi. «Al resveratrolo - evindenzia Panzironi - è anche riconosciuta la capacità di vasodilatatore, d’inibire l’aggregazione piastrinica e come ottimo fluidificatore del sangue, capace di limitare l’insorgenza di placche trombotiche (vaso epitelio-protettivo)».
Anche lo studio presentato all’Ada nel 2010 dallo scienziato Jill P. Crandall, che ha sottoposto, per settimane, i pazienti anziani a un supplemento di resveratrolo, ottenendo così una riduzione del picco glicemico post pasto pari al 10% e dimostrando, di conseguenza, un miglioramento della sensibilità insulinica.
Esistono migliaia di studi sugli effetti protettivi del resveratrolo in diverse malattie, da quelle metaboliche e neurodegenerative a quelle dell'apparato cardio-vascolare e nell'invecchiamento, passando anche per la sindrome di Down. Tra le principali proprietà del resveratrolo vi è la sua funzione antiossidante, ovvero protegge dai danni causati dall’ossidazione. È infatti in grado di inibire la sintesi dei radicali liberi, molecole alla base dell’invecchiamento cellulare. Da non trascurare poi, le sue proprietà anticancerogene. Tra le modalità di intervento, la capacità di bloccare i processi alla base della genesi dei tumori e la relativa progressione. Potente antinfiammatorio e valida alternativa all’uso dei farmaci. Protegge il sistema cardiovascolare, limitando i danni che l’invecchiamento esercita sui vasi sanguigni. Ma non è tutto. Il resveratrolo è anche un potente alleato del sistema nervoso contro i danni delle malattie neurodegenerative. Altra capacità, la sua azione immunomodulante in grado di regolare il sistema immunitario e influenzare il funzionamento dei linfociti. Da non trascurare poi, la sua funzione antimicrobica. Una marcia in più per prevenire il declino della memoria causato dall’età. Efficace anche nel miglioramento delle performance del cervello. Gli studiosi hanno osservato che il resveratrolo ha effetti positivi sull'ippocampo, un'area del cervello che è fondamentale per la memoria, l'apprendimento e l'umore. L’indagine, condotta da un gruppo di ricercatori del TexasA&M Health Science Center College of Medicine è stata pubblicata su Scientific Reports. E poi è prozioso nel trattamento dell’acne. Come dimostra un esperimento fatto dai dermatologi della David Geffen School of Medicine della University of California, pubblicato su Dermatology and Therapy, dove hanno valutato hanno valutato gli effetti del resveratrolo facendo proliferare colonie di propionibacterium acnes, batteri responsabili dello sviluppo dell'acne, su cheratinociti di pelle umana.
«Questa piccola molecola si trova soprattutto in frutta e verdura dal colore violaceo e ha la funzione di proteggere i vegetali dagli stress esterni, rappresentandone di fatto una sorta di sistema immunitario. Ma la funzione protettiva vale anche per l’uomo», spiega a Gazzetta Active la dottoressa Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e RAF First Clinic di Milano. Tra le sue principali funzioni benefiche: «Ha una azione antinfiammatoria – sottolinea la biologa -, di contrasto ai radicali liberi. Come tutti gli antiossidanti protegge i vasi sanguigni e stimola i processi della regolazione del ciclo cellulare, con una funzione antitumorale di contrasto all’invecchiamento cellulare». Non solo nel vino! Tra gli alimenti che lo contengono «Troviamo il resveratrolo nell’uva, nel cacao, nei frutti di bosco come more e mirtilli, nelle melanzane e in generale negli ortaggi di colore viola scuro». Quando un bicchiere di vino al giorno toglie il medico di torno. «Sì – continua la nutrizionista -, anche se va ricordato che si tratta di una bevanda alcolica e l’etanolo ha un effetto cancerogeno. Ma il vino ha anche proprietà benefiche, che si manifestano anche nel cosiddetto paradosso francese». «Si è osservato che in alcune zone della Francia in cui si consumano molti formaggi ma anche vino c’è una bassa incidenza di malattie cardiovascolari. Questo è dovuto proprio alla presenza di resveratrolo, che abbassa il rischio di patologie cardiovascolari, andando a proteggere i vasi sanguigni dai grassi saturi e dal colesterolo dei formaggi. Il trend del cosiddetto paradosso francese segue una curva a Y: i forti bevitori e gli astemi, i due estremi della curva, hanno lo stesso rischio di patologie cardiovascolari, mentre chi fa un consumo moderato di vino ha una minore incidenza» conclude l’esperta.
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Per approfondimenti:
Gazzetta Active "Resveratrolo: ecco perché un calice di vino al giorno può far bene"
Il Giornale "Dal resveratrolo un aiuto per rallentare l'invecchiamento"
La Repubblica "Resveratrolo e vitamina E per combattere i radicali liberi"
Il Messaggero "Due bicchieri di vino rosso al giorno: ecco perché fanno bene alla salute"
Corriere del Mezzogiorno "Due bicchieri al giorno tolgono il medico di torno. Quando l’alcol fa bene"
Agi "Resveratrolo aiuta a prevenire declino memoria"
Ansa "Nell'uva i segreti per combattere l'invecchiamento"
La Stampa "Un aiuto per la memoria? Arriva dal resveratrolo"
Agi "Salute: Cnr, resveratrolo rigenera i neuroni in sindrome di Down"
Ansa "Resveratrolo dell’ uva efficace contro l’acne"
Washington State University "WSU scientists turn white fat into obesity-fighting beige fat"
MSN Lifestyle "Resveratrolo benefici: efficace contro ipertensione e obesità"
La Stampa "Svelato il segreto del perché il resveratrolo fa bene alla salute"
LEGGI ANCHE: Il vino e le notevoli proprietà benefiche: tutto merito del resveratrolo
Il resveratrolo efficace come anti-età e per dimagrire
Il resveratrolo dell'uva rossa, allunga la vita del 70%
Università della Florida: il potere antinfiammatorio dell'uva rossa, ecco come funziona
University of Missouri: Il Resveratrolo ottimo nella lotta contro il cancro alla prostata
Il resvetarolo protegge anche dalla sordità
Meno morti e meno pazienti in terapia intensiva riaccendono la speranza nell'estenuante lotta contro il Covid. E il merito sembrerebbe proprio degli effetti della tanto discussa vitamina D. I dati registrati negli ultimi mesi dimostrano l’efficacia di questo prezioso nutriente nel trattamento delle persone con comorbidità nella riduzione sia dei decessi sia dei trasferimenti in terapia intensiva. Numerose le evidenze scientifiche a sostegno dell’utilizzo di questa importante vitamina nel trattamento e nella prevenzione del Covid. Tra gli altri, lo studio 'Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-GeneratingStudy' che ha evidenziato l'effettivo ruolo della vitamina D sui malati di Covid-19, è stato coordinato dall'Università di Padova con il supporto delle Università di Parma, di Verona e gli Istituti di Ricerca CNR di Reggio Calabria e Pisa e pubblicato sulla rivista Nutrients. L’indagine mostra come la somministrazione abbia potenziali effetti positivi sul decorso della malattia. Già confermata dalle ricerche dei mesi precedenti la correlazione tra l'ipovitaminosi D a una maggiore esposizione al coronavirus e alle sue manifestazioni cliniche più aggressive. Poco, invece, era noto sugli effetti dell'assunzione di colecalciferolo (vitamina D nativa) in pazienti già affetti da coronavirus. Uno studio francese aveva suggerito che la terapia con colecalciferolo, somministrato nei mesi precedenti il contagio, potesse favorire un decorso meno critico nei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto anziani e soggetti con patologie. Tuttavia, il ruolo della vitamina D nel rafforzare le difese immunitarie è assodato da tempo. Difatti «c’è un’importante metanalisi pubblicata sul British Medical Journal nel 2017 che sostiene che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa avevano meno infezioni respiratorie» spiega a Gazzetta Act!ve Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente dell'European Society of Endocrinology.
Studiata anche da un gruppo di ricercatori del Policlinico San Matteo la correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19. L’indagine condotta nel corso della prima ondata della pandemia su 129 pazienti ricoverati, di cui 34 hanno perso la vita durante la degenza ospedaliera, ha cercato di individuare la prevalenza dell’ipovitaminosi D, ponendola in correlazione con gli esiti clinici e i marker di gravità della malattia. E anche in questo studio, i ricercatori hanno riscontrato livelli molto bassi di vitamina D nelle persone ricoverate in gravi condizioni, anche se tali livelli non sono risultati associabili a variabili di esito, probabilmente anche in considerazione della criticità del quadro clinico di molti pazienti al momento dell’arrivo in ospedale. Insomma, quello presentato da ricercatori italiani, e pubblicato sulla prestigiosa rivista Clinical Nutrition, è un lavoro scrupoloso effettuato su un campione più ampio che porta la firma di Riccardo Caccialanza e del suo team. «I livelli sierici di vitamina D sono stati valutati a 48 ore dal ricovero ospedaliero e il 54,3% ne era gravemente carente» spiega in un'intervista al Giorno Riccardo Caccialanza, direttore dell'Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo, che ha firmato il lavoro. Fondamentale per l’assorbimento del calcio, appare evidente il collegamento tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio, e quindi, di vitamina D e SARS-CoV2. «Ritengo che ci sia un nesso tra vitamina D, calcio, fragilità ossea, vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Queste fratture indicano una fragilità sistemica dell’organismo. Già nella precedente infezione da Sars era emersa una elevata prevalenza di ipocalcemia. Al San Raffaele abbiamo visto come moltissimi malati ricoverati con il Covid abbiano valori di calcio molto bassi. E il calcio basso aumenta la percentuale di rischio di ricovero per Covid» conclude l'esperto.
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni». Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo.
Sono disponibili poche informazioni sugli effetti benefici del trattamento con colecalciferolo in pazienti in comorbidità ospedalizzati per Covid. Lo scopo di questo studio era di esaminare retrospettivamente l'esito clinico dei pazienti che ricevevano colecalciferolo ad alte dosi in ospedale. Sono stati presi in considerazione pazienti con diagnosi positiva di SARS-CoV2 e COVID-19 palese, ricoverati in ospedale dal 15 marzo al 20 aprile 2020. In base alle caratteristiche cliniche, sono stati integrati (o meno) con 400.000 UI di colecalciferolo orale in bolo (200.000 UI somministrati in due giorni consecutivi) ed è stato registrato l'esito composito (trasferimento all'unità di terapia intensiva - ICU e/o morte). Novantuno pazienti (di età compresa tra 74 ± 13 anni) con COVID-19 sono stati inclusi in questo studio retrospettivo. Cinquanta (il 54,9%) pazienti presentavano due o più malattie concomitanti (p <0.0001). Durante il periodo di follow-up (14 ± 10 giorni), 27 pazienti (il 29,7%) sono stati trasferiti in terapia intensiva e 22 (il 24,2%) sono morti (16 prima della terapia intensiva e sei in terapia intensiva). Complessivamente, 43 pazienti (il 47,3%) hanno manifestato l'endpoint combinato di trasferimento in terapia intensiva e/o morte. Le analisi di regressione logistica hanno rivelato che il carico di comorbidità ha modificato in modo significativo l'effetto del trattamento con vitamina D sui risultati dello studio, sia nelle analisi grezze (p=0,033) che in quelle arrotondate, per il punteggio di propensione (p= 0,039), quindi l'effetto positivo del colecalciferolo ad alte dosi sull'endpoint combinato è stato significativamente amplificato con l'aumento del carico di comorbidità. Questo studio che genera ipotesi garantisce la valutazione formale cioè, sperimentazione clinica, del potenziale beneficio che il colecalciferolo può offrire in questi pazienti in comorbidità COVID-19.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
«La nostra è stata una ricerca retrospettiva condotta su 91 pazienti affetti da Covid-19, ospedalizzati durante la prima ondata pandemica nell'area Area Covid-19 della Clinica Medica 3 dell’Azienda Ospedale-Università di Padova» spiega il professore Sandro Giannini, del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e autore dello studio. «I pazienti inclusi nella nostra indagine, di età media 74 anni, erano stati trattati con le associazioni terapeutiche allora adoperate in questo contesto e, in 36 soggetti su 91 (il 39,6%), con una dose elevata di vitamina D per 2 giorni consecutivi. I rimanenti 55 soggetti (il 60,4%) non erano stati trattati con vitamina D. La scelta del medico di trattare i pazienti era stata essenzialmente basata su alcune caratteristiche cliniche e di laboratorio: avere bassi livelli nel sangue di vitamina D al momento del ricovero, essere fumatori attivi, dimostrare elevati livelli di D-Dimero ematico (indicatore di maggiore aggressività della malattia) e presentare un grado rilevante di comorbilità». «Lo studio aveva l’obiettivo - evidenzia ancora l'esperto - di valutare se la proporzione di pazienti che andavano incontro al trasferimento in Unità di Terapia Intensiva e/o al decesso potesse essere condizionata dall’assunzione di vitamina D. Durante un periodo di follow-up di 14 giorni circa, 27 (29.7%) pazienti venivano trasferiti in Terapia Intensiva e 22 (il 24,2%) andavano incontro al decesso. Nel complesso, 43 pazienti (47,3%) andavano incontro a 'Decesso o Trasferimento in ICU' L’analisi statistica rivelava che il 'peso' delle comorbidità (rappresentate dalla storia di malattie cardiovascolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, malattia neoplastica non in remissione, diabete mellito, malattie ematologiche e malattie endocrine) modificava in modo ampiamente significativo l’effetto protettivo della vitamina D sull’obiettivo dello studio, in modo tale che maggiore era il numero delle comorbidità presenti, più evidente era il beneficio indotto dalla vitamina D». «In particolare, nei soggetti che avevano assunto il colecalciferolo, il rischio di andare incontro a "Decesso/Trasferimento in ICU" era ridotto di circa l’80% rispetto ai soggetti che non l’avevano assunto. Il nostro lavoro dimostra, quindi, il potenziale effetto benefico della somministrazione della vitamina D in quei pazienti affetti da Covid-19 che, come molto spesso accade, presentano rilevanti comorbidità e indica l’opportunità di condurre studi appropriati a conferma di questa ipotesi» conclude Giannini.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
Evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia grazie alle sue principali capacità ovvero quelle di rafforza il sistema immunitario e protegge dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre virus. A questo interessante dilemma fanno eco altre indagini condotte dallo scorso anno, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza:
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
JAMA Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"
Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"
Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"
LEGGI ANCHE: Dalla vitamina D al Covid: una lunga storia tra mito e scienza
Covid, studio a Pavia: carenza di vitamina D associata all’infezione
Regno Unito: contro il Covid, vitamina D a oltre 2 milioni di persone
Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti
Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D
SOS ipovitaminosi. Il 60% dei bambini con carenza di vitamina D
Meno chili e più salute. Stop a diabete, obesità, morbo di Parkinson, patologie cardiovascolari e tumori. Al via con l’alimentazione povera di carboidrati e ricca di grassi per uno stile alimentare preventivo delle patologie figlie del benessere. Secondo uno studio condotto dall'Università della California San Francisco (UCSF) (UCSF) la dieta con una minima presenza di carboidrati, avrebbe un impatto decisivo sui microbi che risiedono nell'intestino umano, collettivamente indicati come il microbioma. Indagini più recenti hanno dimostrato che i cosiddetti "corpi chetonici", un sottoprodotto molecolare, incidono direttamente sul microbioma intestinale spegnendo definitivamente l'infiammazione. Questo processo avviene perché, in questo regime alimentare, il consumo di carboidrati è drasticamente ridotto al fine di costringere l’organismo ad alterare il suo metabolismo usando molecole di grasso, invece dei carboidrati, come fonte di energia primaria.
3a Puntata "I CARBOIDRATI FANNO BENE O MALE?" de IL CERCA SALUTE
Teoria - quella dei grassi utilizzati per l'energia necessaria all'organismo - ampiamente supportata e dimostrata nello stile Life 120 ideato da Adriano e Roberto Panzironi. Questa, tuttavia, a differenza della dieta chetogenica, non porta alla chetosi poiché prevede un apporto di carboidrati provenienti da verdure (consumate a sazietà durante i pasti) e dalla frutta (uno al mattino). Inoltre, prevede anche una quantità di zuccheri giornaliera, funzionale ai soli due organi che utilizzano come fonte di energia, ovvero cuore e cervello. Tra le altre patologie, secondo quanto conferma uno studio dell'Università di Bonn pubblicato sulla rivista scientifica Immunity, una dieta a basso contenuto di carboidrati potrebbe aiutare anche nel contrasto dell’asma. «La prevalenza di asma è aumentata drammaticamente negli ultimi decenni forse, questo è anche correlato a una dieta sempre più comune ad alto contenuto di zuccheri [...]», ipotizza Christoph Wilhelm, esperto di chimica e farmacologia clinica dell’Università di Bonn.
L'infiammazione postprandiale che si verifica in concomitanza con iperglicemia e iperlipidemia dopo l'ingestione di un pasto ad alto contenuto di carboidrati (HFCM) è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (CVD). Quindi, alimenti, più di altri, innescano meccanismi che aumentano il rischio dell’insorgenza di una lunga serie di malattie. «Alla base ci sono quegli alimenti che vanno a contrastare i processi infiammatori innescati dallo squilibrio tra citochine pro-infiammatorie e citochine anti-infiammatorie. Ritrovando l’equilibrio si spegne l’infiammazione a livello cellulare» spiega a Gazzetta Act!ve Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e RAF First Clinic di Milano. Oltre l’asma, anche il Parkinson.
«Nella malattia di Parkinson – evidenzia Christian Orlando, biologo - l'importanza dell’alimentazione è ormai nota a tutti. In presenza di malattie croniche un’alimentazione corretta diventa condizione fondamentale per il benessere dell’individuo e influisce positivamente sull’efficacia della terapia farmacologica e sullo stato di salute generale». Inoltre, «un’alimentazione a basso contenuto di carboidrati insulinici ha un enorme potenziale nella prevenzione e nella gestione delle patologie neurodegenerative come il Parkinson. Gli studi clinici che esplorano l’effetto dei cambiamenti dietetici a livello neuronale sono pochi e lontani tra loro, ma esiste già un’enorme quantità di materiale scientifico che dettaglia come le diete ad alto contenuto di zucchero mettono a repentaglio la salute del cervello e quanto invece, al contrario, le diete a basso contenuto di carboidrati supportano la salute del cervello. Infatti nella patologia del Parkinson la funzione mitocondriale indebolita si suppone sia coinvolta nella morte dei neuroni che forniscono la dopamina. I ricercatori ipotizzano che i corpi chetonici, utilizzati come fonte energetica in caso di ridotto apporto di carboidrati, possono proteggere i mitocondri e sostenere la loro funzione» conclude l’esperto.
L'INFIAMMAZIONE CRONICA, le vere cause del killer silenzioso
Facciamo ora un passo indietro e vediamo cosa sono i carboidrati. Una definizione viene fornita da Adriano Panzironi nel libro “Vivere 120 anni. Le verità che nessuno vuole raccontarti”: «I carboidrati (zuccheri) si distinguono in semplici o complessi, in base alla lunghezza della catena di atomi di cui sono formati. Gli zuccheri semplici contengono una catena corta di facile scomposizione. Al contrario gli zuccheri complessi hanno una catena più lunga (si necessita di più tempo per l’assimilazione). Della prima categoria fanno parte molti zuccheri, i più conosciuti dei quali sono, quello di barbabietola (lo zucchero bianco che abbiamo tutti in casa) o di canna (si riconosce dalla composizione di cristalli marroncini). Della seconda categoria fanno parte gli amidi come la farina (e tutti i suoi derivati: pane, pasta, pizza, etc.), il riso, il mais, le patate ed i legumi. Tutti i carboidrati una volta scomposti si trasformano in glucosio che serve poi alle cellule solo per produrre energia tramite il processo della glicolisi (o dopo la sua trasformazione in piruvato, anche nei mitocondri). Gli zuccheri incamerati in eccesso, sono trasformati dal fegato in grasso saturo e stipati nelle cellule adipocite (soprattutto nella pancia, nei fianchi e sui glutei)».
Tuttavia i danni fatti dai carboidrati non finisco qui. Sul rapporto tra fertilità e consumo di carboidrati insulinici interviene la dottoressa Daniela Pelotti, medico specialista in ostetricia e ginecologia:
«Purtroppo, assolutamente sì, nel senso che il lavoro non è svolto solo da me, ma ci sono altri miei colleghi che hanno verificato, che una dieta che porta all'eliminazione dei carboidrati ad alto indice glicemico e soprattutto i cibi contenenti glutine, fa avere alle pazienti che hanno irregolarità del ciclo mestruale o anche menometrorragie una regolarizzazione del ciclo. Tra l'altro, tra i cibi come i cereali ad alto indice glicemico, ci sono quelli che contengono glutine che è tossico per alcune pazienti, geneticamente predisposte, perché può scatenare malattie autoimmuni, tra cui anticorpi, anti riserva ovarica. Quindi diciamo che lentamente l'ovaio perde la sua capacità di ovulare e le pazienti, la prima cosa che manifestano, è un blocco della mestruazione. Quando i medici vanno a fare i dosaggi ormonali e la riserva ovarica diminuisce, i valori FSH ed LH aumentano, come ad indicare l'ingresso in una menopausa precoce, ma i miei colleghi non sanno di questa correlazione, ma non è che ne hanno colpa, non sono informati o non sono incuriositi e non vanno a leggere, oppure non mettono in dubbio quella che è la Medicina ufficiale e suggeriscono ovviamente una integrazione con una terapia ormonale sostitutiva. La paziente, di solito, è disperata, alcune sono anche molto giovani e temono ovviamente di non poter avere figli; ma messe a dieta e con gli anticorpi “antiovarici” che man mano si abbassano, portano l’ovaio a rifunzionare. Quindi, il ciclo ritorna».
INDICE GLICEMICO e alimenti: tutto quello che dobbiamo sapere
La ginecologa illustra poi, i diversi risultati ottenuti con una modifica dello stile alimentare nei soggetti affetta da papilloma virus.
«Sì, ho avuto dei risultati, nel senso che quando si ha un’infiammazione o un virus attacca un tessuto dell'uomo, significa che vi è un’alterazione delle difese immunitarie. I cibi che creano infiammazione sono i cibi ad alto indice glicemico, non a caso dico che i semi sono per gli uccelli, le erbe per gli erbivori e l'uomo è prettamente un carnivoro. Se definito onnivoro, vuol dire che mangia di tutto, ma non gli è permesso, obiettivamente, di trasformare i cibi che non riesce a digerire. Per tale motivo li cuoce e non si rende conto che non sono idonei al suo tipo di DNA e a ciò che ha stabilito la natura geneticamente. Alcuni vanno avanti comunque, altri realizzano delle patologie, fra queste quella del colon irritabile. A proposito, ultimamente si parla molto di comorbilità, cioè di patologie che riguardano l'intestino e la connessione con altri distretti, come il cervello, ma soprattutto la contiguità dell'intestino con l'apparato uro ginecologico, questo fa pensare, in effetti, ho la verifica, che vi sia un’infiammazione da parte dell'apparato uro ginecologico partendo dall'intestino. Fino ad oggi, i ginecologi pensavano: “Hai una vaginite, hai una cistite che viene da fuori”, invece no! Viene da dentro. Quindi, il papilloma virus può venire da fuori ma attecchisce là, dove ci sono un terreno favorevole e le difese immunitarie indebolite: l'intestino infiammato. Questo altera il sistema immunitario, tra l'altro si è scoperta una patologia per cui batteri e sostanze infiammatorie, da un intestino ormai infiammato, lo fanno diventare come un colabrodo. Questi batteri e queste infiammazioni come le candide, attraversano l'utero e vanno al collo dell'utero. Ovviamente, un’infiammazione cronica fa sì che la mucosa non ha difese e attecchisce facilmente il papilloma. Ho verificato tutto questo su alcune pazienti, in cui era presente il papilloma, ma avendo una displasia lieve e non essendo il papilloma già entrato nelle cellule e non avendo dato un’alterazione delle cellule; c'era l’attesa di verificare se l'organismo era in grado di respingere questo virus con una dieta a basso indice glicemico. Il papilloma è scomparso!»
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Altri importanti risultati sono stati ottenuti anche con la mastopatia fibrocistica (MFC), un'affezione di natura benigna caratterizzata dalla presenza, nel tessuto mammario, di noduli composti da microcisti e aree fibrose di varie dimensioni.
«Purtroppo sì. La cosiddetta mastopatia fibrocistica è un’infiammazione dell’apparato mammario dovuta a un’iperstimolazione estrogenica, che parte da un intestino infiammato dai molti carboidrati mangiati; quindi un’infiammazione a livello ovarico, con l’ovaio infiammato, che viene iperstimolato dall’ipofisi e porta alla produzione di molti estrogeni. Quindi, a livello dell’utero può comportare un utero fibromatoso, mestruazioni molto abbondanti; mentre a livello del seno può portare a un’iperstimolazione delle cellule del tessuto mammario, con formazione di cisti. La terapia solo a base di eliminazione dei carboidrati, fa sì che il primo segnale è che la paziente non avverte più il dolore e la mastodinia. A livello ecografico, invece, noto una riduzione o addirittura la scomparsa della mastopatia fibrocistica. Quindi, un messaggio che vorrei dare a tutte le donne è quello di tenere sotto controllo un organo, ma forse sarebbe meglio eliminare la causa» conclude Pelotti.
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Circondati e dipendenti dagli zuccheri. Tra snack e cibi già pronti, passando poi per la dieta mediterranea caratterizzata dagli alimenti composti per la gran parte da zuccheri come pane, pasta, riso, pizza e biscotti. Oltre ai dannosi picchi glicemici, lo zucchero innesca nel nostro corpo sonnolenza e inerzia, senza trascurare il rischio di serie patologie come l’invecchiamento precoce, il diabete, l’obesità, la carie e varie tipologie di tumore, stati infiammatori e, secondo alcuni, anche depressione causata dai cosiddetti picchi insulinici. Dannoso per la salute e se consumato in alte dosi produce dipendenza, proprio per questo viene considerato, da vari nutrizionisti come una vera e propria droga. Dal diabete alla steatosi epatica, fino ad alcuni tipi di tumore. Da non sottovalutare le conseguenze di una dieta ricca di zuccheri. Perché gli zuccheri fanno così male?
«Questo perché abbiamo visto che gli zuccheri fanno più male dei grassi», sottolinea a Gazzetta Active la dottoressa Claudia Delpiano, dietista e biologa nutrizionista presso l’IRCCS Policlinico San Donato e il Policlinico San Pietro. Unica eccezione per la frutta: anche se contiene il fruttosio non fa male. «Sono gli zuccheri aggiunti che fanno male. Il fruttosio della frutta è presente nell’alimento insieme ad altri composti bioattivi: sali minerali, vitamine, acqua, fibra. E la fibra alimentare va a modulare l’assorbimento dello zucchero presente nel frutto, evitando picchi glicemici». Oltre alla frutta c’è di più. Consentiti anche il dolci! «Oltre alla frutta [...], si possono mangiare il cioccolato fondente almeno all’80%, […] la frutta fresca, la polvere di cacao amaro o di cannella, la frutta disidratata al naturale, - ma rigorosamente - senza zuccheri aggiunti».
L'amara verità dello ZUCCHERO: tutti i rischi per la nostra salute
Nel 2016, un’interessante ricerca pubblicata sul British Medical Journal, dimostrava come l’assunzione di zuccheri o di bevande zuccherate fosse un fattore determinante nell’aumento del peso. Inoltre, lo zucchero sembra avere influenza anche sui meccanismi biologici che regolano l’appetito. Avendo la capacità di digerire molto velocemente gli alimenti e le bevande contenenti zuccheri, lo stimolo della fame tende a tornare più frequentemente, innescando così un circolo vizioso. Ovvero, l’organismo scompone tutti i carboidrati nei loro elementi costitutivi e ciò che resta è il glucosio che viene poi metabolizzato grazie all’insulina. Quest’ultima permette l’apporto di zuccheri alle cellule sotto forma di energia. In sintesi, più zuccheri mangi, più insulina verrà prodotta. E di conseguenza, un consumo eccessivo di zuccheri altera il livello di insulina nel sangue facendolo aumentare drasticamente. Dopo aver ridotto la combustione del grasso corporeo, il tasso di insulina scende al minimo, causando così, un nuovo attacco di fame. Altra correlazione evidenziata è quella tra il consumo di bevande zuccherate e il diabete di tipo 2. Tuttavia lo zucchero, in sé, non provoca l’insorgenza del diabete, ma ne aumenta il rischio. Uno studio pubblicato nel 2010, condotto su un campione di oltre 300mila persone, ha svelato che i soggetti che consumano 1 o 2 bevande zuccherate al giorno avevano un rischio di sviluppare il diabete maggiore del 26% rispetto a quelli che ne consumano meno o non ne consumano affatto. Ancora una volta, quindi, la raccomandazione è di evitarle. Tra le causa più comuni di morte precoce associate al consumo di bevande zuccherate sono le malattie cardiovascolari. A risentire della dieta ad alto contenuto di zuccheri, anche il cuore aumentando, di conseguenza, il rischio di disturbi cardiovascolari. Scientificamente dimostrato dall’American Heart Association, altresì che, chi segue un’alimentazione ricca di zuccheri può soffrire di malattie cardiache con frequenza significativamente maggiore rispetto a chi ne assume meno. La ricerca dimostra che le persone che bevono abitualmente bevande zuccherate corrono maggiori rischi rispetto a chi le consuma sporadicamente. Le donne poi, sembrano essere più a rischio degli uomini. Non dimentichiamo poi che i batteri presenti nella bocca reagiscono con la sostanza zuccherata ingerita e formano uno strato di placca sui denti: questa reazione provoca il rilascio di un acido che, a lungo andare, danneggia i denti, provocando carie e cavità dentali.
Ma forse è meglio fare un passo indietro per capire quello che si nasconde dietro un alimento tanto contestato.
«Lo zucchero è un glucide composto da una o due unità, i saccaridi, che sono molecole base che compongono i carboidrati. Se ne abbiamo una o due unità abbiamo, appunto, uno zucchero. Gli zuccheri sono gli elementi base dei carboidrati, che possono essere monosaccaridi o zuccheri semplici (come fruttosio, glucosio e galattosio), disaccaridi (come saccarosio, lattosio e maltosio), o polisaccaridi o carboidrati complessi (come amidi e maltodestrine). Quando parliamo di zuccheri parliamo essenzialmente di glucosio e fruttosio».
Ecco perché lo ZUCCHERO potrebbe essere rischioso per la salute
Secondo quanto dimostra un’evidenza scientifica, la lavorazione industriale (estrazione, purificazione o alterazione) dei cosiddetti cibi ultraprocessati costituirebbe un rischio per salute. In particolare lo zucchero è responsabile del 40% dell’aumento di rischio. Catalogati come “nocivi”, parliamo proprio degli zuccheri semplici.
«Quello che davvero è nocivo è lo zucchero nascosto nel cibo raffinato, o aggiunto in modo discrezionale. Lo zucchero si trova nelle bevande gassate, per esempio, in molti prodotti da forno, anche se portano la dicitura ‘senza zucchero’. Nel 2015 le nuove linee guida per una sana alimentazione hanno ridotto dal 15 al 10% la quota quotidiana suggerita di zuccheri semplici a rapido assorbimento rispetto al fabbisogno calorico giornaliero. E una ulteriore riduzione del 5% va ad apportare ulteriori benefici per la salute». «Gli zuccheri si nascondono proprio nelle etichette. Vengono identificati con vari termini, solitamente che finiscono in -osio: glucosio, saccarosio, destrosio, fruttosio, maltosio, lattosio. Ma anche gli sciroppi, come quello di fruttosio, di glucosio, di mais, di caramello, d’agave, d’acero sono zuccheri. O anche gli zuccheri della frutta, ovvero il fruttosio, lo zucchero d’uva, zucchero della mela sono zuccheri».
Dagli effetti dannosi sul nostro corpo ai notevoli benefici di una dieta priva di zuccheri. Infatti, le cellule tumorali si nutrono di glucosio e muoiono in assenza di esso perché, da sole, non riescono a sintetizzare lo zucchero.
«Il fruttosio è metabolizzato quasi esclusivamente dalle cellule del fegato. Un alto contenuto di fruttosio impatta fortemente sulla risposta insulinica, manifestando poi l’insulino-resistenza: l’insulina lavora meno e non è in grado di fare entrare il glucosio nelle cellule che lo metabolizzano e digeriscono. Il glucosio resta così in circolo, creando iperglicemia, fino ad arrivare al diabete di tipo 2, alla steatosi epatica e alla sindrome metabolica, ad uno stato infiammatorio generale dell’organismo».
ZUCCHERO e TUMORE: ecco come ne influenza la nascita
E di conseguenza, stimolando l’infiammazione generale dell’organismo, una dieta ricca di zuccheri potrebbe incrementare l’insorgenza di forme tumorali.
«Certo, un eccessivo consumo di zuccheri può portare, a lungo termine, anche allo sviluppo di alcuni tipi di tumore, perché il tumore si nutre di zucchero. Nel caso di recidive di tumore, infatti, si consiglia proprio l’abolizione di zuccheri a rapido assorbimento». Per contro «Una dieta priva di zuccheri aggiunti abbassa il rischio di tutte queste patologie. Tra gli effetti ci sono anche una pelle più sane e bella, un calo ponderale, un miglioramento del tono dell’umore e delle funzioni cerebrali, ma anche della digestione e dell’assorbimento dei nutrienti, e si hanno meno problemi di gonfiore addominale».
Gazzetta Act!ve "Zuccheri, ecco perché troppi fanno male. Quali sono i benefici di una dieta che ne è priva?"
Fondazione AIRC "Lo zucchero favorisce la crescita dei tumori?"
Il Messaggero "I cibi industriali aumentano il rischio di morte, zucchero responsabile del 40%"
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Ricercatori: ecco perché senza zuccheri e amidi il tumore muore e aumenta la nostra longevità
Troppi zuccheri possono provocare lo sviluppo del cancro
Buono in cucina e vero e proprio toccasana per il nostro benessere e poi, sicuramente vittima di un retaggio culturale. Concentrato di vitamine e minerali, ma anche povero di lattosio. Valido ingrediente anche come spuntino prima di iniziare un allenamento. Da sempre contestato sia dai “fanatici” della linea sia da quelli che lo annoverano tra gli alimenti potenzialmente nocivi per la nostra salute, e quindi, da evitare. Demonizzato perché considerato un cibo non sano. A scanso di equivoci, uno studio della Friedman School of Nutrition Science della Tufts University sostiene che il burro non fa male al cuore e protegge dal diabete. L’acido butirrico, a cui sono stati attribuiti diversi ruoli fisiologici, è quello, tra gli acidi a catena corta, sui cui più si è concentrata la ricerca. «L'acido butirrico è un acido grasso saturo, non essenziale, che si trova principalmente nel latte dei ruminanti (2-4%), e solo in tracce in quello di donna» spiega Christian Orlando, biologo. Difatti, evidenze scientifiche hanno dimostrato che l’acido butirrico regola il trasporto di fluidi, protegge i colonociti dallo stress ossidativo, influenza la motilità lungo il tratto gastrointestinale, modula la proliferazione cellulare e il differenziamento cellulare, regola inoltre, l’espressione genica. La produzione di acido butirrico svolge dunque un ruolo cruciale per la nostra salute. Considerati i notevoli stimoli a cui è continuamente esposto il colon, infatti, dalla maggiore produzione di butirrato, potrebbe scaturire una resistenza più incisiva contro stimoli tossici migliorando così la funzione della barriera intestinale. Indagini recenti hanno evidenziato che gli acidi a corta catena dopo essere stati assorbiti a livello intestinale, influenzano anche fegato e tessuti extraeptici.
“Un alimento più salutare di zuccheri e amidi” è quanto sostengono i ricercatori della Tufts University. Insomma, nessuna controindicazione sull’aumento del rischio di patologie cardiovascolari. Al contrario, i grassi del latte sarebbero in grado di mantenere la glicemia sotto controllo. Secondo quando mostrato dall’indagine della Friedman School of Nutrition Science and Policy della Tufts University, pubblicata sulla rivista specializzata Plos One, non esisterebbe alcuna prova scientifica secondo cui assumere burro possa aumentare i rischi per la salute dell'organismo, al contrario, avrebbe un effetto protettivo contro patologie come il diabete. Per giungere a questa conclusione, gli studiosi della Tufts University hanno imposto a 636 mila persone un cucchiaio di burro giornaliero, circa 14 grammi al giorno. Nel corso della sperimentazione si sono verificati circa 28 mila decessi, quasi 10 mila patologie cardiovascolari e sono stati diagnosticati qualcosa come 24 mila casi di diabete: ma in nessuno di questi casi i ricercatori hanno trovato un legame tra il consumo di burro e le cause di morte. Le indicazioni della correlazione tra l'alimento, la mortalità e le malattie citate in precedenza, al contrario, sarebbero minime o addirittura insignificanti: anzi, per quel che concerne il diabete sembra proprio che il burro rappresenti, contro ogni aspettativa, un aiuto per il nostro organismo. E poi, il burro è anche fonte di vitamina A, D, E e K indispensabili per il nostro organismo ed è anche una delle poche fonti di vitamina D, preziosa per la salute delle ossa e del nostro sistema immunitario. Fonte di minerali tra fui l’acido linoleico coniugato (CLA) e un acido grasso con funzioni benefiche e protettive (antitumorali, anti-aterosclerotiche, antiobesità e antinfiammatori).
Salutare e digeribile come l’olio. Il burro è un grasso animale ricco di colesterolo e acidi grassi a catena corta che forniscono energia immediata all’organismo. E proprio per questo è considerato l’alimento ideale soprattutto per gli sportivi. I motivi per mangiare burro? É ricco di antiossidanti, prezioso per l’intestino (il burro è ricco di glicosfingolipidi, acidi grassi che proteggono l’intestino da infezioni e problemi gastrointestinali), aiuta il sistema immunitario (grazie alla presenza di carotene fortifica l’organismo contro le infezioni), prezioso per il benessere della tiroide (grazie alla concentrazione di vitamina A), allevia l’artrite (aiuta il corpo a contrastare i problemi legati alle articolazioni), amico degli occhi (la vitamina A protegge gli occhi dall’insorgere della cataratta), amico del cuore (anche se i grassi saturi aumentano il colesterolo, quelli contenuti nel burro contribuiscono infatti, a innalzare quello buono), alleato delle ossa contrasta l’osteoporosi (grazie alla presenza di manganese, rame, zinco e selenio) e aiuta a dimagrire (aumentando il senso di sazietà).
BURRO, PANNA e GRASSI SATURI: amici della salute e del cuore
«L’acido butirrico sembra avere ottime proprietà antinfiammatorie grazie alla capacità di sopprimere l’attività di alcune proteine che scatenano l’infiammazione, in particolare aiuta a controllare la risposta immunitaria regolando l’attività dei linfociti T. Le cellule T, attraverso un complesso meccanismo che si avvale di marcatori chiamati MHC, sono in grado di riconoscere e distruggere le cellule patogene risparmiando quelle sane; se però non funzionano correttamente il sistema immunitario può arrivare ad attaccare organi come il pancreas (diabete di tipo 1) o la tiroide» spiega Christian Orlando, biologo. «Altri studi hanno evidenziato che l’acido butirrico - continua il biologo - aiuta a tenere sotto controllo il peso corporeo stimolando gli ormoni dell’intestino e aumentando la sintesi di leptina (importante nella regolazione dell’appetito). L’acido butirrico è risultato promettente anche nella lotta contro l’insulino-resistenza. In numerosi studi è stato riscontrato che il supplemento con butirrato migliora i livelli di glucosio, la sensibilità all’insulina e persino la funzione mitocondriale» conclude il nutrizionista.
Gli acidi grassi a catena corta prodotti dai batteri intestinali, in particolare l’acido butirrico, sono essenziali per mantenere l’intestino in salute, proteggendolo così da infiammazioni e prevenendo l’insorgenza persino dei tumori. Inoltre, il microbiota mantiene il sistema immunitario costantemente attivo. Questo avviene poiché, un microbiota ricco di batteri capaci di digerire e fermentare i flavonoidi contenuti nella frutta e nella verdura promuove la produzione di sostanze che hanno effetti protettivi sulla salute cardiovascolare. Difatti, alimenti ricchi di acidi grassi saturi e cibi eccessivamente calorici stimolano, invece, la proliferazione di ceppi di batteri che promuovono l’infiammazione. Inoltre, alcune sostanze prodotte dal microbiota intestinale sembrerebbero addirittura coinvolte nella regolazione non solo dell’appetito, ma anche dell’aumento di peso. Sull’importanza degli acidi grassi per il nostro organismo interviene la dottoressa Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e RAF First Clinic di Milano in un’intervista a Gazzetta Act!ve:
«Gli acidi grassi a catena corta, come quelli del burro appunto, forniscono energia alle cellule intestinali. Proprio a livello intestinale avviene l’assorbimento dei nutrienti. Le cellule che partecipano a questo processo di assorbimento hanno bisogno di energia per funzionare adeguatamente. Il burro, come gli altri grassi saturi, aiuta il buon funzionamento dell’intestino. Con questo, però, non bisogna certo esagerare. I grassi devono ricoprire solo il 30 per cento dell’apporto calorico giornaliero. Ed è importante scegliere acidi grassi monoinsaturi nella maggior parte di questa quota. Ma un 10 per cento di questa parte dovrebbe arrivare dai grassi saturi. Anche perché gli stessi grassi saturi sono indispensabili perché vanno a delimitare la guaina mielinica che ricopre i tessuti nervosi».
Ma quali sono le vere caratteristiche del burro?
«Il burro – precisa la biologa - è un grasso saturo animale prodotto dal latte. Contiene però poco lattosio per via della sua preparazione, e di conseguenza è ben tollerato da chi soffre di intolleranza. E’ costituito per l’80 per cento da grasso. Il resto è acqua, un po’ di proteine e pochi zuccheri. Rispetto ad un olio, che è 100 per cento grasso, fornisce un po’ meno calorie: sono circa 750 kcal per 100 grammi. Contiene sali minerali come calcio, importante per le ossa, ma anche fosforo e potassio, quest’ultimo particolarmente utile per gli sportivi, visto il suo ruolo nel contrastare i crampi e nello stimolare la contrazione muscolare».
Inoltre, questo alimento è anche una fonte preziosa di vitamine fondamentali per il nostro benessere.
«Il burro è ricco di vitamina D – chiarisce la nutrizionista - , che migliora l’assorbimento del calcio sia per le ossa sia per la contrazione muscolare. Contiene anche vitamina A o retinolo, antiossidante molto importante per la vista oltre che per lo sviluppo di ossa e denti e per una buona risposta immunitaria, e vitamina E, che favorisce il rinnovo cellulare e combatte i radicali liberi». E poi, il burro è essenziale per tutti gli sportivi: «Di mangiarlo, ovviamente senza esagerare. Soprattutto nella stagione invernale un po’ di burro può aiutare in particolare chi fa sport outdoor di lunga durata» suggerisce Falcone.
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Dal potere antiossidante al contrasto dei radicali liberi. Insomma, la miscela del benessere per vivere in salute ed a zero calorie. Dagli egizi agli antichi romani. Una pratica ben consolidata che affonda le sue radice nella notte dei tempi. Prima ancora della diffusione dei medicinali, i dottori erano soliti curare le persone con rimedi naturali, e proprio per questo venivano chiamati “speziali”. Fonti di vitamine, minerali e antiossidanti, oltre a depurare e proteggere l’organismo, supportano le funzioni del metabolismo nella combustione dei grassi e garantiscono il senso di sazietà per un periodo di tempo più lungo. Questo processo si innesca attraverso la funzione termogenica, ovvero mediante un aumento della temperatura corporea.
«Sicuramente hanno tutte un potere antinfiammatorio e antiossidante e riducono la produzione di radicali liberi. Come sanno bene in Oriente, dove l’uso delle spezie è molto più diffuso, hanno delle proprietà quasi curative, tanto che spesso molti integratori contengono proprio i principi attivi di alcune spezie» sottolinea a Gazzetta Active la dottoressa Emanuela Russo, dietista INCO (Istituto Nazionale per la Cura dell’Obesità) dell’IRCCS Policlinico San Donato e del Marathon Center del Palazzo della Salute di Milano. «Ricordiamo – prosegue l’esperta -, però, che non sono farmaci, quindi vanno usate con costanza per ottenerne i benefici, e sono perfette proprio laddove non c’è una reale patologia ma una propensione a determinate patologie». «La cannella, per esempio, aumenta il senso di sazietà e riduce l’assorbimento degli zuccheri - precisa la dietista -, tanto che spesso è indicata nelle diete in generale e in particolare in quelle per le persone che soffrono di diabete. Il cumino ha un effetto calmante a livello di intestino e di stomaco, e spesso lo si consiglia per problemi gastrointestinali, magari insieme alla malva. La curcuma ha un effetto lenitivo e calmante, riduce l’infiammazione a livello generale e soprattutto gli stati infiammatori a livello articolare, tanto che esistono integratori a base di curcumina che hanno ottimi riscontri nella riduzione delle patologie correlate al sistema articolare. E poi pepe e peperoncino aumentano la termogenesi e stimolano la digestione, dando una mano al transito intestinale».
Spezie utili per la salute: curcuma, zenzero, cannella e peperoncino
Difatti, come dimostra lo studio condotto da un team di ricercatori della Pennsylvania State University, grazie alla capacità di frenare l’infiammazione che è alla base di alcune patologie molto serie, le spezie proteggono l’organismo da tumori, diabete e malattie cardiovascolari. L’indagine di questi studiosi, con l’utilizzato di un composto di spezie, nasce con l’obiettivo di studiare l'effetto postprandiale di una miscela di spezie sulle risposte infiammatorie delle citochine. L'infiammazione postprandiale che si verifica in concomitanza con iperglicemia e iperlipidemia dopo l'ingestione di un pasto ad alto contenuto di grassi saturi e alto contenuto di carboidrati (HFCM) è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (CVD). Gli studiosi hanno dimostrato che l’aggiunta spezie riduceva sensibilmente questo rischio. Inoltre, la ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica The Journal of Nutrition, ha mostrato la capacità di questi ingredienti di apportare benefici per la salute, riducendo l’infiammazione dell'organismo. Ovvero, i ricercatori hanno scoperto che quando i partecipanti allo studio consumavano un pasto con l’aggiunta di sei grammi di una mescolanza di spezie, questi manifestavano marcatori di infiammazione più bassi rispetto a un pasto privo di queste sostanze. Precedenti ricerche avevano già collegano le spezie alle notevoli proprietà antinfiammatorie. Infatti, anche in passato, l'infiammazione cronica era stata associata anche a patologie non trascurabili come il cancro, le malattie cardiovascolari, il sovrappeso e l'obesità, che colpiscono circa il 72% della popolazione. Inoltre, in studi più recenti, gli scienziati hanno scoperto che l'infiammazione dell’organismo potrebbe aumentare, dopo un pasto, a seguito del consumo di una quantità eccessiva di grassi o zucchero. Le spezie, stando a quanto dimostrato in queste ricerche, hanno la capacità di inibire la crescita dei tumori, prevenire danni al DNA e mutazione cellulare.
Utilizzato dai fenici sia tavola che come rimedio para medico, il cumino, oltre alla sua notevole peculiarità di insaporire la carne alla brace è anche efficace per alleviare le coliche addominali. Stop a gonfiore, indigestione, flatulenza, diarrea e nausea! Ricco di fibre, calcio, fosforo, ferro e potassio. Ottimo digestivo e prezioso per curare l’intestino e rafforzarne le difese immunitarie, grazie alle sue proprietà antibatteriche e virali. Questa spezia tradizionale del Nord Africa, aiuta la digestione del cibo, stimolando il rilascio di enzimi digestivi durante e dopo i pasti e può anche aiutare a lenire in generale il processo digestivo. Facilita il processo digestivo perché stimola la produzione degli enzimi digestivi e favorisce l’eliminazione dei gas intestinali, prevenendo così il fastidioso gonfiore addominale. Il primo aiuta ad attivare le ghiandole salivari che rompono il cibo e preparano le sostanze nutritive per la corretta assimilazione, mentre il secondo impedisce la fermentazione degli alimenti nel tratto digestivo. Il cumino stimola anche il processo digestivo innescando il rilascio di bile e altri enzimi digestivi responsabili della cosiddetta “rottura” del cibo. Migliora il profilo lipidico, sia per il colesterolo che per i trigliceridi. Uno studio pubblicato nel 2014, dimostra come la somministrazione quotidiana di cumino potrebbe diminuire i livelli sierici di colesterolo cattivo e trigliceridi aumentando, per contro, quello buono. Inoltre, ai semi del cumino è riconosciuta anche un’azione preventiva nei confronti di patologie oncologiche, l’effetto è stato attribuito a un componente, il timochinone, potente antiossidante che contrasta efficacemente l’azione dei radicali liberi.
Non solo per il curry! La curcuma è infatti rinomata da sempre, grazie al suo costituente attivo, la curcumina, noto antiossidante e antinfiammatorio per antonomasia. Apprezzata per contrastare crampi, dolori muscolari e reumatici, artrite, problemi digestivi e stress e riconosciuto come rimedio naturale contro il colesterolo alto. Da non trascurare poi, la sua capacità di rallentare processi e malattie dell’invecchiamento correlati all’infiammazione. E’ una delle spezie più note all’uomo, è un potente anti-infiammatorio che ha dimostrato di favorire la corretta digestione del cibo. Per le sue forti qualità astringenti, la curcuma può aiutare a sigillare il rivestimento del tratto intestinale e digestivo, bloccando la condizione comunemente nota come sindrome dell’intestino permeabile. La spezie è nota anche per sopprimere la produzione in eccesso di acido dello stomaco, che può causare stomaco infiammazione cronica e danni anche fisici alla parete intestinale. Il consumo regolare di curcuma ha dimostrato di aiutare a prevenire il reflusso gastroesofageo, noto anche come bruciore di stomaco, oltre a prevenire la formazione di ulcere gastriche e duodenali.
Alimentazione e salute: le virtù curative delle spezie
Utilizzata soprattutto per dolciumi e liquori è un concentrato di antiossidanti e preziosa per corpo e mente. In Cina questa spezia veniva utilizzata a scopi curativi già nel 2700 a.C. ed era apprezzata da nobili e imperatori, soprattutto per i suoi benefici. Difatti, la cannella aiuta a rallentare il processo di invecchiamento, ridurre lo stress ossidativo e liberare il corpo dalle tossine. Al di là dell’impiego culinario, evidenze scientifiche dimostrano che questa spezia potrebbe contrastare malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson proteggendo i neuroni nel nostro cervello e inibendo le proteine collegate a queste malattie. Preziosa anche per la gestione dei livelli di zucchero nel sangue e di insulina. Oltre a garantire tanti benefici per una pelle più sana e bella. Questa spezia vanta proprietà antiossidanti (la presenza dei polifenoli è utile per trattare i sintomi dell’influenza come febbre, raffreddore, mal di gola, tosse e stanchezza), protettive dal diabete (i polifenoli hanno la capacità di regolare la percentuale di zuccheri nel sangue, attraverso la scomposizione degli zuccheri stessi così da evitare i picchi glicemici), antibatteriche e antimicotiche (nel contrasto ai numerosi microrganismi dannosi per la nostra salute soprattutto contro il fungo Candida albicans, responsabile di alcune infezioni vaginali), protettive nei confronti dell’Alzheimer (alcuni studi, tra cui quello americano pubblicato nel 2013 sul Journal of Alzheimer Disease, in cui è stato evidenziato il ruolo nelle prevenzione della malattia, quindi, nella fase di degenerazione cellulare) e benefiche per l’apparato digerente, prevenendo gonfiore intestinale, flatulenza, e coliche renali, ma anche agendo come astringente contro la diarrea. E soprattutto è un ottimo digestivo!
Utilizzato in tutto l’Oriente come rimedio naturale per l’indigestione continua, ancora oggi, ad essere apprezzato per la sua potente capacità di reprimere la nausea ed aiutare nel processo digestivo. Dolci, salati e bevande. Estremamente versatile in cucina veniva consumato già nell’antichità per combattere nausea e vertigini. Oggi è diffuso soprattutto come tisana brucia grassi, nonché ottimo rimedio naturale contro influenza, raffreddore e mal di gola. Evidenze scientifiche hanno poi dimostrato che è un rimedio efficace sia per il trattamento e che per la prevenzione del cancro del colon-retto, così come per molti altri tipi di malattie. Usato quotidianamente, lo zenzero allevia il disturbo di stomaco, previene la diarrea, elimina la sensazioni di nausea ed è utile per il trattamento di crampi mestruali. E’ infine utile contro il mal di mare ed il mal d’auto. Lo zenzero, comunemente noto come potente rimedio per il mal di pancia e forte antinfiammatorio capace di contrastare infiammazioni come la proteina C reattiva. Valida difesa contro l’ulcera e ottimo supporto per alleviare i dolori mestruali. Ricco vitamina B6 e vitamina C e di minerali come potassio, rame, manganese, magnesio, niacina, fosforo e ferro.
Gazzetta Act!ve "Spezie: concentrati di vitamine, minerali e antiossidanti a zero calorie"
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Prima il lockdown poi lo smart working. Dal Covid alla bilancia: tutte le cattive abitudini che hanno fatto ingrassare gli italiani. Tra le conseguenze di questa pandemia proprio il cambio dello stile di vita. Le limitazioni imposte, in ultimo, con il coprifuoco, il lavoro all’interno delle mura domestiche, la sporadica attività fisica e la maggiore tendenza a dedicarsi alla cucina. È quanto emerge da una analisi di Coldiretti su dati Crea, il centro di ricerca alimenti e nutrizione. Computer, divano e tavola hanno, infatti, allontanato dall’attività motoria e dallo sport il 53% degli italiani. La situazione peggiora poi per le persone obese soprattutto per quelle alle prese con il cosiddetto smart working e in cassa integrazione, che nel 54% dei casi ha registrato un aumento medio di peso di ben 4 Kg, secondo i dati riportati da una ricerca della Fondazione Adi dell’Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica. Insomma, soprattutto in questa fascia della popolazione, il lavoro agile ha favorito l’adozione di comportamenti poco salutari. Da non dimenticare poi che questo fenomeno si verifica in un Paese dove peraltro più di un terzo della popolazione italiana adulta è in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%) con il 45,1%. Il rischio obesità non risparmia neanche bambini e adolescenti duramente provati dal lockdown. In Italia si stimano – conclude la Coldiretti – circa 2 milioni e 130 mila bambini e adolescenti in eccesso di peso, pari al 25,2% della popolazione di 3-17 anni secondo l’Istat.
Le vere causa dell'obesità
Dal 1980 ad oggi l’obesità nel mondo è più che raddoppiata. Questa la rivelazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Gli adulti in sovrappeso raggiungono il 39% e gli obesi sono il 13%. Secondo le più recenti stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE, 2017) il 65,1% della popolazione adulta degli Stati Uniti ha un problema di eccesso di peso e tra questi, quasi la metà è obesa. L’epidemia dell’obesità si è diffusa negli ultimi decenni anche in Europa. A peggiorare un quadro già drammatico gli ultimi mesi della pandemia. Dal lockdown al coprifuoco, passando per mesi di smart working e quasi totale assenza di attività motoria. Un fattore che ha senza dubbio peggiorato la situazione delle persone obese o in sovrappeso, costrette a casa tra lavoro e Dpcm.
L’obesità è stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come «l’epidemia del XXI secolo». Inoltre, l’Ufficio regionale europeo dell’OMS la definisce come «un’epidemia estesa a tutta la regione europea» poiché circa la metà della popolazione adulta è in sovrappeso ed il 20-30 % degli individui, in molti Paesi, è definibile come clinicamente obeso. Rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo, sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, sindrome metabolica (ipertensione arteriosa e dislipidemia aterogena) con progressiva aterosclerosi, aumentato rischio di eventi cardio/cerebrovascolari e tumori. Sovrappeso e obesità sono responsabili dell’80% dei casi di diabete di tipo 2, del 35% dei casi di malattie ischemiche del cuore e del 55% dei casi di malattie ipertensive tra gli adulti; sono condizioni associate a morte prematura e ormai universalmente riconosciute come fattori di rischio per le principali malattie croniche. L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico (assunzione di cibo) e spesa energetica (metabolismo basale, attività fisica e termogenesi) con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie nei depositi di tessuto adiposo. E’ causata nella maggior parte dei casi da stili di vita scorretti: da una parte, un’alimentazione non equilibrata e ipercalorica e dall’altra un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica. L’obesità è quindi una condizione ampiamente prevenibile. Un’emergenza socio-sanitaria quella dell’obesità che sia l’OMS che l’European Association for the Study of Obesity ha ripetutamente evidenziato. Inoltre, non dimentichiamo che questa malattia, «potenzialmente mortale, riduce l’aspettativa di vita di 10 anni» sostiene Andrea Lenzi, presidente Health City Institute e del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Via della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Obesità e ipertensione arteriosa
Sovrappeso e obesità affliggono principalmente le categorie sociali svantaggiate che hanno minor reddito e istruzione, oltre che maggiori difficoltà di accesso alle cure. L’obesità riflette e si accompagna dunque alle disuguaglianze, favorendo un vero e proprio circolo vizioso. Un problema particolarmente grave è quello dell’insorgenza dell’obesità tra bambini e adolescenti, esposti fin dall’età infantile a difficoltà respiratorie, problemi articolari, mobilità ridotta, ma anche disturbi dell'apparato digerente e di carattere psicologico. Inoltre, chi è obeso in età infantile lo è spesso anche da adulto: aumenta quindi il rischio di sviluppare precocemente fattori di rischio di natura cardiovascolare (ipertensione, malattie coronariche, tendenza all’infarto) e condizioni di alterato metabolismo, come il diabete di tipo 2 o l’ipercolesterolemia - evidenzia Andrea Urbani Ministero della Salute, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria.
Una corretta strategia di prevenzione del sovrappeso e dell’obesità rientra nell’ambito più generale della prevenzione e controllo delle patologie croniche nel loro complesso. E’ importante perseguire un approccio di promozione della salute e di sensibilizzazione dei soggetti con incremento ponderale sui vantaggi collegati all’adozione di stili di vita sani, in una visione che abbracci l’intero corso della vita. Inoltre, il rapporto dell’Italian Diabetes & Obesity Barometer evidenzia tra gli altri, due aspetti su cui porre particolare attenzione. In primo luogo, la persistente ed elevata prevalenza di obesità e sovrappeso tra i bambini la cui salute rischia di essere seriamente compromessa dall’aumento dei fattori di rischio. Su questo aspetto l’Italia si colloca tra i paesi europei con la più elevata prevalenza. La raccomandazione, a livello nazionale, è quella di seguire stili alimentari adeguati, riducendo il consumo di alimenti ricchi di zuccheri e promuovendo un maggiore consumo di frutta e verdura, oltre a sensibilizzare le industrie alimentari verso la produzione di alimenti più sani ed equilibrati. In secondo luogo, il rapporto documenta ampiamente come la prevalenza di obesità sia fortemente associata a condizioni di svantaggio socioeconomico. I dati relativi alle diseguaglianze sociali nell’alimentazione e nell’attività fisica concorrono a indicare che la maggior parte delle abitudini insalubri sono inversamente correlate con il livello di istruzione e la classe sociale.
(Fonte: Il Sole 24Ore)
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il numero di persone obese nel mondo è raddoppiato a partire dal 1980: nel 2014 oltre 1,9 miliardi di adulti erano in sovrappeso, tra cui oltre 600 milioni obesi. Nella Regione Europea dell’Oms, nel 2013, oltre il 50% della popolazione adulta era in sovrappeso e oltre il 20% obesa. Dalle ultime stime fornite dai Paesi Ue emerge che il sovrappeso e l’obesità affliggono, rispettivamente, il 30-70% e il 10-30% degli adulti. Si ritiene che l’obesità sia responsabile del 10-13% dei decessi. Ogni anno, l’eccesso di peso è responsabile della perdita di 12 milioni di Dalys (anni di vita in salute persi per disabilità o morte prematura). In Italia, secondo il rapporto Osservasalute 2016 (che fa riferimento ai risultati dell’Indagine Multiscopo dell’Istat “Aspetti della vita quotidiana”) emerge che, nel 2015, più di 1/3 della popolazione adulta (35,3%) era in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%); complessivamente, il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni risultava in eccesso ponderale. Le differenze sul territorio confermano un gap Nord-Sud in cui le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone maggiorenni obese (Molise 14,1%, Abruzzo 12,7% e Puglia 12,3%) e in sovrappeso (Basilicata 39,9%, Campania 39,3% e Sicilia 38,7%) rispetto a quelle settentrionali (obese: PA di Bolzano 7,8% e Lombardia 8,7%; sovrappeso: PA di Trento 27,1% e Valle d’Aosta 30,4%). La percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età e, in particolare, il sovrappeso passa dal 14% della fascia di età 18-24 anni al 46% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità passa, dal 2,3% al 15,3% per le stesse fasce di età. Inoltre, la condizione di eccesso ponderale è più diffusa tra gli uomini rispetto alle donne (sovrappeso: 44% vs 27,3%; obesità: 10,8% vs 9%).
Nel 2017 in Italia, sono circa 15 milioni le persone di 18 anni e più che praticano nel tempo libero uno o più attività sportive (29,7% della popolazione di riferimento, di cui il 20,2% con continuità e il 9.5% saltuariamente). Circa il 29% della popolazione (14,8 milioni persone), pur non praticando uno sport, svolge un’attività fisica (come fare passeggiate di almeno due km, nuotare, andare in bicicletta o altro). I sedentari, ovvero coloro che non praticano alcuno sport e nemmeno attività fisica nel tempo libero, sono oltre 20 milioni e 400 mila, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più. Rispetto al 2001 la pratica sportiva è in aumento sia per gli uomini (da 32,1% a 36%) sia per le donne (da 18,8% a 23,9%) e, seppure in maniera differenziata, in tutte le classi di età. Il fenomeno appare ancor più critico se si considera la quota di popolazione adulta che, come suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, svolge almeno 150 minuti a settimana di attività fisica moderata o intensiva, ovvero i livelli considerati adeguati nella popolazione adulta per mantenersi in buona salute. Nel nostro Paese solo il 18,3% della popolazione adulta pratica attività fisica. «La sua diffusione “epidemica” favorisce l’incremento della prevalenza di svariate note patologie come diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemie che contribuiscono alla rilevante mortalità per patologie cardio e cerebrovascolari, prima causa di morte nella popolazione italiana» spiega Giuseppe Malfi, presidente Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (A.D.I.). L’obesità si manifesta a causa di uno squilibrio tra introito calorico e spesa energetica con conseguente accumulo dell’eccesso di calorie in forma di trigliceridi nei depositi di tessuto adiposo. L’obesità è una patologia eterogenea e multifattoriale, al cui sviluppo concorrono sia fattori ambientali che genetici (geni che si sono evoluti in ere di scarsità di cibo). A livello mondiale, l’OMS stima che circa il 58% del diabete mellito, il 21% della malattie coronariche e quote comprese tra l’8% ed il 42% di certi tipi di cancro sono attribuibili all’obesità. A queste vanno aggiunte, la sindrome delle apnee notturne (che aumenta il rischio di morte improvvisa per aritmia), artrosi, calcolosi della colecisti, infertilità e depressione. Per queste ragioni l’obesità contribuisce in modo molto significativo allo sviluppo delle malattie non trasmissibili (NCDs) che causano nel nostro paese il 92% di morti e più dell’85% di anni persi per disabilità. Si tenga presente che un obeso grave riduce la propria aspettativa di vita di circa 10 anni ma ne passa ben venti in condizioni di disabilità. E se oggi metà della popolazione è in sovrappeso o obesa, le proiezioni dell’OMS per il 2030 danno un quasi raddoppio della prevalenza di obesità che sommata al sovrappeso costituirà circa il 70% della popolazione.
Insomma, la continua crescita della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità è causa di serie preoccupazioni in tutte le regioni del mondo, e il fenomeno si configura sempre più come pandemia globale. In base alle stime dell’OMS, nel 2017 il sovrappeso e l’obesità sono stati responsabili di 4,72 milioni di decessi e di 148 milioni di anni vissuti con disabilità. Fra le cause di morte, l’eccesso ponderale è passato dal 16° posto nel 1990 al 7° posto nel 2007, fino a raggiungere il 4° posto nel 2017, preceduto soltanto da ipertensione, fumo e iperglicemia. Si stima che nel mondo ci siano oggi 2.1 miliardi di persone in sovrappeso o obese, circa il 30% della popolazione mondiale. Se l’andamento in crescita del fenomeno resterà immodificato, nel 2030 circa la metà delle persone nel mondo avrà un eccesso ponderale, con drammatici risvolti clinici, sociali ed economici. Stando ai dati riportati in un rapporto Istat, è pari al 44,9% la popolazione di 18 anni (o più) in eccesso di peso (34,1% in sovrappeso, 10,8% obeso). Il 64,7% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nel corso dell’anno: il 51,7% beve vino, il 47,8% consuma birra e il 43,2% aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori. Inoltre, 20.400.000mila persone, pari al 40,6% della popolazione di 18 anni e più, dichiarano di non praticare sport né attività fisica nel tempo libero. Elevate le differenze di genere: è sedentaria la metà delle donne contro un terzo degli uomini. Giusto per completare il quadro, in un Paese con una legge anti-fumo e con pubblicità sui pacchetti di sigarette che dovrebbero indurre a smettere o a non cominciare, nel 2016 il 19,8% della popolazione di 14 anni e più dichiara di essere fumatore (circa 10.400.000mila persone), il 22,6% di aver fumato in passato e il 56,1% di non aver mai fumato. Quindi ancora vincono gli stimoli per cattivi stili di vita. La diffusione dell’obesità tra bambini e ragazzi è un fenomeno che si sta diffondendo e sta caratterizzando non soltanto l’Italia e i Paesi europei, ma anche tutti i Paesi del resto del mondo, ad una velocità diversa a seconda del Paese e seguendo differenti modelli di sviluppo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, attualmente, più di 30 milioni di bambini in eccesso di peso. In Italia, si stima siano circa 1.700.000mila i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso pari al 24,2% della popolazione di 6-17 anni (media 2016-2017)4. Rispetto al biennio 2010-2011 si osserva una lieve tendenza alla diminuzione del fenomeno, sebbene le differenze non risultino statisticamente significative. Emergono forti differenze di genere: il fenomeno è più diffuso tra i maschi (27,3% vs 20,8% femmine). Tali differenze non sussistono tra i bambini di 6-10 anni, mentre si osservano in tutte le altre classi di età. L’eccesso di peso raggiunge la prevalenza più elevata tra i bambini di 6-10 anni, dove raggiunge il 32,9%. Al crescere dell’età, il sovrappeso e l’obesità vanno tuttavia diminuendo, fino a raggiungere il valore minimo tra i ragazzi di 14-17 anni.
Obesity Monitor "1st Italian Obesity Barometer Report"
La Repubblica "Obesità in crescita in Italia. 23 milioni in sovrappeso: uno su 4 ha meno di 17 anni"
AGI "Lockdown e smart working hanno fatto ingrassare gli italiani: il 44% è in sovrappeso"
Corriere della Sera "Adolescenti obesi (e dipendenti)"
La Repubblica "Obesità in Italia: riguarda il 36% della popolazione tra i 5 e i 19 anni"
Obesity Review "Individuals with obesity and COVID‐19: A global perspective on the epidemiology and biological relationships"
La Repubblica "L’obesità raddoppia il rischio di ricovero per Covid 19"
JAMA Network "Large Meta-analysis Digs Into Obesity’s COVID-19 Risks"
Fanpage "L’obesità può aggravare l’infezione da coronavirus nei giovani"
La Stampa "Scatta l’allarme obesità: è la regina di ogni malattia eppure la sottovalutiamo"
Agi " Gli obesi sono più a rischio Coronavirus "
OK Benessere e Salute " Obesità: in Italia un morto ogni 10 minuti. Serve una svolta "
OK Benessere e Salute " Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono" "Obesità: ecco tutti i rischi che si corrono "
Società Italiana Obesità (SIO)
Società Italiana di chirurgia dell'Obesità e delle Malattia Metaboliche (SICOB.)
Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica (ADI)
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Dal sovrappeso all'obesità: Vitamina D, nemica dei chili di troppo
+ 25%. Dalla prima alla seconda ondata. Unico comun denominatore il netto peggioramento della qualità del sonno. Lo rivela l’indagine di un gruppo di psicologi dell’Università di Roma Sapienza, guidati da Maria Casagrande del Dipartimento di psicologia clinica e dinamica. Secondo i dati mostrati dallo studio, pubblicato sulla rivista Sleep Medicine, ci si è spostati da una prevalenza di disturbi del sonno nella popolazione dal 30% a oltre il 55% e sono, al tempo stesso, aumentati anche stress e disturbi d’ansia. Una catena di patologie senza fine. La ricerca ha effettuato un confronto tra i dati rilevati attraverso un questionario somministrato online a circa 2.300 persone di età superiore a 18 anni e i dati epidemiologici di base.
I risultati della nostra ricerca dimostrano che c’è stato un peggioramento delle condizioni psicologiche durante lo stato di emergenza» spiegano gli autori dello studio. «Anche se è impossibile capire se i risultati sono attribuibili alla paura dell’epidemia o alle misure restrittive – evidenziano i ricercatori -, alcune caratteristiche del nostro campione sono risultate maggiormente in relazione a peggiori condizioni psicologiche: l’età più giovane, il sesso femminile, il timore di aver contratto l’infezione o aver avuto un contatto diretto con persone infettate. Chi aveva queste caratteristiche mostrava maggiori probabilità di sviluppare problemi connessi al sonno, sintomi d’ansia e stress psicologico, proprio come è già stato osservato in studi precedenti realizzati in corso di epidemia Covid-19 o SARS.
Tutti i consigli per RIPOSARE meglio ed essere più energici
Non solo i postumi del lockdown che sembra essere stato particolarmente difficile il momento dell’addormentamento, la cosiddetta latenza del sonno. Così, di conseguenza, l’indomani, molte persone hanno lamentato di non «funzionare» al meglio, come capita quando non si riposa a sufficienza. «Abbiamo anche riscontrato differenze territoriali, con una peggior qualità del sonno nelle aree del nord Italia, che corrispondevano a quelle in cui le condizioni erano peggiori e c’era il maggior numero di decessi» prosegue l’équipe di ricercatori. E infatti molte ricerche precedenti hanno documentato l’importanza del sonno nel ristabilire funzioni neurocomportamentali e psicologiche, come la regolazione delle emozioni, il tono dell’umore, l’ansia. E disturbi psichici come il Disturbo post-traumatico da stress (Ptsd) e altre forme correlate allo stress sono significativamente associate con un peggioramento della qualità del sonno, che a sua volta influenza negativamente il livello di soddisfazione della vita, la salute, gli aspetti correlati al benessere sociale ed emotivo. È per questo che riteniamo che studiare la qualità del sonno in corso di pandemia Covid-19 sia un elemento critico al fine di valutare il livello di benessere della popolazione italiana». Insomma, paura, stress e, dulcis in fundo, il coprifuoco hanno scombussolato il nostro metabolismo con notevoli conseguenze tra cui anche la mancanza di sonno. «Vivere in una con dizione di forte stress può compromettere la qualità del sonno» scrive in un post su Instagram Sara Parizzi, psicologa ed educatrice presso la Neuropsichiatra infantile di Fidenza (PR).
“Non ho chiuso occhio” o “non riesco a prendere sonno”, “dormo male” oppure “mi sveglio continuamente”. Queste tra le frasi principale che ormai da mesi sentiamo ripetere, come da rituale, ogni mattina da quando è esplosa l’emergenza. Un risveglio traumatico e per niente rilassante quello a cui vanno in contro ogni mattina gli italiani. Aumentano sempre più le persone che si alzano dal letto poco riposati o ancora assonnati e a peggiorare la situazione, l’attuale pandemia e il coprifuoco degli ultimi mesi. Lo stress e l’assenza di stimoli, una vita sociale sempre più limitata e la preoccupazione per il lavoro incidono negativamente sul nostro sonno e, più in generale, sulla nostra salute. In ultimo, il coprifuoco a cambiare il nostro stile di vita e le nostre abitudini, gli orari della routine quotidiana compreso il nostro orologio biologico che continua ad essere il bersaglio perfetto delle nostre giornate stressanti alle prese con il mare magnum di notizie. Sono questi i principali fattori che, fra gli altri, rappresentano una minaccia alla buona qualità del sonno. Aspetto da non sottovalutare è quello dovuto al rallentamento, o addirittura, alla cessazione, di ogni attività motoria. Tra gli altri “nemici del sonno” anche i dispositivi elettronici che, finito il tempo dello smart working, ci inchiodano agli schermi con l’intento di trovare un passatempo tra le mura domestiche. Attività che peraltro hanno l'effetto di annullare ogni sorta di rilassamento: l'iperstimolazione che il cervello subisce durante il giorno, unita alla luce blu dei device elettronici, riduce la produzione della melatonina, l'ormone che stimola il sonno.
Un disturbo patologico che colpisce più gli adulti che i ragazzi, in questa nuova ondata di coronavirus l'insonnia sta facendo contare numeri importanti. «Molte persone - aggiunge Francesco Fattirolli, direttore della struttura organizzativa dipartimentale di riabilitazione cardiologica dell’Università di Careggi - ci dicono di avere problemi del sonno che è inquieto e disturbato. Ma ci raccontano anche di timori e di senso di paura». Sono diversi i fattori che influiscono sulle sue cause e, di conseguenza, hanno l'effetto di innescare maggiore stress. Tuttavia, dormire bene è possibile. Una condizione che poi si accentua ancor più d’inverno. Difatti, «quando fa freddo – si legge nell’intervista a Vanity Fair - facciamo fatica a prendere sonno perché il nostro corpo non riesce a scaldare facilmente le zone periferiche, soprattutto mani e piedi» spiega a Vanity Fair, Sara Montagnese, professore di Medicina all’Università di Padova. Umore, lucidità mentale, energie e performance: il sonno è indispensabile e quando scarseggia ne paghiamo le conseguenze. Dalle notti passate a rotolarsi nel letto, ai risvegli all’insegna della stanchezza. E poi, la quantità non coincide quasi mai con la qualità. Soprattutto in questo caso. Dormire non significa riposare bene, con un sonno costante e senza interruzioni. Proprio per questo, e ancor più, per il benessere del nostro organismo, l’importante e svegliarsi riposati, al mattino, e con la giusta energia per affrontare la giornata. Per contrastare insonnia e disturbi del sonno è fondamentale un buon alleato: scegliere la corretta integrazione per regolarizzare e facilitare la fasi del sonno. Tra i rimedi naturali per il corretto riposo c’è proprio la melatonina. Una molecola naturale antichissima (la sua evoluzione risale a 3 miliardi di anni fa), prodotta dalla ghiandola pineale (epifisi), allocata nell’encefalo, a forma di pigna e presente in qualsiasi organismo animale o vegetale. La sua principale funzione è quella di regolare il ritmo circadiano, laddove l’alternarsi del giorno e della notte inducono variazioni dei parametri vitali.
Non dimentichiamoci poi di ansia e stress. Deleterie per il nostro benessere psicofisico poiché influenzano negativamente l’energia mentale di ogni individuo oltre alla salute del corpo stesso. A complicare un quadro già critico anche le tante faccende da sbrigare e le mille cose da pianificare nei giorni che precedono la festività.
Ogni volta che c’è un cambio di stagione potrebbero manifestarsi una serie di disturbi, che possono compromettere la qualità della vita quotidiana. Spesso si parla di disordine affettivo stagionale che si manifesta con malessere e stress. Sono diverse le cause che potrebbero celarsi dietro la stanchezza del cambio di stagione, tra cui l’alterazione della serotonina e della melatonina, dovute alle modifiche nell’alternanza tra luce e buio» evidenzia Christian orlando, biologo e nutrizionista. «Comunque – suggerisce Orlando - ci sono dei semplici rimedi che possono aiutare a vivere meglio il cambio di stagione, è importante assumere vitamine del gruppo B che supportano il nostro metabolismo energetico, la vitamina C perché contribuisce a ridurre stress e affaticamento e la melatonina importante per ritrovare il giusto equilibrio sonno-veglia. E’ importantissimo anche idratare l’organismo, che ha bisogno di eliminare le tossine e le scorie accumulate inoltre anche una leggera attività fisica è utile per rilassare la mente.
Partendo dalla definizione universalmente riconosciuta, per stress si intende una reazione che si manifesta quando una persona percepisce uno squilibrio tra le sollecitazioni ricevute e le risorse a disposizione. Si tratta, precisamente, di una sindrome generale di adattamento (SGA) atta a ristabilire un nuovo equilibrio interno (omeostasi) in seguito a fattori di stress (stressors). Le alterazioni dell'equilibrio interno possono avvenire a livello endocrino, umorale, organico, biologico. Sugli eventi cosiddetti 'stressori' apre una parentesi anche Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni - Le verità che nessuno vuole raccontarti:
Sicuramente poche, ma siamo bombardati da eventi stressori che attivano, pur non volendo, il medesimo meccanismo. Se, infatti, nel passato, l’ambiente circostante attivava la nostra reazione definita “combatti o scappa” una volta al giorno, oggi esistono centinaia di stimoli quotidiani che attivano tale meccanismo, facendoci vivere una vita stressata e sempre sul chi va là.
Corrriere della Sera "Gli effetti sul sonno della pandemia"
Il Messaggero "Covid: stanchezza, affaticamento e insonnia. Gli strascichi della malattia nello studio del Careggi"
Il Giornale "Coronavirus e insonnia: cosa fare per dormire meglio"
The italian times "Insonnia: cause e rimedi per curare ansia e stress da mancanza sonno!"
Plos Biology "A bidirectional relationship between sleep and oxidative stress in Drosophila"
Vanity Fair "INSONNIA E PROBLEMI COL SONNO: ECCO COSA FARE SE NON RIESCI A DORMIRE"
La Repubblica "Dormire poco fa male al cuore"
Plos Biology "Broken sleep predicts hardened blood vessels"
Fondazione Veronesi "Insonnia: se dormi male anche il cuore rischia"
La Repubblica "Anziani, se troppo sonno diventa la spia di diabete e problemi di cuore"
Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"
La Repubblica "Coronavirus: irritabilità, insonnia e paura per il 70% dei ragazzi"
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Dall’alterazione del collagene allo scorbuto, la malattia del passato si riaffaccia nel mondo occidentale. Prende il nome di scorbuto la patologia che deriva dalla carenza di vitamina C. Situazione in cui il collagene, presente nell’organismo, diviene instabile e poco efficiente minando la funzionalità di altri enzimi presenti nel nostro corpo. Macchie cutanee e sanguinamento, gengive "spugnose", crescita dei capelli "a cavatappi" e scarsa guarigione delle ferite tra i principali sintomi di questo deficit vitaminico. Ma anche lesioni cutanee, soprattutto sulle cosce e gambe, pallore, depressione e sporadica attività motoria. Nello scorbuto allo stato avanzato si manifestano poi anche ferite suppuranti, caduta di denti e diverse anomalie ossee. Tra i principali sintomi debolezza, confusione, esaurimento fisico, scarso appetito (che può trasformarsi anche in anoressia), letargia, irritabilità, dolori alle gambe, anemia, gengivite, ematomi, carie, dolori articolari, dolori muscolari, caduta dei capelli, pelle secca, sensibilità alla luce, sbalzi d’umore, depressione, sanguinamento gastrointestinale e mal di testa. Tuttavia è possibile trattarlo attraverso l’integrazione di acido ascorbico. Oltre all’integrazione di vitamina C, è importante modificare anche lo stile di vita necessario a garantire un’assunzione adeguata della vitamina.
VITAMINA C, un concentrato di proprietà e benenfici
Definito da Ippocrate come “ileo ematite”, lo scorbuto è conosciuto anche come "il morbo dei marinai" o "la malattia dei pirati”. Premesso che le riserve di vitamina C del corpo umano sono limitate e si esauriscono entro 1–3 mesi, lo scorbuto era comune tra gli equipaggi impegnati nelle lunghe traversate oceaniche, e quindi, non avevano scorte alimentari fresche e sufficienti. Verso la fine del 1700, la marina britannica sapeva che lo scorbuto poteva essere curato consumando arance e limoni, oggi invece, sappiamo che lo scorbuto può essere evitato assumendo quotidianamente vitamina C. Ampiamente dimostrata, inoltre, l’associazione tra la carenza di vitamina C e le aree a basso status socioeconomico. Tra gli altri fattori di rischio di questa carenza possiamo includere alcolismo, dieta squilibrata, fumo, disturbi alimentari, diabete del tipo 1, disturbi del tratto gastrointestinale (come ad esempio il morbo di Crohn, la celiachia), obesità, febbre alta, infiammazioni e invecchiamento.
Più volte ci siamo soffermati sugli aspetti deficitari della nostra alimentazione e sull'importanza di integrare la propria dieta con degli specifici micronutrienti. Insomma, lo scorbuto è una malattia dovuta a carenza alimentare o a insufficiente assorbimento intestinale di vitamina C, caratterizzata da un estremo deperimento dell'organismo, oltre che da manifestazioni emorragico-ulcerose della cute, delle mucose e degli organi interni. E anche se in passato colpiva i marinai o comunque le categorie più disagiate, oggi torna nei Paesi ricchi a causa della cattiva alimentazione. Già qualche anno fa un gruppo di ricercatori australiani ha raccontato su Diabetic Medicine di 11 casi di scorbuto, diagnosticati in pazienti diabetici la cui dieta era particolarmente povera di frutta e verdura. Infatti pochi sanno che tra le altre cause compare anche un’alimentazione squilibrata poiché una carenza di vitamina C superiore ai tre mesi porta a questa malattia. Inoltre, lo scorbuto può portare persino alla morte: il nostro corpo, alle prese con una grave carenza, non riesce né a produrre né a stoccare l’acido ascorbico e la mancanza di questa vitamina può portare a gravi conseguenze.
Nella figura il meccanismo schematico in cui una IA di vitamina C potrebbe modulare funzioni specifiche dei neutrofili (ROS e TNFα, mediata da IL-1β), inibendo le vie coinvolte nella formazione della trappola extracellulare dei neutrofili (NETosis) e riducendo la produzione incontrollabile di citochine infiammatorie nell'alveolare spazio. Potenziali effetti sulla riduzione della produzione di citochine sono stati ipotizzati anche nei linfociti e nei macrofagi. ROS, specie reattive dell'ossigeno; NFkB, fattore di trascrizione nucleare kappa B; ┴, stimolo di inibizione; freccia tratteggiata, effetto o produzione ridotti.
Necessaria per numerosi processi di idrossilazione catalizzati da alcune ossigenasi (enzimi), la vitamina C supporta tantissime funzioni importanti per la nostra salute:
La gazzetta del Mezzogiorno "Lo scorbuto, malattia del passato, nota come morbo dei marinai"
Affari Italiani "Scorbuto, allarme. Poca vitamina C e ci si ammala di scorbuto. Rischio morte"
La Stampa "Così lo “scorbuto” dei marinai del ’500 venne sconfitto con gli agrumi"
Frontiers in Immunology “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19”
PubMed "Evolution and the need for ascorbic acid"
MDPI "Vitamin C and Immune Function"
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A confermare le recenti teorie sul rapporto tra coronavirus e la “vitamina del sole” questa volta è una ricerca tutta italiana. Studiata da un gruppo di ricercatori del Policlinico San Matteo la correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19. L’indagine condotta nel corso della prima ondata della pandemia su 129 pazienti ricoverati, di cui 34 hanno perso la vita durante la degenza ospedaliera, ha cercato di individuare la prevalenza dell’ipovitaminosi D, ponendola in correlazione con gli esiti clinici e i marker di gravità della malattia. E anche in questo studio, i ricercatori hanno riscontrato livelli molto bassi di vitamina D nelle persone ricoverate in gravi condizioni, anche se tali livelli non sono risultati associabili a variabili di esito, probabilmente anche in considerazione della criticità del quadro clinico di molti pazienti al momento dell’arrivo in ospedale. La ricerca, approvata dal Comitato etico, ha fotografato, al momento del ricovero, Un fattore, tra gli altri, non trascurabile ovvero la prevalenza della carenza vitaminica che, al di là dell’infezione da SARS-CoV-2 è fondamentale per il benessere del nostro organismo, e quindi, per la nostra salute. Inoltre, è stata anche riscontrata l’associazione tra lo stato della vitamina e gli esiti clinici come polmonite grave, ricovero in reparti di terapia intensiva, seguita poi dalle relative complicazione che hanno portato, in alcuni casi, persino alla morte, oltre a marcatori biochimici di gravità della malattia (come, ad esempio, conta dei linfociti, proteina C-reattiva).
L'importanza della vitamina D - intervista di Adriano Panzironi
Insomma, quello presentato da ricercatori italiani, e pubblicato sulla prestigiosa rivista "Clinical Nutrition", è un lavoro scrupoloso effettuato su un campione più ampio che porta la firma di Riccardo Caccialanza e del suo team. «I livelli sierici di vitamina D sono stati valutati a 48 ore dal ricovero ospedaliero e il 54,3% ne era gravemente carente» spiega in un'intervista al Giorno Riccardo Caccialanza, direttore dell'Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo, che ha firmato il lavoro. «Tuttavia – precisa nell’intervista -, se l’adeguatezza della vitamina D possa prevenire l’infezione da Covid 19 o influenzare gli esiti clinici deve essere ancora valutato rispettivamente da studi di popolazione e studi di intervento dimensionati e progettati, che potrebbero essere molto rilevanti considerato l’andamento della pandemia a livello globale». Tuttavia, il ruolo della vitamina D nel rafforzare le difese immunitarie è assodato da tempo. Difatti «c’è un’importante metanalisi pubblicata sul British Medical Journal nel 2017 che sostiene che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa avevano meno infezioni respiratorie» spiega a Gazzetta Act!ve Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente dell'European Society of Endocrinology.
L’esperto, già lo scorso marzo, in una lettera al British Medical Journal aveva evidenziato come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria, favorendo anche il rischio di malattie autoimmuni. In quel periodo, era soprattutto il Nord Italia ad essere alle prese con la maggior parte di persone con il Covid e a far schizzare il bilancio dei contagi, catapultando il nostro Paese in cima alla classifica mondiale. Ma perché, nella prima come nella seconda ondata, sono le regioni settentrionali quelle con la peggiore letalità? Tra le varie ipotesi, ad oggi, l’unica confermata: soprattutto al Nord e nei mesi invernali, viene meno l’esposizione al sole, ovvero il mezzo primario per sintetizzare questa preziosa vitamina.
Il 20 marzo abbiamo pubblicato la lettera sul British Medical Journal – si legge nell’intervista a Gazzetta Act!ve - era allora il momento in cui l’Italia sembrava il Paese più colpito, cosa che si è rivelata vera anche nel prosieguo. Si era cercato di capire perché da noi la situazione fosse così drammatica soprattutto dal punto di vista della mortalità. In realtà ancora oggi non abbiamo una spiegazione del tutto convincente. Ma da studi epidemiologici emerge che nella popolazione italiana si hanno bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno, per esempio, i Paesi scandinavi, tanto che questa situazione è nota come paradosso scandinavo: quei Paesi che non conoscono una grande esposizione alla luce solare, fonte principale di vitamina D, la addizionano ai cibi. E così i loro livelli sono in media il doppio di quelli degli abitanti di Paesi del Sud Europa come Spagna, Grecia e, appunto, Italia.
Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D
Inoltre, è scientificamente dimostrato che gli italiani hanno livelli di vitamina D più bassi di quelli degli scandinavi: «Loro hanno sopperito alla mancanza del sole con integrazioni, noi no» evidenzia presidente della Società Europea di Endocrinologia. La spiegazione è nel cambiamento delle abitudini degli italiani. Al contrario di quanto accadeva circa mezzo secolo fa, la persone trascorrono un tempo irrisorio all’aria aperta. Poi, l’arrivo del lockdown a dare il colpo di grazia a questo stile di vita che prevedeva sporadiche esposizioni ai raggi UV. In pratica, la carenza di questo nutriente sembrerebbe proprio un fattore predisponente per ammalarsi di Covid. Numerose evidenze scientifiche suggeriscono che i pazienti con Covid-19 hanno livelli di vitamina D più bassi rispetto alla popolazione generale. L’esperto, in un recente studio dell’Ospedale San Raffaele, ha evidenziato che nei pazienti ospedalizzati per Covid-19 con fratture vertebrali sembrerebbero aumentare il rischio di complicanze. Fondamentale per l’assorbimento del calcio, appare evidente il collegamento tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio, e quindi, di vitamina D e Covid-19. «Ritengo che ci sia un nesso tra vitamina D, calcio, fragilità ossea, vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Queste fratture indicano una fragilità sistemica dell’organismo. Già nella precedente infezione da Sars era emersa una elevata prevalenza di ipocalcemia. Al San Raffaele abbiamo visto come moltissimi malati ricoverati con il Covid abbiano valori di calcio molto bassi. E il calcio basso aumenta la percentuale di rischio di ricovero per Covid» conclude Giustina. E poi consiglia a tutta di esporsi al sole, almeno mezzora al giorno e di fornire al nostro organismo, con l’alimentazione e l’integrazione, la quantità necessaria di vitamina D per stare bene.
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