L’estate sta arrivando e il Covid se ne va. Ci riscaldano, ci abbronzano e in poche decine di secondi uccidono persino il virus. Meno di un minuto per disattivare la carica virale emessa da una persona positiva. È quanto conferma una nuova ricerca sui raggi che arrivano sulla terra. «Abbiamo dimostrato che raggi Uva e Uvb del sole nel giro di poche decine di secondi uccidono completamente il Sars-Cov-2» dimostra Mario Clerici, immunologo, docente di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore scientifico dell’Irccs di Milano Fondazione Don Gnocchi, autore, insieme al gruppo di ricerca dell’Istituto nazionale di astrofisica, di un nuovo studio tutto italiano. Numerose ricerche precedenti condotte nell’ultimo anno avevano già mostrato gli effetti benefici sia dei raggi solari che della vitamina D come scudo di difesa in questa pandemia. Secondo quando mostrato nell’ultima indagine, la luce ultravioletta a lunghezza d’onda corta o radiazione UV-C avrebbe un’ottima efficacia nel neutralizzare il coronavirus SARS-CoV-2. Confermata e ribadita più volte da recenti studi scientifici la relazione che associa la carenza di vitamina D alle forme più gravi di coronavirus. Insomma, che la carenza di vitamina D potrebbe diventare un fattore predisponente per ammalarsi di Covid e portare ad un esito severo o addirittura letale della malattia l’aveva già sostenuto a inizio pandemia, in una lettera al British Medical Journal, il professor Andrea Giustina primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology. Nella lettera, il primario evidenziava come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria.
Insomma, la bella stagione il virus porta via. 10, 20 secondi al massimo e il sole inattiva il virus. Ormai noto da tempo il potere germicida della luce UV-C su batteri e virus, una proprietà dovuta alla sua capacità di rompere i legami molecolari di DNA e RNA che costituiscono questi microorganismi. Difatti, diversi sistemi vengono utilizzati per la disinfezione di ambienti e superfici come appunto ospedali e luoghi pubblici. In pratica, d’estate il virus è spacciato. Quindi, di conseguenza, la peggior letalità del SARS-CoV-2 scaturita dalla minore (o nulla) esposizione ai raggi solari, mezzo primario per sintetizzare la vitamina D. Per l’esperimento, i ricercatori hanno utilizzato cellule polmonari in piastra che sono state irrorate con le diverse quantità di SARS-CoV-2, dunque poste sotto lampade UV per calcolare i tempi di inattivazione delle diverse lunghezze d’onda sul patogeno umano. L’effetto germicida è stato verificato anche in risposta all’irraggiamento con gli UV-A e gli UV-B, indicando che la carica virale può essere completamente inattivata dalle lunghezze d’onda UV corrispondenti all’irradiazione solare UV-A e UV-B. «Abbiamo illuminato con luce UV soluzioni a diverse concentrazioni di virus e abbiamo trovato che è sufficiente una dose molto piccola, per inattivare e inibire la riproduzione del virus, indipendentemente dalla sua concentrazione» sottolinea Mara Biasin, docente di Biologia Applicata dell’Università Statale di Milano. «Con dosi così piccole è possibile attuare un’efficace strategia di disinfezione contro il coronavirus. Questo dato sarà utile [...] per sviluppare sistemi volti a contrastare lo sviluppo della pandemia», aggiunge Andrea Bianco, tecnologo INAF.
Una teoria confermata già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. La vitamina D, per l'appunto, svolge tra le altre funzioni anche un ruolo importante come ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. Nelle persone con deficit di vitamina D, la sua integrazione è in grado di ridurre il rischio di sviluppare diverse infezioni virali. Quindi, oltre all’esposizione solare, la supplementazione di questo nutriente è una raccomandazione utile e sicura.
Questo studio - spiega Clerici all’Adnkronos Salute - è essenzialmente il seguito di un precedente lavoro che avevamo fatto l’anno scorso quando avevamo visto che i raggi Uvc che sono una componente dei raggi solari che però non arriva sulla terra, uccidevano il Sars-Cov-2 dopo un’esposizione di pochi secondi. Però gli Uvc - ribadisce Clerici - non arrivano sulla terra, quindi quei dati erano importanti solo da un certo punto di vista. Adesso, abbiamo visto che anche gli Uva e Uvb che sono i raggi che arrivano sulla terra, ci abbronzano e ci riscaldano, nel giro di poche decine di secondi uccidono completamente il Sars-Cov-2. Dunque abbiamo esattamente replicato i dati sugli Uvc però dimostrando questa volta che tutti i raggi solari distruggono il virus. E fra l’altro il tempo necessario, quando per esempio si è in spiaggia con il sole che viene amplificato dal riverbero sulla sabbia o sull’acqua, è ancora più breve. Quindi in spiaggia bastano veramente 10-20 secondi di Uva e Uvb per uccidere completamente il virus. La nostra idea è che questo, insieme alla percentuale sempre più alta di vaccinati, spieghi perché con la bella stagione stiamo superando la problematica. Innanzi tutto c’è da dire che il sole - sottolinea Clerici - non è il solo elemento che giustifichi tutto quello che osserviamo. In India hanno contribuito le feste religiose con i bagni nel Gange e poi c’erano i monsoni, quindi c’era tutta la velatura dei raggi solari dovuta alle nuvole. In Brasile sappiamo tutti quello che è successo purtroppo hanno pagato la gestione Bolsonaro, perché è vero che servono i raggi solari però servono anche le mascherine, i vaccini e tutto il resto.
Gli studiosi hanno confermato l’efficacia del sole contro il Covid-19 oltre a sterilizzare oggetti e ambienti dal virus.
Si vede proprio in una visualizzazione - spiega l’immunologo - l’effetto dei raggi solari sul virus: se non lo esponi ai raggi solari il virus infetta le cellule, se lo esponi ai raggi solari lo uccidi. I dati dell’anno scorso erano importanti perché hanno portato allo sviluppo di dispositivi che svolgevano proprio questa funzione ma i raggi Uvc - ricorda lo scienziato - sono pericolosi per la cute umana, quindi non si poteva stare nella stessa stanza dove venivano applicati. I raggi Uvb invece no, sono i raggi che ci toccano normalmente quando usciamo al sole, per cui questa scoperta ha un’importanza molto più alta. Gli astrofisici hanno collegato una macchinetta che produce i diversi raggi solari in maniera distinta, quindi solo gli Uva o gli Uvb o gli Uvc piuttosto che gli ultravioletti - spiega Clerici - poi abbiamo messo la macchinetta sotto una cappa, abbiamo preso le cellule polmonari e abbiamo buttato sopra il virus. E il virus che è stato esposto oppure no alle diverse componenti dei raggi solari. Dapprima - chiarisce l’immunologo - abbiamo usato una dose massimale di virus, quindi molto molto più alta di quella che si ha in un soggetto con Covid. E poi abbiamo usato la dose presente in un paziente con Covid severo, per vedere se poteva avere anche una potenziale importanza clinica. Ed effettivamente è così: si inattiva nel giro di pochi secondi la quantità di virus che è quella che nei pazienti provoca il Covid severo.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana che, soprattutto in Italia, è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.). In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione tra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente oppure al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente inferiori rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
Dati poi confermati da altri lavori condotti dall’inizio della pandemia hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza come strategia di prevenzione e trattamento:
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Per approfondimenti:
MedRxiv "UV-A e UV-B possono neutralizzare l'infettività SARS-CoV-2"
Adnkronos "Covid, studio italiano: così il sole distrugge il virus in pochi secondi"
Fanpage "I raggi solari uccidono il coronavirus in meno di un minuto"
HuffPost "I raggi del sole distruggono il virus in pochi secondi: i risultati di uno studio italiano"
Secolo d'Italia "Covid, i raggi solari distruggono il virus in pochi secondi. Lo dimostra uno studio italiano"
YouMedia "I raggi solari uccidono il coronavirus in meno di un minuto"
Respiratory Research "Circulating Vitamin D levels status and clinical prognostic indices in COVID-19 patients"
Agi "La carenza di vitamina D può aggravare la malattia"
Nurse Time "Coronavirus, carenza di vitamina D associata a stadi clinici più compromessi"
Comune di Torino "Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze"
Regione Piemonte "Covid, aggiornato il protocollo delle cure a casa"
Ansa "ANSA-IL-PUNTO/ COVID: PIEMONTE si attrezza contro varianti"
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Jama Network "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Springer Link "Associations between hypovitaminosis D and COVID-19: a narrative review"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
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Acclarata già da tempo la relazione che associa la carenza di vitamina D alle forme più gravi di coronavirus, viene confermata ancora volta da un altro studio che dimostra i tanti benefici di questo ‘ormone del sole’ e gli eventuali rischi di un eventuale deficit. Questa volta lo sostiene una ricerca condotta all’Ospedale Sant’Andrea di Roma e pubblicata sulla rivista scientifica Respiratory Research. «Abbiamo osservato in particolare 52 pazienti ricoverati da noi con polmoniti da Covid durante la prima ondata, pazienti anziani con un’età media di 68 anni e mezzo, accomunati da livelli estremamente bassi di vitamina D, inferiori a 10 ng/ml. Tutti avevano quadri respiratori e immunologici particolarmente gravi», spiega in un’intervista a Gazzetta Active il professor Alberto Ricci, direttore dell’U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma. Insomma, che la carenza di vitamina D potrebbe diventare un fattore predisponente per ammalarsi di Covid e portare ad un esito severo o addirittura letale della malattia l’aveva già sostenuto a inizio pandemia, in una lettera al British Medical Journal, il professor Andrea Giustina primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology. Nella lettera, il primario evidenziava come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria, favorendo anche il rischio di malattie autoimmuni.
Uno scenario critico soprattutto in un momento storico in cui il Covid stava compiendo la sua prima strage, soprattutto di anziani, nel Nord Italia. Caratteristica che è rimasta poi invariata anche nella seconda ondata dove tra le regioni più colpite risultano sicuramente quelle settentrionali. Dal Veneto al Piemonte, dalle Valle D’Aosta alla Lombardia. E non dimentichiamo che sono stati proprio i dati di quella parte di Italia a far schizzare il bilancio dei contagi e delle vittime nel Paese, portandoci in vetta alle tristi classifiche mondiali sullo stato dell’infezione da Sars-CoV-2. Quindi, la peggior letalità del Sars-CoV-2 scaturita dalla minore (o nulla) esposizione ai raggi solari, mezzo primario per sintetizzare la vitamina D. Stando a quanto riportato in diversi studi, nella popolazione italiana si registrano, soprattutto negli ultimi anni, bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno, per esempio, i Paesi scandinavi. Inoltre, emerge da un’altra importante metanalisi pubblicata nel 2017 sul British Medical Journal che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D, ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa, avevano meno infezioni respiratorie. Altro importante collegamento è quello che emerge tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio e di vitamina D e vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Tuttavia, questo ormone che è un composto naturale fisiologicamente già presente nell’organismo non può essere addizionato completamente mediante alimentazione poiché il cibo fornisce solo il 20% del fabbisogno giornaliero di questo prezioso nutriente.
L’indagine ha inoltre evidenziato i tanti effetti benefici della vitamina “del sole” oltre che sul sistema immunitario anche per il metabolismo delle ossa ed, in particolare, contro le infezioni.
Lungi dal considerare la vitamina D come un trattamento – sottolinea il professor Ricci – va però detto che rappresenta probabilmente, e non soltanto per il Covid-19, un elemento da valutare per le implicazioni legate ad una sua carenza. Non è solo di una vitamina necessaria per il metabolismo dell’osso, ma probabilmente svolge funzioni molto più complesse anche per quanto riguarda la parte immunologica, sia durante lo sviluppo del sistema immunitario sia nelle fasi successive di mantenimento e attività del sistema immunitario stesso - chiarisce Ricci. - Si tratta di un’osservazione interessante che potrebbe essere considerata anche in altri tipi di patologie infettive, non solo nel Covid.
Un nuovo studio che riporta sotto i riflettori un fenomeno di tutti quei Paesi del Nord Europa, quelli meno esposti al sole, il cosiddetto “paradosso scandinavo”: «C’è una campagna di implementazione di vitamina D importante che noi non facciamo, forse perché ci riteniamo naturalmente più protetti perché più esposti al sole. Ma certe popolazioni fragili come gli anziani stanno prevalentemente chiusi in casa o nelle Rsa e il sole non lo vedono. Proprio in questi casi, ma non solo, studiare i livelli plasmatici di vitamina D può essere molto importante per decidere eventuali integrazioni». Inoltre, a differenza degli italiani, gli scandinavi hanno sopperito a questa carenza, noi invece no, spiega l'autore dello studio.
I suoi importanti effetti a livello immunitario era confermati già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. Un paradosso, quello scandinavo, che permette di formulare un’ipotesi per l’Italia, colpita così duramente dalla pandemia, a causa degli scarsi, e quindi insufficienti, livelli di vitamina D registrati tra la popolazione. A questo scenario critico si lega l’importanza dell’integrazione che non prevede nessuna controindicazione. «La vitamina D non è un farmaco tossico, somministrarla a chi ha una carenza ne potenzia le risposte immunitarie. Dal lato opposto, chi ha livelli di vitamina D molto bassi è probabilmente molto più esposto alle infezioni in generale, respiratorie e non solo», conclude il professor Ricci.
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Utile nella prevenzione, nel trattamento e nel rinforzo delle nostre difese immunitarie. Ancora sotto i riflettori dopo centinaia di anni è sempre la vitamina C. Conosciuta anche con il nome di acido ascorbico, è nota e apprezzata da tutti grazie alle sue notevoli proprietà antiossidanti che stimolano la risposta del sistema immunitario e fortificano il nostro organismo rendendolo meno esposto agli attacchi esterni e al rischio di tante patologie. Inoltre, se inserita all’interno di una dieta sana e bilanciata, questo prezioso nutriente, si dimostra un valido alleato anche nella lotta dei tumori, in combinazione con le terapie anticancro. «Si tratta di una vitamina idrosolubile, che quindi non può essere accumulata nel nostro organismo e deve essere assunta regolarmente attraverso l’alimentazione», spiega a Gazzetta Active la dottoressa Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e RAF First Clinic di Milano. Fondamentale per il nostro organismo, la vitamina C è un prezioso antiossidante, importante per il corretto funzionamento del sistema immunitario e la sintesi di collagene, il costituente primario di vasi sanguigni, pelle, muscoli, ossa, articolazioni e legamento parodontale che fornisce le proprietà elastiche e di resistenza a organi e tessuti e compone il 75% della nostra pelle e il 30% del nostro corpo. Inoltre, è una proteina essenziale per la riparazione e la guarigione di quasi tutti i tessuti del nostro corpo.
La vitamina C - emerge da un recente studio - oltre ad essere fondamentale per numerosi processi, supporta tante preziose funzioni per la nostra salute, prima tra tutte quella immunitaria. Stimola la produzione di interferoni (che proteggono le cellule dagli attacchi virali) e la proliferazione dei neutrofili, protegge le proteine dall'inattivazione da parte dei radicali liberi prodotti durante i processi ossidativi, facilita la biosintesi del collagene (interviene nella conversione della prolina in idrossiprolina e della lisina in idrossilisina, mantenendo il ferro in forma ridotta) e quella degli acidi biliari, favorisce la sintesi della noradrenalina (neurotrasmettitore) a partire dalla dopamina e del triptofano in serotonina, contribuisce all’assorbimento intestinale del ferro, alla sintesi della carnitina (essenziale per il trasferimento di acili nei mitocondri), al catabolismo della tirosina ad acidi fumarico e acetacetico attraverso la formazione dell'acido omogentisinico, riduce la tossicità di alcuni minerali, collabora alla stimolazione della reduttasi del citocromo (responsabile dell'idrossilazione del colesterolo, necessaria per la sintesi dell'acido colico), favorisce l'uso del selenio a dosi fisiologiche e l’attivazione dell'acido folico in acido tetraidrofolico, regola i livelli endogeni di istamina, inibendone il rilascio e favorendone la degradazione (a scopo terapeutico per prevenire lo shock anafilattico, la pre-eclampsia e la prematurità nelle complicanze della gravidanza), fiosintesi degli ormoni steroidei della corteccia surrenale, favorisce la riduzione degli ioni superossidi, dei radicali idrossilici, dell'acido ipocloroso e altri potenti ossidanti, proteggendo la struttura del DNA, delle proteine, delle membrane da eventuali danni oltre alla riduzione dell'efficienza dell'assorbimento intestinale del rame, esercita un’azione preventiva nella cancerogenesi da nitrosamine, inibendo la loro sintesi e, insieme alla vitamina E, protegge dal danno ossidativo provocato dai radicali liberi.
Le innumerevoli proprietà della vitamina C l’hanno inclusa nell’elenco dei medicinali essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e quindi, tra i più sicuri ed efficaci necessari al sistema sanitario. Valido supporto nella prevenzione delle malattie da raffreddamento da oltre trent’anni. La teoria della vitamina C contro il raffreddore diventa popolare intorno al 1970 quando, il premio Nobel Linus Pauling, pubblica un libro su come prevenire le malattie da raffreddamento con mega dosi di vitamina C. Secondo Pauling, un'assunzione giornaliera di vitamina C di 1.000 mg può ridurre l'incidenza del raffreddore di circa il 45% e l'assunzione giornaliera ottimale di vitamina C per vivere in modo sano e prevenire le malattie dovrebbe essere di almeno 2,3 g. Una sua carenza, per contro, si traduce in una condizione nota come lo scorbuto. tra i principali sintomi di una sua carenza, nota anche come scorbuto. Attenzione quindi ai segnali! Debolezza, confusione, esaurimento fisico, scarso appetito (che può trasformarsi anche in anoressia), letargia, irritabilità, dolori alle gambe, anemia, gengivite, ematomi, carie, dolori articolari, dolori muscolari, caduta dei capelli, pelle secca, sensibilità alla luce, sbalzi d’umore, depressione, sanguinamento gastrointestinale e mal di testa. Tra le sue numerose peculiarità riportate in numerose ricerche, ecco le principali:
VITAMINA C, un concentrato di proprietà e benefici
Tra le tante virtù, la sua capacità antiossidante permette un utilizzo della vitamina C anche nell’industria alimentare:
L’acido ascorbico viene spesso usato come additivo in alcune preparazioni alimentari per la sua azione conservante che deriva proprio dalle caratteristiche chimiche tipiche dell’antiossidante. - spiega la dottoressa Falcone - Questa caratteristica rende la vitamina C utile nel contrastare i radicali liberi in condizioni di stress ossidativo, combattendo l’infiammazione. Non si pensi, però, che un integratore di vitamina C possa avere poteri antitumorali: l’effetto antinfiammatorio è dato da una dieta ricca di fonti di questa vitamina. - precisa la nutrizionista - L’acido ascorbico partecipa a moltissime reazioni metaboliche, come la sintesi di aminoacidi, degli ormoni e del collagene, ed è utile anche al benessere della pelle. Grazie al suo potere antiossidante è di aiuto anche nella fase post allenamento, perché migliora il recupero a livello muscolare e cellulare, e può utile in periodi in cui ci sentiamo particolarmente affaticati. Ma, a differenza di quanto si pensa, non cura il raffreddore, anche se aumenta le barriere del sistema immunitario.
Una vitamina miracolosa e dove trovarla.
La troviamo prevalentemente in frutta e verdura, in particolare negli agrumi (limone, arance, mandarini…), nei kiwi, nelle fragole, nelle crucifere (cavolfiori, broccoli, broccoletti), peperoni, pomodori. - chiarisce la dottoressa Falcone - Attenzione però alla preparazione di questi alimenti: la vitamina C è termolabile, sensibile alle temperature, e se l’alimento viene cotto troppo si può disperdere. Lo stesso rischio si ritrova nel caso di cottura in eccessiva acqua. D’altro canto l’acido ascorbico è un facilitatore dell’assorbimento del ferro non eme, il ferro di origine vegetale contenuto nelle verdure. Se a questi abbiniamo una fonte di acido ascorbico il ferro non eme cambia struttura molecolare e viene assorbito più facilmente. Trattandosi di una vitamina idrosolubile ne abbiamo bisogno quotidianamente, quindi è bene che fonti di acido ascorbico siano presenti ogni giorno nell’alimentazione. Ma se seguiamo una dieta varia ed equilibrata, ricca di verdura e frutta di stagione, soddisfiamo il fabbisogno.
Gazzetta Active "Vitamina C, sistema immunitario e non solo: ecco a cosa serve e dove si trova"
Il Giornale "Agrumi: proprietà e benefici del frutto dell'inverno"
Frontiers in Immunology “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19”
PubMed "Evolution and the need for ascorbic acid"
MDPI "Vitamin C and Immune Function"
Il Messaggero "Covid, influenza stagionale e coronavirus: come distinguere i sintomi in caso di febbre"
Centro meteo italiano "Coronavirus, influenza stagionale e raffreddore, come distinguerli: i sintomi e le caratteristiche"
Corriere della Sera "Coronavirus, come incide la dieta sulla forza del sistema immunitario"
Salute Prevenzione "Nella guerra contro i Virus la scienza si dimentica sempre del Sistema Immunitario"
Philippe Lagarde "Libro d'oro della prevenzione: difendere la salute con gli integratori alimentari e le vitamine"
Sapere "I sistemi di difesa dell'organismo"
Corriere del Mezzogiorno "Coronavirus, come difendersi a tavola"
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Una relazione tanto discussa che torna, ancora una volta, alla ribalta della cronaca nazionale grazie a una nuova ricerca italiana sull’importanza dell’ormone del sole nella lotta contro l’infezione da SARS-CoV2. Dall’indagine emerge che una carenza di vitamina D sembrerebbe peggiorare le condizioni, con evidenti criticità riscontrate nel quadro clinico delle persone positive al Covid. I ricercatori parlano appunto di "stadi clinici di Covid-19 più compromessi" per indicare una malattia più grave. Allo studio retrospettivo, pubblicato sulla rivista Respiratory Research e condotto su 52 pazienti, hanno collaborato l'Istituto superiore di sanità (Iss), l'Ospedale Sant'Andrea di Roma e altre istituzioni. Tra ipovitaminosi D e malattie polmonari, l’ennesima indagine prova a far chiarezza una volta per tutta: «[...] I nostri dati sottolineano una relazione tra i livelli plasmatici di vitamina D e diversi marcatori di malattia». Nelle persone con deficit di vitamina D, la sua integrazione è in grado di ridurre il rischio di sviluppare diverse infezioni virali. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a maggior rischio di essere positivi per Covid-19 rispetto a quei soggetti con stato di vitamina D sufficiente. Oltre all’esposizione solare e all’alimentazione, la supplementazione di vitamina D è una raccomandazione utile e sicura.
Insomma, molto di più di un micronutriente coinvolto nel metabolismo del calcio e nella salute delle ossa. La vitamina D, per l'appunto, svolge tra le altre funzioni anche un ruolo importante come ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. Come noto, infatti, i suoi recettori sono ampiamente distribuiti in tutto l’organismo e in particolare nell’epitelio alveolare polmonare e nel sistema immunitario. Ad, oggi, l'infezione da Covid-19 è ancora una sfida aperta. Sebbene siano note le caratteristiche cliniche a seguito della penetrazione del virus nel nostro sistema respiratorio, la patobiologia ei meccanismi che regolano questo ingresso e le ragioni alla base dei molteplici quadri clinici osservati sono ancora sconosciuti. Sfortunatamente, circa il 20% dei pazienti contagiati ha sviluppato una grave malattia respiratoria caratterizzata da infiltrati polmonari diffusi e danno di pneumociti alveolari, che va incontro ad apoptosi e morte. Le unità alveolari coinvolte sembrano essere periferiche e subpleuriche. Inoltre, è stata segnalata un'iperinfiammazione virale. Una precoce sovrapproduzione di citochine pro-infiammatorie conosciuta come tempesta di citochine. Tra questi, i livelli plasmatici elevati sono stati inclusi come predittori di mortalità. L'insufficienza della vitamina D è stata correlata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all'esacerbazione nelle malattie polmonari ostruttive croniche e nell'asma.
Coinvolti nella ricerca 52 pazienti (con età media di 68 anni) affetti da coronavirus con coinvolgimento polmonare (27 femmine e 25 maschi, nella fascia di età compresa tra i 29 ed i 94 anni). I livelli di vitamina D erano carenti (con livelli plasmatici di vitamina D molto bassi, sotto 10 ng/ml) nell'80% dei pazienti, insufficienti nel 6,5% e normali nel 13,5%. Circa l'8% della coorte di studio aveva livelli plasmatici di vitamina D normali. I pazienti alle prese con la forma più aggressiva di coronavirus avevano livelli plasmatici di vitamina D più bassi indipendentemente dall'età. Francesco Facchiano, ricercatore dell'Iss, coautore dello studio spiega il metodo di ricerca utilizzato:
Nella nostra indagine abbiamo correlato, per la prima volta, i livelli plasmatici di vitamina D a quelli di diversi marcatori (di infiammazione, di danno cellulare e coagulazione) e ai risultati radiologici tramite Tac durante il ricovero per Covid-19 e abbiamo osservato che i pazienti con bassi livelli plasmatici di vitamina D, indipendentemente dall'età, mostravano una significativa compromissione di tali valori, vale a dire risposte infiammatorie alterate e un maggiore coinvolgimento polmonare. Anche se gli effetti in vivo della Vitamina D non sono completamente compresi – si legge nello studio – una serie di osservazioni sottolineano il ruolo della vitamina D nello sviluppo delle malattie polmonari. La sua insufficienza è stata collegata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all’esacerbazione delle malattie polmonari ostruttive croniche e dell’asma. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a un più alto rischio di essere positivi al Covid-19 rispetto ai soggetti con sufficiente stato di vitamina D.
Da un punto di vista generale, l'attività della vitamina D sembra essenziale anche nella regolazione dello stress ossidativo e dei meccanismi di sopravvivenza. L'epitelio alveolare respiratorio rappresenta la prima linea di difesa in grado di contrastare e impedire l'ingresso di agenti patogeni. Rappresenta uno dei principali attori dell'immunità innata compresi i macrofagi alveolari e le cellule dendritiche. Se stimolate, queste cellule attivano una varietà di vie di segnalazione intracellulare per specifiche difese antimicrobiche, rilascio di mediatori infiammatori e risposte immunitarie adattative. La risposta immunitaria adattativa è strettamente correlata alla capacità dei linfociti T e B di secernere citochine e produrre rispettivamente immunoglobuline. La carenza di vitamina D è stata correlata all'aumento dei livelli di IL-6, mentre l'integrazione di vitamina D riduce i livelli di IL-6 in diversi studi. L'IL-6 è elevata nei pazienti Covid-19 con malattia grave ed è anche considerata un marcatore prognostico rilevante. È stato riportato altresì che la mortalità è maggiore nei pazienti con livelli elevati di IL-6. Una conta dei neutrofili elevata predice l'infiammazione in corso e la diminuzione della conta dei linfociti è considerata un indicatore di prognosi infausta. Nel caso di infezione acuta, lo stato più grave è spesso associato a un aumento della conta delle cellule dei neutrofili e a una riduzione dei linfociti.
Colpo di scena della Regione Piemonte che introduce l’utilizzo della tanto discussa vitamina D nella lotta al coronavirus. Un trattamento alla portata di tutti. Nessun effetto collaterale, solo benefici per le persone positive al Covid. Una strategia anche in considerazione dell’attuale emergenza sanitaria con l’obiettivo di trattare la patologia fin dall’esordio ed evitare così eventuali complicanze. Una correlazione, quella tra Covid e vitamina D che torna ancora una volta alla ribalta, oggi a differenza di qualche mese fa, con 300 lavori all’attivo che ne dimostrano efficacia e benefici sia nella prevenzione sia nel trattamento.Hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata. Da qui il suggerimento di intervenire con la somministrazione della vitamina D, soprattutto nella popolazione anziana, che in Italia ne è in larga misura carente. Insomma, sullo stile di quanto fatto in precedenza dal premier inglese Boris Johnson. Una serie di evidenze scientifiche non trascurabili che portano a una raccomandazione da parte degli scienziati, soprattutto dove, in Paesi come in Italia, c'è un'alta prevalenza di ipovitaminosi D o carenza di vitamina D, i governi dovrebbero promuovere campagne di salute pubblica per aumentare il consumo di alimenti ricchi di vitamina D oltre a un'adeguata esposizione alla luce solare o, quando ciò non è possibile, la corretta integrazione. Lungo questa linea, la British Dietetic Association e il governo scozzese hanno pubblicato alcune raccomandazioni per garantire, soprattutto in un periodo critico come quello che tutti stiamo vivendo, livelli normali di vitamina D nella popolazione. Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono a nostro giudizio interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana, che in Italia è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.).
Un improvviso cambio di rotta da cui sta prendendo piede anche uno studio importante. Come spiega l’Accademia di Medicina nel suo documento, in un’indagine osservazionale (Jain A et al.) di 6 settimane su 154 pazienti, la prevalenza di soggetti con scarsa vitamina D è risultata pari al 31,86% negli asintomatici e al 96,82% in quelli che sono stati poi ricoverati in terapia intensiva. In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione fra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente alla dose di 50mila UI al mese, oppure di 80mila-100mila UI per 2-3 mesi, oppure ancora di 80mila UI al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente minori (p=0.004) rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). Dato poi confermato da altri lavori in termini di maggiore velocità di clearance virale e guarigione per coloro che hanno livelli ematici più elevati di vitamina D. E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo. Così l’assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi, annuncia l’aggiornamento appena effettuato del protocollo per la presa in carico dei pazienti Covid a domicilio da parte delle Unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta:
Diamo nuovi strumenti ai medici di famiglia e alle Unità speciali di continuità assistenziali (USCA) per combattere il Covid19 direttamente a casa dei pazienti. Con l’aggiornamento del protocollo delle cure domiciliari, introduciamo l’utilizzo dell’idrossiclorochina nella fase precoce della malattia, insieme a farmaci antinfiammatori non steroidei e vitamina D. In più, prevediamo la possibilità di attivare 'ambulatori USCA' per gli accertamenti diagnostici altrimenti non eseguibili o difficilmente eseguibili al domicilio, ottimizzando le risorse professionali e materiali disponibili. Siamo convinti, perché lo abbiamo riscontrato sul campo fin dalla prima ondata - osserva Icardi - che in molti casi il virus si possa combattere molto efficacemente curando i pazienti a casa. Non vuol dire limitarsi a prescrivere paracetamolo per telefono e restare in vigile attesa, ma prendere in carico i pazienti Covid a domicilio da parte delle unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta. Siamo stati tra i primi, l’anno scorso, a siglare un protocollo condiviso con ASL, prefetture e organizzazioni di categoria dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta. L’obiettivo è evitare che i ricoveri, così come le degenze prolungate oltre l’effettiva necessità clinica, delle persone che possono essere curate a domicilio, determinino una consistente occupazione di posti letto e l’impossibilità di erogare assistenza a chi versa in condizioni più gravi e con altre patologie di maggiore complessità.
Con l’intento di fornire contributo e supporto alle istituzioni per contrastare la pandemia, un altro lavoro scientifico, sull’utilizzo della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del Covid-19 si era fatto strada nel mare magnum di indagini che sono state condotte negli ultimi mesi. Il gruppo di lavoro, istituito dall’Accademia di Medicina di Torino coordinato dal suo Presidente, Giancarlo Isaia, professore di Geriatria e da Antonio D’Avolio, professore di Farmacologia all’Università di Torino, e composto da 61 Medici di molte città italiane. Un documento che mostra le più recenti e convincenti evidenze scientifiche sugli effetti positivi della vitamina D nel contrasto all’infezione da SARS-CoV2. Nella ricerca di fattori che influenzano l'incidenza e la letalità dell'attuale pandemia, recenti studi di associazione hanno esplorato il possibile ruolo della carenza di vitamina D. Nel complesso, questi studi, nella maggior parte dei casi basati su analisi trasversali, non potevano ancora fornire una dimostrazione convincente di una relazione causa-effetto. In questo editoriale, gli autori descrivono le prove scientifiche alla base di un possibile ruolo della vitamina D nella prevenzione e nello sviluppo della pandemia, considerando il suo ruolo immunomodulatore e gli effetti antivirali.
In un precedente numero di Aging Clinical and Experimental Research, Ilie e colleghi riportano una correlazione in 20 paesi europei tra i livelli di vitamina D e l'incidenza di Covid-19 e i tassi di mortalità. Questo lavoro si aggiunge a un crescente corpo di prove circostanziali che collegano Covid-19 e lo stato della vitamina D, come ben riassunto da Fiona Mitchell in un recente editoriale. Gli studi di associazione rientrano in due categorie principali: confronto della variazione dei livelli di vitamina D stimati o storici e dell'incidenza o dei tassi di mortalità del Covid-19 tra i paesi. L'analisi, inoltre, può essere mondiale o all'interno di continenti o anche tra emisferi, considerando la latitudine e lo stato stagionale associato come indicatori indiretti dello stato della vitamina D; studi caso-controllo retrospettivi che confrontano i livelli individuali di vitamina D (effettivi o stimati) con l'incidenza di Covid-19, sia per la popolazione generale che per minoranze specifiche. In questo lavoro, D'Avolio e colleghi hanno trovato un livello di 25 (OH) D notevolmente inferiore nei pazienti Covid-19 rispetto ad altri pazienti ospedalizzati a Bellinzona, in Svizzera. Altro lavoro interessante, quello condotto da Meltzer e colleghi che hanno stimato la probabilità di carenza di vitamina D sulla base di misurazioni 25 (OH) D precedenti (fino a 1 anno) per 499 pazienti testati per Covid-19 e hanno scoperto che coloro che erano positivi aveva una probabilità significativamente maggiore di carenza vitaminica. L’indagine mirava a valutare, in questo caso, se una maggiore incidenza di Covid-19 nelle minoranze non bianche nel Regno Unito potesse essere associata a carenza di vitamina D. Inoltre, una metanalisi che ha coinvolto 25 studi interventistici randomizzati e più di 11.000 pazienti hanno dimostrato che l'integrazione di vitamina D riduce di 2/3 l'incidenza di infezioni respiratorie acute.
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo.
Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi.
Tuttavia, esistono anche prove precliniche di un effetto protettivo della vitamina D sul danno polmonare. Esistono, quindi, prove consolidate sul ruolo immunomodulatore della vitamina D, sulle sue proprietà antivirali e su un possibile ruolo nella mitigazione della polmonite e dell'iperinfiammazione. Varie recensioni ha esaminato la relazione tra vitamina D e sistema immunitario, evidenziando un ruolo protettivo per molte malattie infettive, alla base dell'associazione tra ipovitaminosi D e molte infezioni del tratto respiratorio, enterico e urinario, vaginosi, sepsi, sindrome influenzale, dengue ed epatite. Queste proprietà della vitamina D sono state attribuite alla sua capacità di modulare l'espressione genica attivando il recettore della vitamina D in molte cellule bersaglio, comprese le cellule immunitarie, e promuovendo l'espressione di peptidi antimicrobici come catelicidine e beta-defensine, anch'esse dotate di antivirali e attività immunomodulatorie. Inoltre, la vitamina D supporta l'immunità innata, mantiene l'integrità delle giunzioni strette e della barriera polmonare, fornisce attività immunoregolatrice e modula il sistema renina-angiotensina, tutti fattori di potenziale rilevanza per la polmonite acuta e l'iperinfiammazione osservati in pazienti con Covid-19.
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L’inconfondibile profumo e il sapore aspro del frutto d’inverno: gli agrumi. Utili alla nostra salute. Dalla prevenzione alla cura di influenze, raffreddori e malanni stagionali passando per i tanti benefici per l’organismo. Arancia e limone, ma anche lime, cedro, mandarino e pompelmo. Tra le caratteristiche fondamentali degli agrumi quella di dare energia, regolare il metabolismo, svolgere un’azione diuretica e garantire la regolarità intestinale. Questi importanti frutti sono ricchi di elementi (sali minerali, magnesio, ferro oltre alle vitamine A, B, e C) necessari al buon funzionamento del nostro organismo. Arancia, mandarino o limone? Immancabile sui banchi dei reparti di ortofrutta, l’arancia è uno degli agrumi più consumati in Italia. Dalla nota azione benefica per il cuore, per la circolazione e per la difesa del corpo dagli agenti chimici, fisici e ambientali, soprattutto durante la stagione invernale, rafforzando le nostre difese immunitarie contro virus e batteri. Dona, inoltre, energia favorendo un effetto antistress, aiuta la digestione e depura l’organismo. Energetico e dal dolce sapore, per le sue caratteristiche energizzanti, il mandarino è fortemente consigliato ad adulti e bambini che svolgono attività fisica. Al suo interno, la presenza di fibre facilita la regolarità intestinale. Noto soprattutto per l’elevata quantità di vitamina C, questo frutto è ideale per rafforzare le nostre difese immunitarie e nel contrasto alle influenze stagionali. Ottimi alleati per combattere le infiammazioni alla gola, raffreddori e influenze grazie alle loro proprietà antibatteriche. Ultimi, ma non per importanza, i limoni. Questi agrumi donano un senso di sollievo ai piccoli fastidi quotidiani, inoltre, grazie alla presenza di presenza di antiossidanti, il limone è considerato l’anticolesterolo per eccellenza.
Regina indiscussa dell’inverno, la vitamina C con il suo prodigioso effetto antinfiammatorio. Preziosa ancor più nella stagione fredda e soprattutto alle prese con questa pandemia e nella lotta al Covid, come condermano diverse ricerche uscite negli ultimi mesi, dovrebbe diventare un vero e proprio must. Insomma, sarebbe buona abitudine mantenere uno stile di vita capace di rinforzare le difese contro virus, batteri e malanni stagionali. Difatti, è proprio nel periodo che va dall’autunno alla primavera che vede le nostre difese immunitarie sottoposte a un maggiore stress, sia a causa del calo delle temperature che della minore esposizione ai raggi solari e anche del tempo trascorso, in prevalenza in luoghi chiusi. L’ascorbato, assunto sotto forma di alimentazione o integrazione, rappresenta un ottimo aiuto per il sistema immunitario, rinforzandolo. Le innumerevoli proprietà della vitamina C l’hanno inclusa nell’elenco dei medicinali essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e quindi, tra i più sicuri ed efficaci necessari al sistema sanitario. Valido supporto nella prevenzione delle malattie da raffreddamento da oltre trent’anni. La teoria della vitamina C contro il raffreddore diventa popolare intorno al 1970 quando, il premio Nobel Linus Pauling, pubblica un libro su come prevenire le malattie da raffreddamento con mega dosi di vitamina C. Secondo Pauling, un'assunzione giornaliera di vitamina C di 1.000 mg può ridurre l'incidenza del raffreddore di circa il 45% e l'assunzione giornaliera ottimale di vitamina C per vivere in modo sano e prevenire le malattie dovrebbe essere di almeno 2,3 g. Una sua carenza, per contro, si traduce in una condizione nota come lo scorbuto. Inoltre, diverse evidenze scientifiche indicano che la vitamina C si concentri nelle cellule del sistema immunitario e venga consumata piuttosto rapidamente durante un’infezione ovvero sintomi più lievi e durata inferiore.
Ad oggi, diversi studi hanno dimostrato che gli integratori di vitamina C assunti in chiave preventiva possono ridurre la durata del raffreddore. Questa metanalisi ha raccolto i dati di 43 studi sulla vitamina C e ha raggiunto le seguenti conclusioni sull’integrazione preventiva: la vitamina C dimezza il rischio di raffreddore nelle persone esposte a un intenso stress fisico (ad esempio corridori di maratona, sciatori o soldati in condizioni subartiche) e riduce la durata del raffreddore dell’8% negli adulti e del 14-18% nei bambini. Diminuisce anche la gravità del raffreddore in tutte le popolazioni, soprattutto nei bambini. Essenziale per la risposta antivirale nella fase iniziale dell’infezione influenzale, inoltre, una sua carenza sembra peggiorare il danno polmonare. E ancora uno studio su oltre 1.500 donne ha associato un’elevata assunzione di vitamina C a una ridotta incidenza di infezioni del tratto respiratorio superiore. A queste, si aggiunge, un’importante meta-analisi che ha indagato gli effetti della supplementazione di vitamina C sulla prevenzione (2.335 pazienti) e sul trattamento (197 pazienti) della polmonite. Secondo questo studio, l’integrazione preventiva può ridurre l’incidenza della polmonite dell’80%. Quando si parla di trattamento poi, la vitamina C può ridurre la durata, la gravità e la mortalità per polmonite. Infatti, in uno studio clinico su 30 pazienti con polmonite grave, la supplementazione di vitamina C ha ridotto: lo stress ossidativo, il danno al DNA e l’infiammazione (TNF -a e IL-6).
Nella figura il meccanismo schematico in cui una IA di vitamina C potrebbe modulare funzioni specifiche dei neutrofili (ROS e TNFα, mediata da IL-1β), inibendo le vie coinvolte nella formazione della trappola extracellulare dei neutrofili (NETosis) e riducendo la produzione incontrollabile di citochine infiammatorie nell'alveolare spazio. Potenziali effetti sulla riduzione della produzione di citochine sono stati ipotizzati anche nei linfociti e nei macrofagi. ROS, specie reattive dell'ossigeno; NFkB, fattore di trascrizione nucleare kappa B; ┴, stimolo di inibizione; freccia tratteggiata, effetto o produzione ridotti.
Noto che una carenza di vitamina C dovuta a un basso apporto nutritivo porti a una maggiore suscettibilità alle infezioni. Inoltre, come tutti sanno, un apporto maggiore di vitamina C, per contro, potenzia il sistema immunitario e l'uso degli integratori è considerato un rimedio, soprattutto invernale, per prevenire le malattie infettive. Tuttavia, è anche vero che una dieta equilibrata capace di soddisfare l'assunzione giornaliera di vitamina C influisce positivamente sul sistema immunitario e contribuisce, di conseguenza, alla riduzione della suscettibilità alle infezioni. Il comune raffreddore è una delle infezioni virali delle alte vie respiratorie (URTI) più diffuse, caratterizzata da tosse, stanchezza, febbre, mal di gola e dolori muscolari, che persistono per un periodo che va da pochi giorni a non più di 3 settimane. Con "raffreddore comune" si fa generalmente riferimento a una sindrome aspecifica causata da diversi virus, sebbene il rinovirus sia il patogeno coinvolto più frequentemente, essendo presente nel 30-50% dei malati. Infatti, un'integrazione di vitamina C potrebbe modulare l'infiammazione, con potenziali effetti positivi sulla risposta immunitaria alle infezioni. Infatti, la letteratura mostra che alte dosi di vitamina C per infusione endovenosa possono ridurre la produzione di citochine infiammatorie.
Senza trascurare poi, i suoi punti forti:
Dall’alterazione del collagene allo scorbuto, la malattia del passato si riaffaccia nel mondo occidentale. Prende il nome di scorbuto la patologia che deriva dalla carenza di vitamina C. Situazione in cui il collagene, presente nell’organismo, diviene instabile e poco efficiente minando la funzionalità di altri enzimi presenti nel nostro corpo. Macchie cutanee e sanguinamento, gengive "spugnose", crescita dei capelli "a cavatappi" e scarsa guarigione delle ferite tra i principali sintomi di questo deficit vitaminico. Ma anche lesioni cutanee, soprattutto sulle cosce e gambe, pallore, depressione e sporadica attività motoria. Nello scorbuto allo stato avanzato si manifestano poi anche ferite suppuranti, caduta di denti e diverse anomalie ossee. Tra i principali sintomi debolezza, confusione, esaurimento fisico, scarso appetito (che può trasformarsi anche in anoressia), letargia, irritabilità, dolori alle gambe, anemia, gengivite, ematomi, carie, dolori articolari, dolori muscolari, caduta dei capelli, pelle secca, sensibilità alla luce, sbalzi d’umore, depressione, sanguinamento gastrointestinale e mal di testa. Tuttavia è possibile trattarlo attraverso l’integrazione di acido ascorbico. Oltre all’integrazione di vitamina C, è importante modificare anche lo stile di vita necessario a garantire un’assunzione adeguata della vitamina.
VITAMINA C, un concentrato di proprietà e benenfici
Definito da Ippocrate come “ileo ematite”, lo scorbuto è conosciuto anche come "il morbo dei marinai" o "la malattia dei pirati”. Premesso che le riserve di vitamina C del corpo umano sono limitate e si esauriscono entro 1–3 mesi, lo scorbuto era comune tra gli equipaggi impegnati nelle lunghe traversate oceaniche, e quindi, non avevano scorte alimentari fresche e sufficienti. Verso la fine del 1700, la marina britannica sapeva che lo scorbuto poteva essere curato consumando arance e limoni, oggi invece, sappiamo che lo scorbuto può essere evitato assumendo quotidianamente vitamina C. Ampiamente dimostrata, inoltre, l’associazione tra la carenza di vitamina C e le aree a basso status socioeconomico. Tra gli altri fattori di rischio di questa carenza possiamo includere alcolismo, dieta squilibrata, fumo, disturbi alimentari, diabete del tipo 1, disturbi del tratto gastrointestinale (come ad esempio il morbo di Crohn, la celiachia), obesità, febbre alta, infiammazioni e invecchiamento.
Più volte ci siamo soffermati sugli aspetti deficitari della nostra alimentazione e sull'importanza di integrare la propria dieta con degli specifici micronutrienti. Insomma, lo scorbuto è una malattia dovuta a carenza alimentare o a insufficiente assorbimento intestinale di vitamina C, caratterizzata da un estremo deperimento dell'organismo, oltre che da manifestazioni emorragico-ulcerose della cute, delle mucose e degli organi interni. E anche se in passato colpiva i marinai o comunque le categorie più disagiate, oggi torna nei Paesi ricchi a causa della cattiva alimentazione. Già qualche anno fa un gruppo di ricercatori australiani ha raccontato su Diabetic Medicine di 11 casi di scorbuto, diagnosticati in pazienti diabetici la cui dieta era particolarmente povera di frutta e verdura. Infatti pochi sanno che tra le altre cause compare anche un’alimentazione squilibrata poiché una carenza di vitamina C superiore ai tre mesi porta a questa malattia. Inoltre, lo scorbuto può portare persino alla morte: il nostro corpo, alle prese con una grave carenza, non riesce né a produrre né a stoccare l’acido ascorbico e la mancanza di questa vitamina può portare a gravi conseguenze.
Necessaria per numerosi processi di idrossilazione catalizzati da alcune ossigenasi (enzimi), la vitamina C supporta tantissime funzioni importanti per la nostra salute:
La gazzetta del Mezzogiorno "Lo scorbuto, malattia del passato, nota come morbo dei marinai"
Affari Italiani "Scorbuto, allarme. Poca vitamina C e ci si ammala di scorbuto. Rischio morte"
La Stampa "Così lo “scorbuto” dei marinai del ’500 venne sconfitto con gli agrumi"
Vitamina C nel trattamento dell'acne: riduce cicatrici, infiammazione e iperpigmentazione
Vitamina C contro l'invecchiamento, muscoli in forma anche dopo i 50
La vitamina della bellezza: tanti benefici per una pelle sana e radiosa
La risposta alla pandemia? Confermato e poi contestato il ruolo dell’acido ascorbico nel trattamento del coronavirus. Nel corso degli ultimi mesi, sono state avanzate diverse tesi su questo prezioso nutriente, somministrato ad alte dosi ai pazienti ospedalizzati. Sull’efficacia della vitamina C nel contrasto al Covid provano a far luce un gruppo di ricercatori dell’Università di Augusta. Attualmente, sono in corso almeno una trentina di studi clinici attraverso cui gli esperti stanno valutando gli effetti della somministrazione di vitamina C – anche in combinazione con altri farmaci – nel trattamento dell’infezione da Sars-Cov-2. E nonostante le ricerche non abbiano ancora fornito risultati necessari a ribaltare tutte le tesi contrarie, le prime osservazioni suggerirebbero un fondamentale aiuto, soprattutto in alcuni pazienti. Secondo gli studiosi che esplorano da tempo gli effetti della vitamina C sull’invecchiamento questi, potrebbero dipendere da diversi fattori, in particolare dai livelli di trasportatori di vitamina C presenti in ciascuno di noi. «Esistono diverse variabili, sulle quali ci sono poche informazioni e da cui può dipendere l’efficacia della somministrazione di vitamina. Queste comprendono l’età, la razza, il sesso, e soprattutto i livelli di espressione dei trasportatori di vitamina C e il polimorfismo» spiegano in uno studio pubblicato sulla rivista Aging and Disease .
In tal senso, gli studiosi raccomandano di non trascurare questi importanti fattori per valutare l’effettiva efficacia nel trattamento di Covid-19 per esaminare il beneficio della vitamina C anche in altre condizioni. «Con l’aumento esponenziale del tasso di infezione da coronavirus e della mortalità – precisano nello studio -, ricercatori, medici e agenzie governative di tutto il mondo si stanno concentrando sul riposizionamento di farmaci con profili di sicurezza noti, tra cui la vitamina C. Il trattamento con vitamina C è riconosciuto per il suo effetto benefico nel prevenire/neutralizzare la risposta infiammatoria, ridurre lo stress ossidativo e stimolare gli interferoni e altre citochine antivirali», peculiarità che rendono la vitamina C importante nella terapia di contrasto al virus. Inoltre, «sarà interessante comprendere se la vitamina C potrà essere specificamente efficace nel trattamento di pazienti Covid-19 che sono più anziani, hanno malattie pregresse o appartengono a popolazioni afroamericane. C’è inoltre un’urgente necessità di indagare sulla relazione diretta tra i livelli sierici/plasmatici di vitamina C nel tasso di infezione da COVID-19 e nella gravità della malattia» concludono i ricercatori.
In tal senso appare evidente il ruolo benefico della vitamina C come antiossidante e antinfiammatorio che ha portato l’intera comunità scientifica a indagare sull’efficacia e sugli effetti di alte dosi di vitamina C nel trattamento e nella riduzione delle complicanze relative a una serie di infezioni virali, tra cui quella provocata dal nuovo coronavirus Sars-Cov-2. La sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus 2 (SARS-CoV-2) si è diffusa in tutto il mondo a un ritmo esponenziale, portando a milioni di persone che sviluppano la malattia associata chiamata COVID-19. A causa della natura nuova e dell’assenza di immunità negli esseri umani, c'è stato uno sforzo globale collettivo per trovare trattamenti efficaci contro il virus. Questo ha portato la comunità scientifica a riutilizzare farmaci approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) con profili di sicurezza noti. Tra i molti farmaci possibili, la vitamina C è stata nella rosa dei possibili interventi a causa del suo ruolo benefico come potenziatore immunitario e delle sue intrinseche proprietà antiossidanti. Al centro della discussione: la funzione intracellulare e le proprietà intrinseche della vitamina C. Questa ricerca fornisce, inoltre, una revisione completa dell’indagine pubblicata relativa alle differenze nell'espressione del trasportatore della vitamina C in diverse condizioni fisiopatologiche. Infine, è stata esaminata l'efficacia della somministrazione di vitamina C nel trattamento delle infezioni virali e delle condizioni potenzialmente letali. Nel complesso, lo studia mira a presentare le informazioni esistenti circa la misura in cui la vitamina C potrebbe essere un trattamento efficace per COVID-19 e le relative spiegazioni sul motivo per cui potrebbe funzionare, ancor più in alcuni individui.
La pandemia globale del coronavirus in corso, nota anche come COVID-19, ha avuto un impatto significativo sulla salute mondiale. La terapia endovenosa ad alte dosi di vitamina C è nella rosa dei potenziali regimi farmacologici testati per l'efficacia nel trattamento del COVID-19. Diversi ricercatori e medici hanno ipotizzato che l'uso di acido ascorbico potrebbe ridurre l'infezione da SARS-CoV-2 attraverso la capacità degli integratori di aumentare la risposta immunitaria insieme alla diminuzione della gravità della risposta infiammatoria mediata dal virus. Numerosi studi supportano la scoperta che una dose elevata di vitamina aiuta a rafforzare il sistema immunitario.
La vitamina C, nota anche come acido ascorbico, è una delle vitamine essenziali necessarie alle specie di mammiferi per sopravvivere e prosperare. Attraverso l'evoluzione, la specie homo sapiens ha perso la capacità di sintetizzare la vitamina C a causa dell'inattivazione del gene della gluconolattone ossidasi. Tuttavia, frutta e verdura come fragole, arance e broccoli sono ricchi di vitamina C e prontamente disponibili per il consumo umano. Bassi livelli di vitamina C potrebbero causare una miriade di problemi, con carenze prolungate portando persino allo scorbuto, una malattia spesso associata ai marinai nell'800 (a causa della mancanza di frutta e verdura fresca) in mare. Sintomi come gengive sanguinanti, cicatrizzazione anomala delle ferite e febbre sono comunemente associati alla malattia e possono essere attribuiti all'incapacità di alcuni enzimi di funzionare correttamente, specialmente quelli coinvolti nella sintesi del collagene. Inoltre, è stato notato da studi precedenti che i pazienti affetti da varie condizioni fisiopatologiche quali diabete, COPD, ipertensione cronica e virale sepsi indotta, sono diminuiti i livelli di siero e plasma vitamina C. Ciò ha portato a studi sull'uso della somministrazione endovenosa di vitamina C per il trattamento di pazienti affetti da malattie gravi e croniche nonché infezioni virali come COVID-19.
Aging & Disease "Low level of Vitamin C and dysregulation of Vitamin C transporter might be involved in the severity of COVID-19 Infection"
Fanpage "L’efficacia della vitamina C come cura per Covid dipende da più fattori"
Sanders JM, Monogue ML, Jodlowski TZ, Cutrell JB (2020) "Pharmacologic treatments for coronavirus disease 2019 (COVID-19): a review"
Shanmugaraj B, Siriwattananon K, Wangkanont K, Phoolcharoen W (2020) "Perspectives on monoclonal antibody therapy as potential therapeutic intervention for Coronavirus disease-19 (COVID-19)"
Qin X, Liu J, Du Y, Li Y, Zheng L, Chen G, et al. (2019) "Different doses of vitamin C supplementation enhances the Th1 immune response to early Plasmodium yoelii 17XL infection in BALB/c mice"
Bozonet SM, Carr AC, Pullar JM, Vissers M (2015) "Enhanced human neutrophil vitamin C status, chemotaxis and oxidant generation following dietary supplementation with vitamin C-rich SunGold kiwifruit"
Oltre 463 milioni di persone (1 su 11) convivono con il diabete. 3 milioni solo in Italia, ma un milione e mezzo non sa di averlo! E le previsioni non sono per niente ottimistiche. Si prevedono, infatti, che il numero di persone affette da questa patologia aumenterà, entro i prossimi dieci anni, a 578 milioni. Ancora oggi, un adulto su due rimane non diagnosticato. Nel 2019, il diabete è stato la causa di 4,2 milioni di morti. Senza tralasciare le conseguenze. Infatti, le lesioni cutanee, portatrici di infezioni anche croniche, possono aggravarsi fino a determinare l'amputazione dell'arto (1 su 5 in Italia). «È importante il ruolo di questa giornata nella sensibilizzazione sul diabete, una patologia in crescita che richiede nuovi approcci terapeutici» commenta all’Adnkronos Giuseppe Seghi Recli, Presidente di Molteni. Inoltre «La comparsa di ulcere da piede diabetico è spia di una condizione clinica particolarmente grave che richiede un inquadramento completo e la definizione di uno specifico percorso di cura» aggiunge nell'intervista all'Adskronos il professor Luigi Uccioli, Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma.
DIABETE: lo stile di vita sostiene prevenzione e remissione
Al via con il World Diabetes Day, #WDD2020! La Giornata mondiale del diabete (WDD) viene istituita nel 1991 dalla federazione internazionale del diabete con lo scopo (IDF) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in risposta alla crescente sfida alla salute posta dal diabete. La Giornata Mondiale del Diabete è diventata la Giornata ufficiale delle nazioni Unite con l’approvazione della risoluzione 61/225. Si celebra il 14 novembre di ogni anno, in occasione del compleanno di Sir Frederick Banting che ha scoperto l’insulina insieme a Charles Best nel 1922. La campagna di sensibilizzazione richiama l’attenzione su questioni di fondamentale importanza. Il diabete di tipo 2 è la forma più diffusa, riguarda oltre il 90% dei casi, ed è una patologia cronica caratterizzata da un eccesso di zuccheri nel sangue, iperglicemia, che può causare frequenti complicanze cardiovascolari e renali, precoci e spesso fatali, come lo scompenso cardiaco e l’insufficienza renale. «Il progetto nasce proprio dall’esigenza di rispondere ad un bisogno importante di conoscenza di molti soggetti affetti da diabete di tipo 2 – spiega all’Adnkronos Agostino Consoli, presidente eletto della Sid –. Molte persone con diabete non sono fino in fondo consapevoli della gravità di questa malattia». La campagna di comunicazione si fa portavoce di un messaggio educativo estremamente importante: «il diabete – precisa Consoli - è una malattia cronica ed è fondamentale che i pazienti si prendano a cuore la propria patologia».
Parola chiave: prevenzione! Una soluzione che si è trasformata in un problema in era Covid, con gli ospedali saturi e le terapie intensive al collasso. Da qui l’importanza di prevenire questa patologia per evitare le eventuali complicanze. Oggi più che mai, soprattutto in piena emergenza sanitaria. Infatti, lo scompenso cardiaco è una delle complicanze più precoci nei soggetti con diabete di tipo 2 e tra le prime cause di ospedalizzazione nel nostro Paese, associata purtroppo a un elevato rischio di mortalità a 5 anni dalla diagnosi. Inoltre, circa il 40% dei pazienti diabetici sviluppa nefropatia che quando si manifesta è spesso in una fase troppo avanzata per poter intervenire. «Queste complicanze impattano notevolmente sulla qualità di vita dei pazienti – evidenzia in un’intervista all’Aknkronos Paolo Di Bartolo, presidente Amd – e la prevenzione rappresenta uno strumento fondamentale per contrastarle. La sfida di oggi, infatti, non è la cura della malattia conclamata, ma una sua corretta gestione per prevenire tempestivamente le complicanze nei numerosissimi pazienti che presentano almeno un fattore di rischio, come l’ipertensione, l’abitudine al fumo o dislipidemia. Il controllo medico diventa quindi parte integrante della terapia e la collaborazione dei pazienti diabetici nel richiedere una consulenza costante risulta importantissima».
DIABETE: ecco come mangiare per stare meglio
Un tema delicato quello del diabete, ma soprattutto una malattia da non trascurare. «Il diabete di tipo 2 è una patologia metabolica caratterizzata da glicemia elevata in un contesto di insulino-resistenza ed insulino-deficienza relativa e rappresenta circa il 90% dei casi di diabete. Questo viene inizialmente trattato con l’aumento dell’esercizio fisico e con modifiche nella dieta» spiega Christian Orlando, biologo e nutrizionista. «Fino a un secolo fa – continua l’esperto - l’alimentazione con un ridotto contenuto di carboidrati (massimo 20/25 gr al giorno) rappresentava uno standard per la cura del diabete tipo 1 e tipo 2, in quanto la restrizione di carboidrati produce spesso un rapido e notevole miglioramento clinico. Poi, la scoperta dell’insulina nel 1920 ha permesso il controllo dell’iperglicemia in persone diabetiche consentendo ai pazienti di mangiare una quantità maggiore di carboidrati senza però considerare gli effetti collaterali dovuti alla notevole quantità di insulina somministrata». Il biologo cita anche una relazione dell’ADA ( American Diabetes Association) del 2019, secondo cui «le diete a basso contenuto di carboidrati hanno dimostrato un miglioramento della glicata e la minor quantità di antidiabetici orali somministrati nei pazienti con diabete tipo 2». «Nelle persone con diabete di tipo 2 all’esordio, alcuni studi hanno inoltre dimostrato che tale alimentazione porta ad un miglioramento della funzione delle cellule beta del pancreas secernenti insulina e una riduzione dell’insulino-resistenza con miglioramento del compenso glicemico» conclude Orlando.
Il 43,9% dei soggetti deceduti per Covid avevano il diabete. Il report del 20 marzo, dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui pazienti deceduti in Italia, conferma la probabilità di maggiore mortalità in presenza di diabete. Mentre, il 48,6% presentava 3 o più patologie croniche. Secondo il Current Diabetes Review «il diabete di tipo 2 può «aumentare l’incidenza delle malattie infettive e delle comorbilità correlate». E anche se questi non hanno maggiore probabilità di essere contagiati, rischiano sicuramente più degli altri di sviluppare gravi complicanze, una volta contratto il virus. È la conclusione di un équipe di ricercatori dell’Università di Padova. La ricerca, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, dimostra come i pazienti diabetici, soggetti a un aggravamento del quadro clinico in presenza di qualsiasi malattia acuta, nel caso di infezione da SARS-CoV2 hanno un rischio di prognosi peggiore della patologia, rispetto a quella degli altri soggetti infetti non diabetici. L’interconnessione tra Covid e diabete è dovuto all’enzima attraverso cui il virus entra nelle cellule delle vie respiratorie è lo stesso espresso nelle cellule del pancreas e del fegato, e il paziente portatore di entrambe le malattie presenta indici coagulativi, marcatori infiammatori e proteina C reattiva con più alti livelli nel sangue rispetto ai soggetti positivi al Coronavirus, ma senza diabete. Inoltre, le “abituali” complicanze causate dal diabete come neuropatie, retinopatie, arteriopatie e nefropatie, oltre a una maggiore predisposizione a contrarre patologie batteriche e virali durante la infezione Covid 19 si riacutizzano, peggiorando la già critica situazione clinica.
«Alti livelli di zucchero nel sangue per un lungo periodo di tempo possono effettivamente deprimere il sistema immunitario, quindi non risponde più rapidamente al virus quando entra nel corpo e ha più tempo per replicarsi, scendere ai polmoni e causare i problemi legati alla respirazione che possono portare alla necessità di cure ospedaliere» spiega Amir Khan, affermato specialista ed esperto nella patologia del diabete di tipo 1 e 2. L’esperto fa poi riferimento ai dati diffusi dalla Cina che mostrano, nei primi 44.672 casi positivi, le persone che avevano malattie cardiovascolari, precedenti infarti o ictus, avevano un tasso di mortalità più alto (10,5%). «In Cina, dove la maggior parte dei casi si è verificata finora, le persone con diabete avevano tassi molto più alti di complicanze gravi e morte rispetto alle persone senza diabete» spiega l’American Diabetes Association. Tuttavia, a peggiorare il quadro clinico, come evidenziato nel report dell’ISS, contribuiscono anche alcuni farmaci ad uso comune. Gli Ace inibitori, molecole con effetti antipertensivi che agiscono sulla funzionalità cardiaca ostacolando l'insorgenza della insufficienza renale, influenzano negativamente l’evoluzione dell’infezione.
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La vitamina C (o acido ascorbico) svolge un ruolo importante nel normale funzionamento del sistema immunitario e il suo utilizzo nella prevenzione e nella cura delle infezioni ha attirato l'interesse di medici e ricercatori per quasi un secolo. Numerosi sono gli articoli pubblicati sull’argomento, sebbene sia noto che una carenza di vitamina C dovuta a un basso apporto nutritivo porti a una maggiore suscettibilità alle infezioni. Inoltre, come tutti sanno, un apporto maggiore di vitamina C, per contro, potenzia il sistema immunitario e l'uso degli integratori è considerato un rimedio, soprattutto invernale, per prevenire le malattie infettive. Oltre all’influenza c’è di più. Difatti, a peggiorare lo scenario, anche la rapida diffusione mondiale della SARS-CoV2 e la conseguente emergenza pandemica riconosciuta dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) richiede urgentemente uno sforzo globale per identificare tutto ciò che può curare i sintomi e ridurre i decessi. 46.509.232 milioni di contagiati e oltre 1.200.361 di morti nel mondo, numero in costante aumento. E anche se attualmente, nessuna terapia antivirale specifica è stata approvata per la cura del Covid-19, è importante proteggersi e prevenire questo virus con tutti i mezzi a disposizione.
Tuttavia, è anche vero che una dieta equilibrata capace di soddisfare l'assunzione giornaliera di vitamina C influisce positivamente sul sistema immunitario e contribuisce, di conseguenza, alla riduzione della suscettibilità alle infezioni. Lo studio “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19”, pubblicato su Frontiers in Immunology, rivista ufficiale dell’International Union of Immunological Societies (IUIS), nasce con lo scopo di riassumere il ruolo immunologico della vitamina C, analizzando i suoi potenziali effetti se utilizzata come integratore alimentare, sui meccanismi coinvolti durante le infezioni virali respiratorie oltre a evidenziare gli effetti di questo prezioso nutriente nel trattamento della sepsi grave e delle condizioni di ARDS (Sindrome da distress respiratorio acuto). L’indagine mette in luce anche l’alto rischio che nelle categorie come obesi, diabetici, cardiopatici, anziani, etc…, l'integrazione con vitamina C potrebbe ridurre i marcatori dell'infiammazione, quindi di conseguenza la suscettibilità all’infezione e l'eventuale sviluppo della malattia stessa. Inoltre, in queste categorie di persone un'integrazione di vitamina C potrebbe modulare l'infiammazione, con potenziali effetti positivi sulla risposta immunitaria alle infezioni. Tuttavia, anche se l'impatto di un'assunzione orale maggiore di vitamina C sulla durata del raffreddore e sulla prevenzione o il trattamento della polmonite è ancora in discussione, dall'altra parte appare ormai confermata quella che prima era solo un'ipotesi: l'infusione di vitamina C nel trattamento per COVID-19 sui pazienti ricoverati in ospedale tra cui anziani o con importanti patologie. In sostanza, riassumendo gli studi più rilevanti dalla prevenzione e cura delle comuni patologie respiratorie all'uso della vitamina C in condizioni di malattia critica, con l'obiettivo di chiarirne la potenziale applicazione durante un'infezione acuta da SARS-CoV2, un'integrazione di vitamina C potrebbe modulare l'infiammazione, con potenziali effetti positivi sulla risposta immunitaria alle infezioni.
Il comune raffreddore è una delle infezioni virali delle alte vie respiratorie (URTI) più diffuse, caratterizzata da tosse, stanchezza, febbre, mal di gola e dolori muscolari, che persistono per un periodo che va da pochi giorni a non più di 3 settimane. Con "raffreddore comune" si fa generalemente riferimento a una sindrome aspecifica causata da diversi virus, sebbene il rinovirus sia il patogeno coinvolto più frequentemente, essendo presente nel 30-50% dei malati. Le evidenze scientifiche secondo cui un apporto molto elevato di vitamina C potrebbe portare a una minore suscettibilità alle infezioni delle vie respiratorie ha origine dalle teorie di Linus Pauling pubblicate negli anni Settanta. Secondo Pauling, un'assunzione giornaliera di vitamina C di 1.000 mg può ridurre l'incidenza del raffreddore di circa il 45% e l'assunzione giornaliera ottimale di vitamina C per vivere in modo sano e prevenire le malattie dovrebbe essere di almeno 2,3 g. Il COVID-19 è una nuova forma di polmonite virale riconosciuta a livello mondiale, causata dall'infezione da SARS-CoV2. La sintomatologia spesso inizia entro 2 settimane dal contagio e comprende principalmente febbre, affaticamento, tosse e mancanza di respiro. Le attuali conoscenze suggeriscono che mentre la maggior parte dei soggetti infetti (80% -90%) mostra sintomi lievi o può essere asintomatica, circa il 5% può sviluppare polmonite, ARDS e disfunzione multiorgano che porta alla morte. Premesso questo è indiscutibile che uno stato nutrizionale ottimale riduca efficacemente l'infiammazione e lo stress ossidativo, migliorando la regolazione del sistema immunitario. Inoltre, un'integrazione di vitamina C potrebbe essere efficace per migliorare lo stato di salute dei pazienti considerati ad alto rischio di infezioni virali, ovvero delle categorie già citate.
Ma non è tutto. Infatti, un'integrazione di vitamina C potrebbe modulare l'infiammazione, con potenziali effetti positivi sulla risposta immunitaria alle infezioni. Soprattutto in casi particolari. Tra questi, la sepsi, una disfunzione d'organo pericolosa per la vita causata da una ridotta risposta dell'ospite all'infezione, caratterizzata da un drammatico fallimento del sistema circolatorio, metabolico e immunitario e riconosciuta come la causa principale di morte per infezione: i pazienti che sviluppano shock settico possono avere tassi di mortalità fino al 50%. In queste condizioni cliniche la letteratura mostra che alte dosi di vitamina C per infusione endovenosa possono ridurre la produzione di citochine infiammatorie connesse e potenzialmente migliorare i risultati importanti quali la durata del tempo di ventilazione meccanica e mortalità. Ciò è di particolare importanza poiché la sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) è una delle condizioni gravi più frequenti registrate nei pazienti COVID-19. L'ARDS è una sindrome grave e, in alcuni casi fatale, caratterizzata da una forte risposta infiammatoria con massiccio danno alveolare e insufficienza multiorgano, che richiede un trattamento in unità di terapia intensiva (ICU). Gli autori dell'indagine hanno poi riportato una percentuale di casi di ARDS di circa il 15% tra i pazienti ospedalizzati con infezione da SARS-CoV2.
La vitamina C è un nutriente essenziale che deve essere assunto attraverso l'alimentazione poiché gli esseri umani non sono in grado di sintetizzarlo. Il nostro corpo, nel corso del tempo, ha così sviluppato un efficace sistema di adattamento che mantiene le riserve organiche di vitamina C e ne previene la carenza dovuta a un basso apporto alimentare. Questi adattamenti includono una maggiore capacità di assorbimento e riciclaggio della vitamina C rispetto ad altre specie animali (ad esempio capre e rettili), che normalmente sono in grado di produrla. Negli esseri umani, al contrario, il muscolo scheletrico rappresenta il principale contenitore di vitamina C. L'omeostasi della vitamina C è finemente regolata da almeno quattro meccanismi: assorbimento intestinale, trasporto ai tessuti, riassorbimento renale ed escrezione di urina, regolati principalmente da una famiglia di proteine denominate trasportatori di vitamina C dipendenti dal sodio (SVCT). Oltre a un'ampia gamma di percorsi biochimici in cui è coinvolta la vitamina C, partecipa anche alla risposta del sistema immunitario innato e adattativo.
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