Non solo un ormone fondamentale per mantenere il nostro organismo in perfetta salute. «La vitamina D è fondamentale per il corpo umano ed è disponibile in due tipi: vitamina D2 e D3», spiega Gabriele Stangl della Martin Luther University. Quindi di fondamentale importanza per fissare il calcio nelle ossa. Previene, inoltre, sia lo sviluppo del rachitismo nei bambini, che dell’osteoporosi negli anziani. Agisce come un ormone, controllando vari organi e sistemi e ha un'azione regolante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario. La sua carenza potrebbe, infine, essere associata a diverse patologie, quali il diabete, l’Alzheimer, l’asma e la sclerosi multipla. Circa l’80% viene prodotta dalla nostra pelle grazie ai raggi UVB, mentre la parte residua viene introdotta con l’alimentazione. Dalla capacità di modulare e influenzare meccanismi fisiologici dell’organismo al mantenimento di ossa e denti in salute, dal buon funzionamento dei muscoli al rinforzo del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è ormai da anni oggetto di ricerca. La vitamina D3 è prodotta dalla pelle attraverso l'esposizione al sole. «Gli esseri umani - prosegue l'esperto - ottengono il 90% del loro fabbisogno di vitamina D in questo modo. Il resto viene consumato attraverso il cibo, come il pesce grasso o le uova di gallina. La vitamina D2 si trova invece nei funghi: le fave di cacao sono sensibili alla contaminazione da funghi e spesso contengono quantità considerevoli di ergosterolo, il precursore della vitamina D2, proprio per questo motivo». Tanto discussa, soprattutto nei mesi scorsi, a seguito dei recenti studi circa una sua correlazione ed eventuale efficacia nel contrasto dell’infezione da Covid. Diversi studi avevano, infatti, evidenziato la necessità di adeguati livelli di questa vitamina, soprattutto negli anziani. Questo perché, nelle indagini condotte dai diversi esperti, la carenza di questa vitamina viene associata a un aumento delle infezioni, da qui le complicanze riscontrate nei soggetti positivi al coronavirus con un deficit di questo nutriente. «La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo e nutrizionista.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
Il recettore per la vitamina D – continua il biologo - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi conclude il biologo.
«Io preferisco definirla un ormone», chiarisce in un’intervista a Gazzetta Active il professor Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente della European Society of Endocrinology.
A differenza delle altre vitamine – continua l’endocrinologo - la fonte principale non è il cibo, bensì la luce solare. E infatti lo stile di vita attuale, che ci vede trascorrere sempre più tempo in luoghi chiusi, può portare a deficit di vitamina D che una alimentazione anche ricca di quelle che sono le fonti alimentari di questa vitamina non è in grado di sopperire. - Cibi addizionali o integratori alimentari? - Quello dei cibi addizionati è un aspetto utile dal punto di vista della popolazione. A livello di singolo, i supplementi di vitamina D sono sicuramente più indicati, anche perché dosaggio e somministrazione possono essere modulati. - Quanto sole prendere per sopperire a un’eventuale carenza di vitamina D? - Bisognerebbe esporsi ogni giorno almeno per mezz’ora, lasciando scoperti non solo il viso e le mani, ma anche le braccia o le gambe, almeno. E purtroppo sì, un fattore protettivo elevato blocca la produzione di vitamina D. - Le fonti principali per fare il pieno di vitamina D - : Le uova, i pesci grassi come il salmone o lo sgombro, i crostacei, i funghi. Ma se manca il sole è facile avere carenze.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
Sintomi e cause di un’ipovitaminosi D, come riconoscerla.
La vitamina D in sé quando è carente non dà segnali evidenti. Ma dal momento che la sua azione principale è l’assorbimento del calcio, in caso di carenze gravi si possono avere i sintomi tipici di una ipocalcemia, come formicolii e parestesie alle mani e ai piedi. Anche una propensione alle fratture può essere un segnale in questo senso, come pure l’astenia, la debolezza muscolare e la conseguente facilità alle cadute, poiché la vitamina D ha funzioni extrascheletriche, sul muscolo». «Con un semplice esame del sangue che misuri i livelli di calcifediolo o 25 idrossivitamina D. Livelli inferiori ai 20 nanogrammi per millilitro indicano una carenza di vitamina D». «Le cause possono essere molteplici, ma quella principale è, appunto, la ridotta esposizione al sole. La gran parte della vitamina D che serve all’organismo viene prodotta dalla pelle sotto forma di vitamina D3 o colecalciferolo (la forma inattiva della vitamina D), in risposta alle radiazioni solari. Come abbiamo visto parlando del possibile legame tra deficit di vitamina D e Covid, lo stile di vita attuale, che ci vede sempre più in luoghi chiusi, è un fattore di rischio in questo senso. Per questo il consumo di cibi addizionati di vitamina D può essere risolutivo, soprattutto a livello di popolazione generale, come sanno i Paesi del Nord Europa, in cui questa è una consuetudine consolidata e il deficit di vitamina D è meno diffuso che nei Paesi del Mediterraneo.
Tutte le proprietà benefiche della VITAMINA D per stare bene
Tra i numerosi fattori che aumentano il rischio di un deficit di vitamina D anche i farmaci:
Oltre alla scarsa esposizione solare abbiamo problemi specifici, come quello legato all’età. Negli anziani, infatti, la pelle è meno capace di produrre colecalciferolo (la vitamina D inattiva, che poi il nostro organismo metabolizza a forma attiva) dopo l’irradiazione della luce solare, e quindi c’è una cute meno efficiente. Questo è un elemento che predispone l’anziano ad avere livelli di vitamina D più bassi rispetto ai giovani, che hanno una pelle più efficiente nel produrre la vitamina D. Poi ci sono anche problematiche legate a situazioni patologiche: per esempio ci sono malattie gastrointestinali, i cosiddetti malassorbimenti come la celiachia, in cui anche quel poco di vitamina D presente nei cibi non viene correttamente assorbito. E questo aggrava ulteriormente il problema, localizzandolo anche in fasce di popolazione più giovani. Anche l’ipoparatiroidismo è una patologia che tipicamente nell’uomo provoca una carenza di vitamina D. Quando le paratiroidi, piccole ghiandole dietro la tiroide, vengono asportate o lesionate generalmente a seguito dell’asportazione della tiroide, viene meno anche l’ormone che queste ghiandole producono, e che è fondamentale per attivare la vitamina D. Come conseguenza si ha anche una grave carenza di calcio, dal momento che la vitamina D è fondamentale per assorbirlo». E poi «il cortisone riduce la produzione e la conversione della vitamina D da colecalciferolo (inattiva) a calcifediolo e calcitriolo (attiva). Anche gli antiepilettici agiscono a livello epatico e ne riducono la conversione.
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Per approfondimenti:
Gazzetta Active "Carenza di vitamina D: ecco perché è facile averla. Come diagnosticarla ed evitarla?"
Il Giornale "Come fare il pieno di vitamina D in estate"
Fondazione Veronesi "Sette italiani su dieci sono sotto i livelli minimi di questo prezioso micronutriente con grave rischio di osteoporosi"
La Repubblica "Un mare di bellezza"
Il Giornale "Tintarella salvavita: da 15' di sole vitamina D come 100 uova"
Ansa "Salute: importante ruolo vitamina D in infartuati"
Meteo Web "Infarto, importante ruolo della vitamina D: una carenza può aumentare il rischio"
Fanpage "Cancro, vitamina D e Omega-3 riducono il rischio di morte e infarto"
Quotidiano di Ragusa "Carenza di vitamina D? A rischio infarto"
Meteo Web "La vitamina D può aiutare a prevenire l’insufficienza cardiaca dopo un infarto"
Onco News "Legame tra infarto miocardico e deficit di Vitamina-D"
Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"
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Meno morti e meno pazienti in terapia intensiva riaccendono la speranza nell'estenuante lotta contro il Covid. E il merito sembrerebbe proprio degli effetti della tanto discussa vitamina D. I dati registrati negli ultimi mesi dimostrano l’efficacia di questo prezioso nutriente nel trattamento delle persone con comorbidità nella riduzione sia dei decessi sia dei trasferimenti in terapia intensiva. Numerose le evidenze scientifiche a sostegno dell’utilizzo di questa importante vitamina nel trattamento e nella prevenzione del Covid. Tra gli altri, lo studio 'Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-GeneratingStudy' che ha evidenziato l'effettivo ruolo della vitamina D sui malati di Covid-19, è stato coordinato dall'Università di Padova con il supporto delle Università di Parma, di Verona e gli Istituti di Ricerca CNR di Reggio Calabria e Pisa e pubblicato sulla rivista Nutrients. L’indagine mostra come la somministrazione abbia potenziali effetti positivi sul decorso della malattia. Già confermata dalle ricerche dei mesi precedenti la correlazione tra l'ipovitaminosi D a una maggiore esposizione al coronavirus e alle sue manifestazioni cliniche più aggressive. Poco, invece, era noto sugli effetti dell'assunzione di colecalciferolo (vitamina D nativa) in pazienti già affetti da coronavirus. Uno studio francese aveva suggerito che la terapia con colecalciferolo, somministrato nei mesi precedenti il contagio, potesse favorire un decorso meno critico nei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto anziani e soggetti con patologie. Tuttavia, il ruolo della vitamina D nel rafforzare le difese immunitarie è assodato da tempo. Difatti «c’è un’importante metanalisi pubblicata sul British Medical Journal nel 2017 che sostiene che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa avevano meno infezioni respiratorie» spiega a Gazzetta Act!ve Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente dell'European Society of Endocrinology.
Studiata anche da un gruppo di ricercatori del Policlinico San Matteo la correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19. L’indagine condotta nel corso della prima ondata della pandemia su 129 pazienti ricoverati, di cui 34 hanno perso la vita durante la degenza ospedaliera, ha cercato di individuare la prevalenza dell’ipovitaminosi D, ponendola in correlazione con gli esiti clinici e i marker di gravità della malattia. E anche in questo studio, i ricercatori hanno riscontrato livelli molto bassi di vitamina D nelle persone ricoverate in gravi condizioni, anche se tali livelli non sono risultati associabili a variabili di esito, probabilmente anche in considerazione della criticità del quadro clinico di molti pazienti al momento dell’arrivo in ospedale. Insomma, quello presentato da ricercatori italiani, e pubblicato sulla prestigiosa rivista Clinical Nutrition, è un lavoro scrupoloso effettuato su un campione più ampio che porta la firma di Riccardo Caccialanza e del suo team. «I livelli sierici di vitamina D sono stati valutati a 48 ore dal ricovero ospedaliero e il 54,3% ne era gravemente carente» spiega in un'intervista al Giorno Riccardo Caccialanza, direttore dell'Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo, che ha firmato il lavoro. Fondamentale per l’assorbimento del calcio, appare evidente il collegamento tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio, e quindi, di vitamina D e SARS-CoV2. «Ritengo che ci sia un nesso tra vitamina D, calcio, fragilità ossea, vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Queste fratture indicano una fragilità sistemica dell’organismo. Già nella precedente infezione da Sars era emersa una elevata prevalenza di ipocalcemia. Al San Raffaele abbiamo visto come moltissimi malati ricoverati con il Covid abbiano valori di calcio molto bassi. E il calcio basso aumenta la percentuale di rischio di ricovero per Covid» conclude l'esperto.
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni». Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo.
Sono disponibili poche informazioni sugli effetti benefici del trattamento con colecalciferolo in pazienti in comorbidità ospedalizzati per Covid. Lo scopo di questo studio era di esaminare retrospettivamente l'esito clinico dei pazienti che ricevevano colecalciferolo ad alte dosi in ospedale. Sono stati presi in considerazione pazienti con diagnosi positiva di SARS-CoV2 e COVID-19 palese, ricoverati in ospedale dal 15 marzo al 20 aprile 2020. In base alle caratteristiche cliniche, sono stati integrati (o meno) con 400.000 UI di colecalciferolo orale in bolo (200.000 UI somministrati in due giorni consecutivi) ed è stato registrato l'esito composito (trasferimento all'unità di terapia intensiva - ICU e/o morte). Novantuno pazienti (di età compresa tra 74 ± 13 anni) con COVID-19 sono stati inclusi in questo studio retrospettivo. Cinquanta (il 54,9%) pazienti presentavano due o più malattie concomitanti (p <0.0001). Durante il periodo di follow-up (14 ± 10 giorni), 27 pazienti (il 29,7%) sono stati trasferiti in terapia intensiva e 22 (il 24,2%) sono morti (16 prima della terapia intensiva e sei in terapia intensiva). Complessivamente, 43 pazienti (il 47,3%) hanno manifestato l'endpoint combinato di trasferimento in terapia intensiva e/o morte. Le analisi di regressione logistica hanno rivelato che il carico di comorbidità ha modificato in modo significativo l'effetto del trattamento con vitamina D sui risultati dello studio, sia nelle analisi grezze (p=0,033) che in quelle arrotondate, per il punteggio di propensione (p= 0,039), quindi l'effetto positivo del colecalciferolo ad alte dosi sull'endpoint combinato è stato significativamente amplificato con l'aumento del carico di comorbidità. Questo studio che genera ipotesi garantisce la valutazione formale cioè, sperimentazione clinica, del potenziale beneficio che il colecalciferolo può offrire in questi pazienti in comorbidità COVID-19.
«La nostra è stata una ricerca retrospettiva condotta su 91 pazienti affetti da Covid-19, ospedalizzati durante la prima ondata pandemica nell'area Area Covid-19 della Clinica Medica 3 dell’Azienda Ospedale-Università di Padova» spiega il professore Sandro Giannini, del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e autore dello studio. «I pazienti inclusi nella nostra indagine, di età media 74 anni, erano stati trattati con le associazioni terapeutiche allora adoperate in questo contesto e, in 36 soggetti su 91 (il 39,6%), con una dose elevata di vitamina D per 2 giorni consecutivi. I rimanenti 55 soggetti (il 60,4%) non erano stati trattati con vitamina D. La scelta del medico di trattare i pazienti era stata essenzialmente basata su alcune caratteristiche cliniche e di laboratorio: avere bassi livelli nel sangue di vitamina D al momento del ricovero, essere fumatori attivi, dimostrare elevati livelli di D-Dimero ematico (indicatore di maggiore aggressività della malattia) e presentare un grado rilevante di comorbilità». «Lo studio aveva l’obiettivo - evidenzia ancora l'esperto - di valutare se la proporzione di pazienti che andavano incontro al trasferimento in Unità di Terapia Intensiva e/o al decesso potesse essere condizionata dall’assunzione di vitamina D. Durante un periodo di follow-up di 14 giorni circa, 27 (29.7%) pazienti venivano trasferiti in Terapia Intensiva e 22 (il 24,2%) andavano incontro al decesso. Nel complesso, 43 pazienti (47,3%) andavano incontro a 'Decesso o Trasferimento in ICU' L’analisi statistica rivelava che il 'peso' delle comorbidità (rappresentate dalla storia di malattie cardiovascolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, malattia neoplastica non in remissione, diabete mellito, malattie ematologiche e malattie endocrine) modificava in modo ampiamente significativo l’effetto protettivo della vitamina D sull’obiettivo dello studio, in modo tale che maggiore era il numero delle comorbidità presenti, più evidente era il beneficio indotto dalla vitamina D». «In particolare, nei soggetti che avevano assunto il colecalciferolo, il rischio di andare incontro a "Decesso/Trasferimento in ICU" era ridotto di circa l’80% rispetto ai soggetti che non l’avevano assunto. Il nostro lavoro dimostra, quindi, il potenziale effetto benefico della somministrazione della vitamina D in quei pazienti affetti da Covid-19 che, come molto spesso accade, presentano rilevanti comorbidità e indica l’opportunità di condurre studi appropriati a conferma di questa ipotesi» conclude Giannini.
Evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia grazie alle sue principali capacità ovvero quelle di rafforza il sistema immunitario e protegge dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre virus. A questo interessante dilemma fanno eco altre indagini condotte dallo scorso anno, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza:
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
JAMA Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
Dire "Il 60% dei bambini ha carenza di vitamina D"
Corriere Nazionale "Il 60% dei bambini soffre di carenza di vitamina D"
Covid, studio a Pavia: carenza di vitamina D associata all’infezione
Regno Unito: contro il Covid, vitamina D a oltre 2 milioni di persone
Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti
Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D
SOS ipovitaminosi. Il 60% dei bambini con carenza di vitamina D
A confermare le recenti teorie sul rapporto tra coronavirus e la “vitamina del sole” questa volta è una ricerca tutta italiana. Studiata da un gruppo di ricercatori del Policlinico San Matteo la correlazione tra livelli di vitamina D e infezione da Covid 19. L’indagine condotta nel corso della prima ondata della pandemia su 129 pazienti ricoverati, di cui 34 hanno perso la vita durante la degenza ospedaliera, ha cercato di individuare la prevalenza dell’ipovitaminosi D, ponendola in correlazione con gli esiti clinici e i marker di gravità della malattia. E anche in questo studio, i ricercatori hanno riscontrato livelli molto bassi di vitamina D nelle persone ricoverate in gravi condizioni, anche se tali livelli non sono risultati associabili a variabili di esito, probabilmente anche in considerazione della criticità del quadro clinico di molti pazienti al momento dell’arrivo in ospedale. La ricerca, approvata dal Comitato etico, ha fotografato, al momento del ricovero, Un fattore, tra gli altri, non trascurabile ovvero la prevalenza della carenza vitaminica che, al di là dell’infezione da SARS-CoV-2 è fondamentale per il benessere del nostro organismo, e quindi, per la nostra salute. Inoltre, è stata anche riscontrata l’associazione tra lo stato della vitamina e gli esiti clinici come polmonite grave, ricovero in reparti di terapia intensiva, seguita poi dalle relative complicazione che hanno portato, in alcuni casi, persino alla morte, oltre a marcatori biochimici di gravità della malattia (come, ad esempio, conta dei linfociti, proteina C-reattiva).
L'importanza della vitamina D - intervista di Adriano Panzironi
Insomma, quello presentato da ricercatori italiani, e pubblicato sulla prestigiosa rivista "Clinical Nutrition", è un lavoro scrupoloso effettuato su un campione più ampio che porta la firma di Riccardo Caccialanza e del suo team. «I livelli sierici di vitamina D sono stati valutati a 48 ore dal ricovero ospedaliero e il 54,3% ne era gravemente carente» spiega in un'intervista al Giorno Riccardo Caccialanza, direttore dell'Unità operativa complessa di nutrizione clinica del San Matteo, che ha firmato il lavoro. «Tuttavia – precisa nell’intervista -, se l’adeguatezza della vitamina D possa prevenire l’infezione da Covid 19 o influenzare gli esiti clinici deve essere ancora valutato rispettivamente da studi di popolazione e studi di intervento dimensionati e progettati, che potrebbero essere molto rilevanti considerato l’andamento della pandemia a livello globale». Tuttavia, il ruolo della vitamina D nel rafforzare le difese immunitarie è assodato da tempo. Difatti «c’è un’importante metanalisi pubblicata sul British Medical Journal nel 2017 che sostiene che i pazienti particolarmente carenti di vitamina D ai quali venivano somministrate integrazioni della stessa avevano meno infezioni respiratorie» spiega a Gazzetta Act!ve Andrea Giustina, primario di Endocrinologia all’Ospedale San Raffaele di Milano, ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele e presidente dell'European Society of Endocrinology.
L’esperto, già lo scorso marzo, in una lettera al British Medical Journal aveva evidenziato come carenze di vitamina D aumentino la predisposizione ad infezioni sistemiche e abbassino la risposta immunitaria, favorendo anche il rischio di malattie autoimmuni. In quel periodo, era soprattutto il Nord Italia ad essere alle prese con la maggior parte di persone con il Covid e a far schizzare il bilancio dei contagi, catapultando il nostro Paese in cima alla classifica mondiale. Ma perché, nella prima come nella seconda ondata, sono le regioni settentrionali quelle con la peggiore letalità? Tra le varie ipotesi, ad oggi, l’unica confermata: soprattutto al Nord e nei mesi invernali, viene meno l’esposizione al sole, ovvero il mezzo primario per sintetizzare questa preziosa vitamina.
Il 20 marzo abbiamo pubblicato la lettera sul British Medical Journal – si legge nell’intervista a Gazzetta Act!ve - era allora il momento in cui l’Italia sembrava il Paese più colpito, cosa che si è rivelata vera anche nel prosieguo. Si era cercato di capire perché da noi la situazione fosse così drammatica soprattutto dal punto di vista della mortalità. In realtà ancora oggi non abbiamo una spiegazione del tutto convincente. Ma da studi epidemiologici emerge che nella popolazione italiana si hanno bassi livelli di vitamina D. Questo perché noi non addizioniamo il cibo come fanno, per esempio, i Paesi scandinavi, tanto che questa situazione è nota come paradosso scandinavo: quei Paesi che non conoscono una grande esposizione alla luce solare, fonte principale di vitamina D, la addizionano ai cibi. E così i loro livelli sono in media il doppio di quelli degli abitanti di Paesi del Sud Europa come Spagna, Grecia e, appunto, Italia.
Il mio medico - Tutti i benefici della vitamina D
Inoltre, è scientificamente dimostrato che gli italiani hanno livelli di vitamina D più bassi di quelli degli scandinavi: «Loro hanno sopperito alla mancanza del sole con integrazioni, noi no» evidenzia presidente della Società Europea di Endocrinologia. La spiegazione è nel cambiamento delle abitudini degli italiani. Al contrario di quanto accadeva circa mezzo secolo fa, la persone trascorrono un tempo irrisorio all’aria aperta. Poi, l’arrivo del lockdown a dare il colpo di grazia a questo stile di vita che prevedeva sporadiche esposizioni ai raggi UV. In pratica, la carenza di questo nutriente sembrerebbe proprio un fattore predisponente per ammalarsi di Covid. Numerose evidenze scientifiche suggeriscono che i pazienti con Covid-19 hanno livelli di vitamina D più bassi rispetto alla popolazione generale. L’esperto, in un recente studio dell’Ospedale San Raffaele, ha evidenziato che nei pazienti ospedalizzati per Covid-19 con fratture vertebrali sembrerebbero aumentare il rischio di complicanze. Fondamentale per l’assorbimento del calcio, appare evidente il collegamento tra predisposizione alle fratture, bassi livelli di calcio, e quindi, di vitamina D e Covid-19. «Ritengo che ci sia un nesso tra vitamina D, calcio, fragilità ossea, vulnerabilità all’infezione da coronavirus e outcome peggiore dei malati. Queste fratture indicano una fragilità sistemica dell’organismo. Già nella precedente infezione da Sars era emersa una elevata prevalenza di ipocalcemia. Al San Raffaele abbiamo visto come moltissimi malati ricoverati con il Covid abbiano valori di calcio molto bassi. E il calcio basso aumenta la percentuale di rischio di ricovero per Covid» conclude Giustina. E poi consiglia a tutta di esporsi al sole, almeno mezzora al giorno e di fornire al nostro organismo, con l’alimentazione e l’integrazione, la quantità necessaria di vitamina D per stare bene.
Il Giorno "Nesso tra Covid e vitamina D": eccezionale scoperta a Pavia"
Gazzetta Act!ve "Covid-19, carenze di vitamina D associate all’infezione: “Forse per questo l’Italia è così colpita”
Napoli Today "Vitamina D e prevenzione del Covid-19, qual è la connessione: risponde l’esperto"
Corriere di Arezzo "Arezzo, il medico Pier Luigi Rossi guarito dal Covid: "Come l'ho preso e come mi sono difeso con vitamina D e dieta mirata"
Irresistibile e ricco di vitamina D. Dal burro di cacao al cioccolato fondente: facciamo la scorta di benessere. Uno studio tedesco mostra che cacao e derivati contengono una quantità notevole di vitamina D2, meglio nota come ergocalciferolo. Infatti, secondo quanto dimostrato dall’indagine condotta dai ricercatori della Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg, il cacao non solo fa bene alla nostra salute, ma è anche ricco di vitamina D. Analizzando i nutrienti presenti in questo alimento, gli esperti hanno scoperto che i chicchi di cacao vengono essiccati al sole per un tempo medio-lungo, solitamente attorno alle due settimane. È proprio questo particolare procedimento a renderli ricchi di vitamina D2. Questa ricerca evidenzia l’importanza di questa vitamina ed evidenzia la possibilità di pensare al cacao, ma ancora più al cioccolato fondente come a un integratore da utilizzare in combinazione con altri alimenti per incrementare l’apporto di vitamina D. «La vitamina D è fondamentale per il corpo umano ed è disponibile in due tipi: vitamina D2 e D3», spiega Gabriele Stangl della Martin Luther University.
Antiossidante, energetico, antidepressivo, protettivo. «La vitamina D3 - prosegue - è prodotta dalla pelle attraverso l'esposizione al sole. Gli esseri umani ottengono il 90% del loro fabbisogno di vitamina D in questo modo. Il resto viene consumato attraverso il cibo, come il pesce grasso o le uova di gallina. La vitamina D2 si trova invece nei funghi: le fave di cacao sono sensibili alla contaminazione da funghi e spesso contengono quantità considerevoli di ergosterolo, il precursore della vitamina D2, proprio per questo motivo». Inoltre, Stangl e colleghi hanno ipotizzato che l'essiccazione al sole delle fave di cacao fermentate porterebbe alla conversione dell'ergosterolo in vitamina D2. Per testare questa idea, i ricercatori hanno analizzato fave di cacao e alimenti a base di cacao utilizzando un sistema di spettrometria di massa all'avanguardia. «Abbiamo dimostrato – spiegano gli esperti alla rivista Food Chemistry - che le fave di cacao provenienti da diversi luoghi contengono vitamina D2. Un contenuto particolarmente elevato di questa sostanza è rilevato nel burro e nella polvere di cacao». Fra i prodotti analizzati, il cioccolato fondente presentava un contenuto di vitamina D2 compreso tra 1,90 e 5,48 μg/100 g, mentre quello bianco tra 0,19 e 1,91 μg/100 g.
Gustosa fonte di nutrienti, la sua versione fondente si aggiudica il podio per la presenza di maggiori quantitativi di vitamina D2. Dalle origini antichissime (più di 6.000 anni) la sua storia si interseca con quella dei Maya, che furono i primi agricoltori a coltivare la pianta del cacao. Seguiti poi dagli Aztechi che cominciarono questa coltura e, in seguito, la produzione di cioccolata. Poco dopo, ad opera loro, la nascita della prima “fabbrica di cioccolato”. Tra il mistico e il religioso, all’epoca veniva consumato dai nobili in occasione delle cerimonie importanti, offerto insieme con all'incenso, come sacrificio alle divinità. Ancora oggi, l'antica città Maya di Kulubà (dove sorsero le prime piantagioni di cacao) è considerata la "culla del cioccolato". Ricavato dai semi della pianta di Theobroma cacao, è un nostro grande alleato. Insomma, un cioccolatino al giorno, toglie il medico di torno! Soprattutto quello fondente, è fonte di importanti nutrienti in grado di ridurre il rischio di diabete di tipo 2 e abbassare il colesterolo “cattivo” (LDL). Dal punto di vista nutrizionale, il cioccolato fondente, si contraddistingue per un basso contenuto calorico, un’importante funzione rilassante e un’interessante azione antidepressiva. Considerato lo “scaccia tristezza” per eccellenza, incide positivamente sul nostro umore (grazie al rilascio di endorfine).
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E poi, non dimentichiamo che il cioccolato fa bene al cuore. Lo sostiene uno studio del 2003 promosso dell'Istituto Nazionale Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (Inran) di Roma. I risultati dell’indagine hanno rivelato che il cioccolato fondente aumenta del 20% le concentrazioni di antiossidanti nel sangue, grazie alla presenza dei flavonoidi. Inoltre, una ricerca dell’Università di Harvard durata cinque anni, su un campione di 7.841 persone di 65 anni, ha dimostrato che coloro che mangiavano cioccolato tre volte al mese vivevano più a lungo, per questi soggetti, infatti, il rischio di mortalità si riduceva del 36% rispetto a quelli che non la consumavano. Non dimentichiamo poi che il cacao e, di conseguenza, il cioccolato, rappresentano un’ottima fonte di magnesio. Se combinati a un’alimentazione sana ed equilibrata, cacao e derivati, ovviamente consumati in maniera adeguata, contribuiscono all’apporto giornaliero di oligonutrienti. Il cioccolato si presenta come un ottimo alleato per ridurre il rischio di malattie cardiache e di ipertensione e per mantenere pulite le arterie, grazie alla teobromina. E non solo. Questo cibo, favorisce l’afflusso di ossigeno al cervello, migliorandone, di conseguenza, memoria e concentrazione e riducendone il senso di fatica. Ultimo mito da sfatare: il cioccolato non fa ingrassare!
Senza tralasciare poi la preziosa funzione svolta dalla vitamina D. Di pronta risposta Vitalife D, un integratore alimentare con vitamina D3 (composta da colecalciferolo) più adatta all'uomo dopichè di provenienza animale. Inoltre, per facilitarne l'assimilazione è inserita in olio extravergine di oliva. La sua principale differenza sta proprio nelle composizione, poichè, ad esempio, la vitamina generalemente proposta negli integratori alimentari in commercio è la D2, composta invece da ergocalciferolo, e quindi, di provenienza vegetale che si differenzia a sua volta dal calcitriolo che è invece di difficile assimilazione. Quindi di fondamentale importanza per fissare il calcio nelle ossa. Previene, inoltre, sia lo sviluppo del rachitismo nei bambini, che dell’osteoporosi negli anziani. Agisce come un ormone, controllando vari organi e sistemi e ha un'azione regolante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario. La sua carenza potrebbe, infine, essere associata a diverse patologie, quali il diabete, l’Alzheimer, l’asma e la sclerosi multipla.
Il Giornale "Il cioccolato fondente è ricco di vitamina D"
Ansa "Il cacao, fonte sconosciuta e golosa di vitamina D"
SkyTg24 "Scoperta una nuova qualità del cacao: è fonte di vitamina D"
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Continua a far parlare di se. Non solo un ormone fondamentale per mantenere il nostro organismo in perfetta salute, ma anche una valida strategia di prevenzione dal Covid. Al centro dei riflettori c’è ancora la vitamina D. Ormai consolidato il suo ruolo nella protezione delle ossa e nel rinforzo fornito al sistema immunitario, questo nutriente è molto importante per le sue innumerevoli capacità. Tra queste, riduce il rischio di cancro, protegge dal diabete, dalle malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni. Circa l’80% viene prodotta dalla nostra pelle grazie ai raggi UVB, mentre la parte residua viene introdotta con l’alimentazione. Tanto discussa, soprattutto negli ultimi mesi, a seguito dei recenti studi circa una sua correlazione ed eventuale efficacia nel contrasto dell’infezione da SARS-CoV-2. Primo tra tutti, lo studio condotto da due ricercatori dell’Università di Torino sulla necessità di adeguati livelli di questa vitamina, soprattutto negli anziani. Questo perché, nell’indagine condotta dagli esperti, ma non solo, la carenza di questa vitamina viene associata a un aumento delle infezioni, da qui le complicanze riscontrate nei soggetti positivi al coronavirus con un deficit di questo nutriente.
A far luce sulla vicenda, interviene il dottor Giuseppe Russo, medico di base presso l’ASL Napoli 1 che in un’intervista a Napoli Today spiega l’importanza della vitamina del “sole”.
«Quella che comunemente chiamiamo "vitamina D", in realtà appartiene ben poco al gruppo delle vitamine, bensì, per struttura chimica (steroidea) e per funzione, è un pro-ormone. I pro-ormoni non sono altro che dei precursori della sintesi degli ormoni». «1/3 del nostro fabbisogno giornaliero di vitamina D – continua l’esperto nell’intervista - proviene dagli alimenti (pesce azzurro, tuorlo d’uovo, latte e formaggio), la restante parte si forma nella pelle attraverso l’esposizione ai raggi solari, e viene immagazzinata nel fegato e nel tessuto adiposo. Gli effetti sono molteplici e svariati. Quelli più noti riguardano la crescita ossea, l’allattamento e la gravidanza. Tuttavia molti studi hanno evidenziato che una sua carenza è spesso associata a diversi tipi di malattie, quali diabete, infarto, morbo di Alzheimer, allergie, sclerosi multipla, obesità e riduzione del tono dell’umore». Poi, evidenzia ancora Russo, la sua possibile correlazione tra Covid.19 e ipovitaminosi D: «L’integrazione della vitamina D, anche in dosi generose, nel contagio da COVID 19, è giustificata dalla sua azione di modulazione del processo infiammatorio e di regolazione del sistema immunitario. Un suo uso preventivo, però, per essere efficace, non può prescindere da un corretto e puntuale dosaggio della sua concentrazione nel sangue».
Un dibattito che va avanti dall’inizio della pandemia e sembra essere in dirittura d’arrivo. Insomma, il rapporto tra Covid e vitamina D continua a far discutere gli esperti e nel frattempo aumentano le tesi a favore. «L’integrazione di questa vitamina, in presenza dell'infezione da SARS-CoV-2, è dovuta alla sua azione di modulazione del processo infiammatorio e di regolazione del sistema immunitario» precisa nell’intervista. E poi raccomanda: «Se vi è carenza, può essere integrata a qualsiasi età». Nel dubbio, il governo inglese ha deciso di seguire l’esempio della Scozia e somministrare la vitamina D alle fasce più rischio, nel rispetto delle linee guida stabilite dal National Institute for Health and Care Excellence e dalla Public Health. In attesa del vaccino, quindi, saranno così rafforzate le difese immunitarie di anziani e persone con gravi patologie che hanno manifestato questa carenza. Nel mare magnum di evidenze scientifiche che hanno conquistato le prime pagine di riviste e quotidiani c’è anche una testimonianza importante. Quella che Pier Luigi Rossi, specializzato in Scienza dell'Alimentazione, racconta in un’intervista al Corriere di Arezzo.
L'importanza della vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
«Con questa malattia non si dorme, si suda e si ha una sensazione di caldo continuo. Il virus entra con il respiro nei polmoni e poi tramite il sangue si diffonde in tutti gli organi, compreso il cervello dove attacca i neuroni provocando appunto insensibilità ai sapori e agli odori. Si localizza molto anche nell'intestino, provocando vari disturbi dalla diarrea alla stipsi. C'è un collegamento diretto tra il microbiota polmonare e quello intestinale. E mantenendo sano e attivo quello intestinale, rendiamo più reattivo anche quello polmonare, ovvero capace a reagire ai vari batteri e virus». Una battaglia contro il Covid che il dottor Rossi ha combattuto e vinto grazie anche a un corretto stile di vita e alimentare. «Io non ho fatto terapia farmacologica – spiega l’esperto - né terapia per controllare la febbre che per fortuna solo una volta mi è salita a 38. Ha applicato tutte le norme anti contagio e tanto riposo in casa. Ho fatto ossigeno terapia con semplici esercizi di inspirazione ed espirazione. Per fortuna ho un parco e mi sono esposto a lungo ai raggi del sole per aumentare la vitamina D, aiutata anche con l'inserimento di 8/10 gocce al giorno di questa vitamina. E poi ho praticato un'alimentazione studiata apposta per superare gli attacchi all'organismo da parte del Covid».
Dopo aver superato la malattia, poiché in ognuno di noi, non muta il virus, ma cambia la reazione nell’organismo in base alle difese immunitarie, consiglia a tutti di fare la massima attenzione senza abbassare mai la guardia! Difatti, le evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia. Infatti, tra le sue principali capacità emerge proprio quella che contribuisce a rafforzare il sistema immunitario e a proteggere dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre di virus. A questo interessante dilemma, infatti, fanno eco altre indagini condotte in questi mesi, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza.
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Mentre il Regno Unito ha disposto la distribuzione di vitamina D a tutta la popolazione, nel resto del mondo parallelamente, sono in corso una trentina di studi volti a indagare l’incidenza dell’ipovitaminosi D sul Covid e l’importanza di questo prezioso nutriente nel trattamento dell’infezione stessa. Per vitamina D si intende una sostanza che non può essere prodotta dall'organismo, e quindi, deve essere assunta dall'esterno e agisce a distanza sul piano metabolico. Ciononostante il nostro organismo produce vitamina D tramite i raggi solari che irradiano la cute. Una piccola parte poi, seppur insufficiente, può essere assunta con gli alimenti. Tuttavia, l’unica fonte quindi è il sole che una volta entrato tramite la pelle, viene accumulata nel nostro tessuto adiposo e poi viene immagazzinata e rilasciata lentamente durante l’anno, soprattutto in inverno. I suoi importanti effetti a livello immunitario era confermati già nell’Ottocento quando, per contrastare la tubercolosi, le persone venivano esposte al sole, senza neanche sapere che assumevano in questo modo vitamina D e senza neanche conoscerne gli effetti sul piano immune. Il risultato fu che quelli che vivevano di più all’aria aperta e quindi erano maggiormente esposti ai raggi ultravioletti, si ammalavano di meno di tubercolosi o guarivano più velocemente. Dopo l’appello lanciato da un gruppo di scienziati inglesi al governo di Londra, riportato sul The Guardian anche nel nostro Paese è stata approfondita questa correlazione: Maria Cristina Gauzzi e Laura Fantuzzi del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto superiore di sanità hanno ribadito, in linea con gli altri colleghi, che adeguati livelli di vitamina D al momento dell'infezione da coronavirus potrebbero favorire l’azione protettiva dell’interferone di tipo I (uno tra i più potenti mediatori della risposta antivirale dell’organismo) e rinforzare l'immunità innata. Adesso, invece, nel Regno Unito è in corso una vasta sperimentazione clinica sul rapporto “Covid/vitamina D”, che coinvolge oltre 5 mila persone.
Sulla distribuzione del virus nelle regioni italiane emerge una nuova tesi. «Ho avuto l’intuizione di andare a vedere con qualche sistema possibile se le diverse regioni italiane differivano in quanto a radiazioni solari per poi quantificarle e correlare i dati clinici del Covid per trovare una corrispondenza» spiega in un’intervista a Il Giornale Giancarlo Isaia, autore di una recente indagine sugli effetti della vitamina D e su una sua correlazione con il Covid. nel maggio scorso, Isaia, insieme al collega Enzo Medico, docente dell’Università di Torino, avevano parlato dei notevoli benefici della vitamina D come alleata nel contrasto alla pandemia. Lo studio dei ricercatori mostrava come molti pazienti ricoverati per Covid presentavano gravi carenze di vitamina D. «Ho chiesto aiuto per farlo ai fisici dell’Arpa (l’Agenzia Regionale per la protezione Ambientale) – continua l’esperto - in particolare il dottor Henri Diémoz che ha estrapolato questi dati da alcuni di satelliti chiamati Themis che girano intorno alla terra mandando dati meteorologici. Per essere sicuri che fossero precisi, sono stati confrontati con quelli a terra per vedere se coincidevano ed è venuta fuori una correlazione perfetta. Confortati da questo, abbiamo preso tutti questi dati delle radiazioni ultraviolette e le abbiamo correlate con i morti, con il numero degli infetti e degli infetti per tampone. Il risultato è stata un correlazione molto alta, l’83% circa che ci confermava che dove i raggi ultravioletti erano più bassi, ad esempio Lombardia e Piemonte, c’era maggiore incidenza del virus e dei decessi». «Per questo, abbiamo realisticamente ipotizzato che quelli che sono stati più al sole e che quindi hanno accumulato più vitamina D da spendere nei mesi invernali, sono stati in qualche modo protetti» conclude Isaia. Ovviamente per uno studio più accurato sono state considerate anche tutta una serie di altre variabili come l’età media della popolazione coinvolta, l’incidenza di malattie cardiovascolari e di diabete, ma nonostante queste variabili fossero significative, il fattore predominante rimaneva sempre quello dei raggi ultravioletti che occupava circa l’80% della statistica di tutte le variabili. Questo spiegherebbe anche perché nella prima ondata della pandemia siano state, seppur in parte, “risparmiate” le zone del sud del mondo dove c’è stato un tasso di incidenza di scarso del coronavirus.
Gli effetti della vitamina D sono noti da tempo, per questo, nel Regno Unito è partita la somministrazione ad ampio raggio come trattamento e come forma di prevenzione al Covid. «L’enorme letteratura scientifica sui benefici del sole – evidenzia l’esperto nell’intervista a Il Giornale - , ha inciso in termini culturali da sempre sui paesi del nord, che hanno visto delle vere e proprio migrazioni di massa verso l’Italia o in Spagna. Forti di questo retaggio da sempre hanno ritenuto opportuno, e maggiormente ora, fornire la vitamina D a tutta la popolazione». Giancarlo Isaia poi spiega l’influenza del sole, e quindi, dei raggi ultravioletti sul Covid: «Esiste uno studio che dice che il virus viene inattivato dai raggi ultravioletti. Quindi fa bene alla pandemia per due motivi: il primo perché inattiva il virus direttamente sulle superfici, quindi questo può spiegare il fatto che durante l’estate c’è stato il crollo della mortalità, il secondo è l’aspetto della vitamina D. La nostra ipotesi è questa: durante l’inverno nella prima ondata gennaio/maggio, si sono protetti di più quelli che avevano preso e immagazzinato nel semestre precedente più sole e quindi vitamina D, mentre invece in estate ne hanno beneficiato un po’ tutti perché chi più chi meno sono andati al mare o sono stati all’aria aperta. Dopo le vacanze i morti sono ricominciati a salire, un po’ meno rispetto a gennaio perché abbiamo ancora vitamina D immagazzinata nella cute, però se non facciamo niente i morti continueranno ad aumentare e questo voglio dirlo forte e molto chiaramente». L’esperto suggerisce, inoltre, di promuovere la somministrazione di vitamina D a tutti i pazienti più a rischio e di prendere anche in considerazione il valido supporto fornito dagli integratori alimentari che sono consigliati anche ai bambini: «Assolutamente sì – raccomanda Isaia -, anche se dovremo maggiormente pensare alla fascia di popolazione anziana perché è in quella che si concentrano di più i morti. Se guardiamo le tabelle del Ministero della Sanità possiamo vedere che nella fascia 70/90 anni, l’incidenza è dell’85%. Secondo me se anche in Italia si distribuisse, soprattutto agli anziani sarebbe una cosa molto importante».
AL'importanza della vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
Le evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia. Infatti, tra le sue principali capacità: rafforza il sistema immunitario e protegge dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre di virus. A questo interessante dilemma fanno eco altre indagini condotte in questi mesi, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza:
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A lungo discusso tra gli esperti del settore è proprio il ruolo della vitamina D sul sistema immunitario. Inoltre, diversi studi hanno suggerito che una carenza di questo nutriente rende più vulnerabili al coronavirus. Sul modello della Scozia, anche il governo inglese ha deciso di somministrare vitamina D per 4 mesi a oltre 2 milioni di persone, e soprattutto a quelle più vulnerabili, anziani e obesi come prevenzione contro il Covid. In particolare le persone di etnia nera, poiché i livelli di melanina nella pelle sono inversamente proporzionali ai livelli di vitamina D creati, ovvero a un situazione che peggiora in luoghi con meno luce solare: per questo le persone di colore nel Regno Unito possono essere più vulnerabili e quindi potenzialmente a rischio di contrarre il Covid e sviluppare una forma più seria della malattia. «Il Nice e il Public Health England hanno ricevuto richiesta formale di produrre delle raccomandazioni sulla vitamina D per prevenire e trattare il coronavirus dal segretario di stato per la salute, Matt Hancock» spiega al Guardian il portavoce del National Institute for Health and Care Excellenece (Nice). Definita dal governo come un’operazione “a basso costo, a rischio zero e potenzialmente altamente efficace”, evidenziando in particolare uno studio spagnolo che ha coinvolto 76 pazienti con Covid-19: a 50 di loro è stata somministrata una dose elevata di calcifediolo, una forma attivata di vitamina D. Difatti, la metà di quelli a cui non era stata somministrata aveva necessitato del ricovero in terapia intensiva, a fronte di una sola persona che l’aveva ricevuta, ma che era stata poi dimessa senza ulteriori complicanze.
«Aggiungete vitamina D al cibo per aiutare nella lotta al coronavirus». È l’appello lanciato da un gruppo di scienziati inglesi al governo di Londra. La richiesta, riportata sul The Guardian , ha riaperto la discussione sul possibile ruolo della vitamina D nella lotta alla pandemia. Così, un gruppo di scienziati guidati dal professor Gareth Davies ha acceso i riflettori su un aspetto molto importante: circa la metà della popolazione inglese presenta una carenza di vitamina D e, a loro dire, questo basso livello potrebbe rendere le persone più vulnerabili al Covid. E quindi non solo sottoposti al rischio di essere contagiati, ma a questo si associa anche quello di sviluppare sintomi più gravi e di conseguenza, un quadro clinico peggiore. Una teoria che anche altri studiosi stanno approfondendo. Una lista che si allunga sempre più quella dei lavori scientifici che, ad oggi, prefigurano un ruolo importante della vitamina D nella lotta contro il Covid-19. Anche nel nostro Paese è stata approfondita questa correlazione: Maria Cristina Gauzzi e Laura Fantuzzi del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto superiore di sanità hanno ribadito, in linea con i gli altri colleghi, che adeguati livelli di vitamina D al momento dell'infezione da coronavirus potrebbero favorire l’azione protettiva dell’interferone di tipo I (uno tra i più potenti mediatori della risposta antivirale dell’organismo) e rinforzare l'immunità innata. Adesso, invece, nel Regno Unito è in corso una vasta sperimentazione clinica sul rapporto “Covid/vitamina D”, che coinvolge oltre 5 mila persone.
Le evidenze scientifiche relative alla correlazione tra vitamina D e Covid erano già emerse a inizio pandemia. Infatti, tra le sue principali capacità: rafforza il sistema immunitario e protegge dalle infezioni respiratorie. Inoltre, l’ipovitaminosi D rimane tra i principali fattori che aumentano il rischio di contrarre di virus. A questo interessante dilemma fanno eco altre indagini condotte in questi mesi, che hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza: in una review pubblicata pochi mesi fa su Nutriens, in particolare, si sosteneva come l’integrazione della vitamina D possa incidere sul rischio di sviluppare infezioni da COVID-19. A differenza delle altre, la vitamina D non deve essere necessariamente assunta con l’alimentazione, perché viene prodotta dal nostro organismo grazie a un meccanismo che si attiva con l’esposizione ai raggi del sole. Tuttavia, è importante integrarla nella dieta, soprattutto in alcune condizioni particolari, come la gravidanza o nello sviluppo. Tra i primi ad avvalorare la tesi, lo studio norvegese condotto a marzo su 15 mila persone ha mostrato laddove vi era un consumo abituale dell'olio di fegato di merluzzo, fonte di vitamina D, c’erano anche i meno esposti al virus e coloro che l'avevano contratto avevano sviluppato una forma più lieve della malattia. «A mio parere, è chiaro che la vitamina D potrebbe non solo proteggere dalla gravità della malattia, ma potrebbe anche proteggere contro le infezioni» sottolinea il dottor Gareth Davies. «L'arricchimento alimentare - continua - avrebbe bisogno di un'attenta pianificazione per essere implementato in modo efficace, in particolare perché le persone ora stanno assumendo integratori. Scegliere gli alimenti giusti da fortificare dovrebbe essere fatto con attenzione».
Nella stessa direzione va anche un recente studio condotto dall’Università della Cantabria a Santander in Spagna e pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Nella ricerca è stata sottolineata un’interessante correlazione tra le persone positive al coronavirus e ricoverate in ospedale con una carenza di vitamina D. L’indagine che si è sviluppata nel corso della prima ondata, ha dimostrato che otto persone su dieci avevano un’ipovitaminosi D. Inoltre, il quantitativo di vitamina D presente nell’organismo era inversamente proporzionale alla gravità di infiammazione e alle relative complicanze ovvero, minore era il livello di questo nutriente e maggiore era la criticità della diagnosi. Anche un altro studio spagnolo aveva evidenziato la carenza di vitamina D come fattore di rischio del Covid, evidenziando come oltre l’80% dei pazienti ricoverati per il virus presentasse una carenza di vitamina D. La ricerca condotta dall'équipe di scienziati guidati da José Hernàndez e pubblicata recentemente sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, ha evidenziato che nell’82,2% dei pazienti ricoverati in un ospedale spagnolo sono stati riscontrati scarsi livelli di vitamina D. «Se il ruolo protettivo della vitamina D fosse confermato un approccio preventivo potrebbe essere curare la carenza di questa vitamina, specialmente negli individui più suscettibili come gli anziani, i pazienti con altre malattie quali il diabete e il personale sanitario specie nei presidi di lunga degenza» precisa il professor Hernández.
Altra indagine che era arrivata a conclusioni simili è quella condotta dall’Università di Chicago e pubblicata sul Journal of American Medical Association Network Open dove le persone con scarsi livelli di vitamina D potrebbero avere fino al 60% di probabilità in più di contrarre il coronavirus. «La vitamina D svolge un ruolo importante nel sistema immunitario», spiega il professor Meltzer. «Saranno necessari test clinici per dimostrare questi risultati – precisa l’esperto -, ma secondo i nostri dati la vitamina D, pur non rappresentando una garanzia come protezione dal coronavirus, sembra essere collegata a una minore probabilità di infezione in forma grave». Una teoria comune proposta anche in Italia, dove nel maggio scorso, Giancarlo Isaia e Enzo Medico, due docenti dell’Università di Torino, avevano parlato dei notevoli benefici della vitamina D come alleata nel contrasto alla pandemia. Lo studio dei ricercatori mostrava come molti pazienti ricoverati per Covid presentavano gravi carenze di vitamina D. Inoltre, studi precedenti, in particolare quello di un team di ricerca britannico composto da scienziati del The Queen Elizabeth Hospital Foundation Trust e dell’Università dell’East Anglia avevano trovato un’associazione tra tasso di decessi superiore per COVID-19 e popolazioni con vitamina D carente.
Per questo è importante ricorrere al supporto di integratori alimentari per ovviare a questo deficit vitaminico. «La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni». Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo.
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Ebbene si! Esiste un’alimentazione in grado di prevenire una lunga serie di condizioni infiammatorie. «Una dieta ‘preventiva’ di tutte le condizioni patologiche figlie del benessere, come il diabete, l’obesità, le patologie cardiovascolari, ma anche il cancro: per questo più che di dieta antinfiammatoria si dovrebbe parlare di stile di vita antinfiammatorio» spiega a Gazzetta Act!ve Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e RAF First Clinic di Milano. «Lo stesso Covid-19 – prosegue l’esperta - ha alla base un processo infiammatorio. Un processo che può essere bloccato attraverso una dieta che sia però uno stile alimentare continuo, non un regime che si segue per un breve periodo e poi si abbandona» sottolinea. «Alla base ci sono quegli alimenti che vanno a contrastare i processi infiammatori innescati dallo squilibrio tra citochine pro-infiammatorie e citochine anti-infiammatorie. Ritrovando l’equilibrio si spegne l’infiammazione a livello cellulare». «In realtà ci sono stati infiammatori silenti, asintomatici. Ma se soffriamo di stipsi o di gastrite, per esempio, oppure abbiamo difficoltà a digerire o a dormire, potremmo avere in atto un processo infiammatorio, che può anche diventare cronico. E’ quindi bene bloccarla prima che cronicizzi, ascoltando questi segnali di allarme».
Alimentazione e salute: le virtù curative delle spezie
Lista della spesa alla mano, la nutrizionista ci suggerisce tutti i cibi da mettere nel carrello: «Sono molti gli alimenti che hanno proprietà antinfiammatorie e tra questi, non poteva di certo mancare lo zenzero. Conosciuto per le sue notevoli proprietà antinfiammatorie ed antibatteriche. Non dimentichiamo che le spezie, come dimostra lo studio condotto da un team di ricercatori della Pennsylvania State University, grazie alla capacità di frenare l’infiammazione che è alla base di alcune patologie molto serie, proteggono l’organismo da tumori, diabete e malattie cardiovascolari. La ricerca di questi scienziati, con l’utilizzato di un composto di spezie, nasce con l’obiettivo di studiare l'effetto postprandiale di una miscela di spezie sulle risposte infiammatorie delle citochine. L'infiammazione postprandiale che si verifica in concomitanza con iperglicemia e iperlipidemia dopo l'ingestione di un pasto ad alto contenuto di carboidrati (HFCM) è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari (CVD). Gli studiosi hanno dimostrato che l’aggiunta spezie riduceva sensibilmente questo rischio. L’indagine pubblicata sulla rivista scientifica The Journal of Nutrition, ha mostrato la capacità di questi ingredienti di apportare benefici per la salute, riducendo l’infiammazione dell'organismo. Precedenti ricerche avevano già collegato le spezie alle notevoli proprietà antinfiammatorie. Infatti, in passato, l'infiammazione cronica era stata associata anche a patologie non trascurabili come il cancro, le malattie cardiovascolari, il sovrappeso e l'obesità.
«Ma anche le verdure in generale sono ricche di polifenoli e carotenoidi, sostanze antinfiammatorie» sottolinea la biologa. Poi ci sono la vitamina C, la vitamina D e la vitamina E che hanno un’azione antinfiammatoria. Alcuni frutti di stagione, come kiwi e melograno, sono ricchi proprio di vitamina C e utili in questo senso. Come prevedibile, in cima alla lista degli ingredienti la regina delle vitamine: la vitamina C. Importante contributo in merito ai benefici di questo nutriente si legge nel libro di adriano panzironi, Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti:
Essa è fondamentale grazie alla sua interazione con gli elementi (enzimi, vitamine, minerali, etc...). Preziosa per la formazione del collagene, permette di migliorare la fase anabolica del nostro corpo, mantenendo il giusto equilibrio con la fase catabolica. La sua presenza è ancora più evidente nei processi di rimarginazione delle ferite, nella cura delle ustioni, nella riparazione delle pareti arteriose (anche dei capillari) e per il buono stato del muscolo cardiaco. È utilizzata dall’industria cosmetica per le creme anti rughe, visto l’effetto protettivo e rigenerativo che ha sulla pelle. Tale vitamina ha ottenuto molti riconoscimenti per la sua funzione antisclerotizzante, agendo su più fronti di questa patologia. Innanzitutto brucia le concentrazioni di grassi che si depositano sulle pareti delle vene e nel contempo partecipa alla riparazione dell’epitelio interno delle arterie, impedendo la riformazione aterosclerotica. Inoltre l’acido ascorbico, riduce del 15-20% il tasso di colesterolo nel sangue. Questa vitamina ha un effetto antitossico. Ma forse l’effetto più conosciuto della vitamina C è quello di contrastare le infezioni batteriche.
Nella figura il meccanismo schematico in cui una IA di vitamina C potrebbe modulare funzioni specifiche dei neutrofili (ROS e TNFα, mediata da IL-1β), inibendo le vie coinvolte nella formazione della trappola extracellulare dei neutrofili (NETosis) e riducendo la produzione incontrollabile di citochine infiammatorie nell'alveolare spazio. Potenziali effetti sulla riduzione della produzione di citochine sono stati ipotizzati anche nei linfociti e nei macrofagi. ROS, specie reattive dell'ossigeno; NFkB, fattore di trascrizione nucleare kappa B; ┴, stimolo di inibizione; freccia tratteggiata, effetto o produzione ridotti.
E poi c’è un altro alleato prezioso che influenza e rinforza il nostro sistema immunitario. Si legge ancora nel libro:
Le cellule dendritiche, come abbiamo spiegato, hanno il compito d’inglobare l’anti-gene, giungere fino ai linfonodi (dove si trovano i linfociti T vergini), maturare e trasmettere le informazioni del gene da combattere. La vitamina D si lega al recettore (Dvr) e permette la maturazione delle cellule dendritiche, che possono così attivare la duplicazione dei linfociti specifici contro l’anti-gene identificato. La carenza di vitamina D diminuisce il numero di cellule dendritiche mature, allungando il tempo di reazione immunitaria del corpo. E’ per questo motivo che d’inverno esistono le epidemie da influenza. Se ci pensate bene, i virus vivono meglio al caldo e d’estate è molto più facile entrare in contatto con i fluidi corporei (sudiamo di più e siamo più scoperti). Ma nonostante ciò non ci sono epidemie influenzali. Il motivo è che siamo più forti (prendiamo il sole, attivando la vitamina D) ed i virus non riescono a sopraffarci. La vitamina E è assorbita in presenza degli acidi biliari nell’intestino e trasportata nel fegato dove viene depositata. La proprietà più importante di tale vitamina è la capacità antiossidante nella guerra ai radicali liberi. Difatti una molecola è in grado di proteggere dall’ossidazione 1.000 molecole di acidi grassi (polinsaturi e saturi), aumentando del 100% la resistenza all’ossidazione delle lipoproteine. La sua azione antiossidante protegge le cellule dalle mutazioni cancerose. Per ultimo, ma non meno importante, la vitamina E sopprime l’azione di diverse citochine pro-infiammatorie: l’interleuchina 1 (IL1) e 6 (IL6), entrambe responsabili di una serie di patologie croniche. Utilizzata per trattare diverse malattie quali il morbo di Parkinson, le malattie reumatiche, le malattie gastrointestinali, la distrofia muscolare, la sclerosi multipla, l’Alzheimer, le vene varicose, il diabete, la malattia di Crohn, le cefalee, la sindrome mestruale e per il rafforzamento delle difese immunitarie.
«E poi semi oleaginosi e frutta secca sono un vero e proprio concentrato di sostanze benefiche: contengono omega 3 e vitamina E» evidenzia la biologa. Tra gli effetti protettivi degli omega 3, tra i più rilevanti, ricordiamo sicuramente l’azione antiaggregante piastrinica o effetto antitrombotico, il controllo del livello plasmatico dei lipidi, soprattutto dei trigliceridi, la riduzione del rischio di problemi cardiovascolare, il controllo della pressione arteriosa mantenendo fluide le membrane delle cellule, e dando elasticità alle pareti arteriose. Per supportare e favorire l’introduzione degli omega 3 sarebbe opportuno consumare dalle 2 alle 3 porzioni settimanali di pesce, in particolare sgombro, merluzzo, pesce spada, tonno, trota, sardina e aringa. Oppure in alternativa di avvalersi del supporto di integratori alimentari. Altra importante fonte di omega 3 sono i semi di lino, valido supporto per sopperire alla carenza di questi preziosi acidi. Tuttavia, ce ne sono altri che sarebbe meglio evitare. «Sicuramente alcolici e bevande zuccherate». Inoltre, un'ultima raccomandazione a tutti gli sportivi. «Chi fa sport ha un livello di infiammazione un po’ più alto a causa dello stress ossidativo prodotto dall’attività sportiva, che produce più citochine infiammatorie. La vitamina C è fondamentale proprio per bloccare l’infiammazione a livello cellulare. Ma in generale gli sportivi dovrebbero seguire un'alimentazione particolarmente ricca di antiossidanti».
OMEGA 3, ecco perché è importante integrarli per la nostra salute
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Sky Tg24 "I benefici delle spezie, possono aiutare a ridurre l'infiammazione"
The Journal of Nutrition "Spices in a High-Saturated-Fat, High-Carbohydrate Meal Reduce Postprandial Proinflammatory Cytokine Secretion in Men with Overweight or Obesity"
Frontiers in Immunology “The Long History of Vitamin C: From Prevention of the Common Cold to Potential Aid in the Treatment of COVID-19”
PubMed "Evolution and the need for ascorbic acid"
MDPI "Vitamin C and Immune Function"
Il Messaggero "Covid, influenza stagionale e coronavirus: come distinguere i sintomi in caso di febbre"
Corriere della Sera "Coronavirus, come incide la dieta sulla forza del sistema immunitario"
Philippe Lagarde "Libro d'oro della prevenzione: difendere la salute con gli integratori alimentari e le vitamine"
Corriere del Mezzogiorno "Coronavirus, come difendersi a tavola"
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Vitamina C: rafforza il sistema immunitario e combatte virus e malanni di stagione
L'importanza del sistema immunitario, potente alleato nella guerra contro il virus
8 pazienti su 10 ricoverati per Covid con carenza di vitamina D. Lo dimostra indica lo studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism e condotto in Spagna, dal gruppo di José Hernández, dell'Università della Cantabria a Santander. Difatti, questo prezioso nutriente è fondamentale per il corretto funzionamento del sistema immunitario, prima linea di difesa nel contrasto agli agenti esterni. Un dato rilevante, anche se riferito a un solo ospedale spagnolo, a conferma dei precedenti studi epidemiologici secondo cui la carenza di vitamina D è più diffusa in quei Paesi dove il coronavirus ha mostrato una carica virale maggiore, provocando di conseguenza più vittime. L’équipe di ricercatori ha riscontrato che oltre 8 pazienti su 10 ricoverati per Covid nell'ospedale spagnolo durante la prima ondata di contagi erano carenti di vitamina D. Tra questi, sono soprattutto uomini ovvero, quelli con una mortalità maggiore rispetto alle donne. Inoltre, dall’indagine condotta è emerso che, più marcata era la carenza vitaminica, maggiori erano i marcatori infiammatori legati a grave infezione nel sangue dei pazienti.
In sostanza, «se il ruolo protettivo della vitamina D contro la sindrome Covid 19 fosse confermato dal trial clinico attualmente in corso in Gran Bretagna – evidenzia Hernández -, un approccio preventivo contro questo virus potrebbe essere quello di sopperire all’ipovitaminosi D, in particolare per le persone più a rischio come anziani, pazienti con altre patologie come il diabete ed il personale sanitario nei presidi di lunga degenza, ovvero tutte le popolazioni più a rischio di ammalarsi di COVID-19 in forma grave e con complicanze». A sostenere la tesi che le persone con bassi livelli di vitamina D potrebbero essere più vulnerabili al coronavirus, anche lo studio pubblicato sul Journal of American Medical Association Network Open e condotto dagli esperti dell'Università di Chicago che hanno esaminato la relazione tra i livelli di vitamina D e la maggiore probabilità di contrarre COVID-19 . «La vitamina D svolge un ruolo importante nel sistema immunitario, assicurando la salute delle cellule T e dei macrofagi, che combattono le infezioni» spiega David Meltzer dell'Università di Chicago. L’esperto sottolinea che anche indagini precedenti avevano già evidenziato un legame tra livelli più bassi di vitamina D e tassi più elevati di malattie respiratorie, come asma, tubercolosi o infezioni virali capaci di compromettere la regolare attività polmonare. «Secondo i nostri dati, tuttavia - continua lo scienziato -, la vitamina D, […] sembra essere collegata a una minore probabilità di infezione in forma grave». L'équipe di ricercatori ha sottolineato che chi era carente aveva un rischio 1,77 volte superiore rispetto a chi aveva livelli adeguati.
Da sempre tra i principali fattori di rischio. Tra le diverse patologie associate a una maggiore esposizione al Covid, viene allocata sin dall’esordio di questa pandemia, anche l’ipovitaminosi D. Ora, un altro studio, sembrerebbe confermare l’aiuto offerto contro la SARS-CoV-2 da livelli adeguati di questa vitamina. Pertanto, come evidenziato dagli scienziati «è stato riscontrato che il trattamento con vitamina D riduce l'incidenza di infezioni virali delle vie respiratorie, specialmente nei pazienti con carenza di vitamina D». Inoltre, studi precedenti, in particolare quello di un team di ricerca britannico composto da scienziati del The Queen Elizabeth Hospital Foundation Trust e dell’Università dell’East Anglia avevano trovato un’associazione tra tasso di decessi superiore per COVID-19 e popolazioni con vitamina D carente, mentre i professori Giancarlo Isaia dell’Accademia di Medicina di Torino ed Enzo Medico dell'Università degli Studi di Torino avevano rilevato una “elevatissima prevalenza di Ipovitaminosi D” nei pazienti con COVID-19 ricoverati nel capoluogo piemontese.
Questa vitamina rafforza l'immunità innata, quindi potrebbe portare a una riduzione dell’infezione. Tuttavia, la quantità di vitamina D presente in quello che mangiamo non è sufficiente, poiché bisognerebbe mangiare questi alimenti in quantità troppo elevata. «La sintesi di essa da parte dell’organismo, attivata dall’esposizione alla luce solare, contribuisce all’80-90% dell'apporto di vitamina D. La sua assunzione con gli alimenti copre il 10–20 % del fabbisogno. Ne consegue che l’assunzione con la sola dieta non è generalmente sufficiente a mantenere il giusto apporto di vitamina D» spiega Renato Masala, endocrinologo della piattaforma di esperti di Top Doctors. Per questo è importante ricorrere al supporto di integratori alimentari per ovviare a questo deficit vitaminico. «La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo. «Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni».
Inoltre, evidenzia Orlando: «La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore». «Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi» conclude il biologo.
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Non solo colpa del “periodo delle castagne”. Sempre più diffuso soprattutto durante la stagione autunnale. La fastidiosa caduta dei capelli non risparmia proprio nessuno. Infatti, secondo l’Italy Report Beauty Track, è tra le principali preoccupazioni delle millennials: l’80% delle donne tra i 25 e 34 anni dichiara di perdere i capelli. Le cause? Dallo stress all’alimentazione disordinata, dall’inquinamento all’uso eccessivo di piastre e phon. Questi, tra i principali fattori che contribuiscono a indebolire il bulbo pilifero e a danneggiare, di conseguenza, la fibra capillare provocandone la rottura o la caduta. Tuttavia, sono soprattutto, fattori biologici come lo stress emotivo, i cambiamenti ormonali, abitudini alimentari e la routine ad influenzare il ciclo di vita dei nostri capelli agendo alla sua radice che, si indebolisce sempre più fino a lasciarlo cadere. I fattori esterni o di stress quotidiani, invece, come ad esempio lo styling termico, potrebbero causare l'indebolimento della fibra stessa. I capelli continueranno a crescere, nonostante la rottura della fibra causata dalle aggressioni cosicché questi finiranno per spezzarsi e diventare sempre più fragili.
Dalla caduta dei capelli alla CALVIZIE, cause e rimedi naturali
«Ci sono due ragioni per cui si ha una caduta temporanea di capelli: da un lato si tratta di una reazione allo stress, dall’altro è un processo progressivo legato ad un indebolimento del bulbo alla radice», spiega in un’intervista a D Repubblica l’hairstylist David Lucas. «Noi perdiamo tra i 40 ai 100 capelli al giorno quindi non c’è nulla da temere. I capelli si rinnovano costantemente. D’altro canto, se i capelli sono fragili, l’uso frequente di spazzola o phon o anche l'attrito con un asciugamano può sensibilizzarli ancora di più. Anche gli elastici possono danneggiarli!». Un consiglio? «Oltre a utilizzare i prodotti per il giusto trattamento è necessario massaggiare regolarmente il cuoio capelluto in modo da stimolare la microcircolazione» conclude. Non dimentichiamo comunque che il capello ha un ciclo vitale che si sviluppa in tre fasi prima di essere sostituito da un nuovo capello: nascita e sviluppo (fase anagen), crescita (catagen) e caduta (telogen). Quindi anche i capelli hanno un proprio ciclo vitale che va dai 2 ai 7 anni e che si ripete circa 20 volte. Perdere fino a 100 capelli al giorno, per le chiome folte, è da considerarsi naturale ricambio fisiologico.
«È fisiologico che le persone perdano da 50 a 200 capelli al giorno. Poiché ciascun capello ha uno suo ciclo di vita, è normale che i capelli cadano in modo casuale nelle diverse zone della testa», spiega a D Repubblica la dermatologa, Laura Scott. «Se i capelli cadono più della normale quantità giornaliera, oppure la caduta è concentrata in un’area specifica della testa, allora siamo di fronte ad un’anomalia e bisogna intervenire. Inoltre, la caduta temporanea dei capelli prima dei 35 anni è molto diffusa, sia per cause legate alla salute del bulbo, sia per la sensibilizzazione del fusto. Non c'è motivo per cui i capelli cadano di più con l'invecchiamento, ma la caduta può derivare da effetti collaterali dei farmaci, malnutrizione, depressione e malattie, che sono più comuni in quelli in età avanzata». L’esperta poi, si legge nell’intervista, spiega la relazione con un fattore cruciale come lo stress. «Non ci sono studi che colleghino in maniera diretta la qualità del sonno con la perdita dei capelli ma esiste sicuramente un legame tra la qualità del sonno e i livelli di ormoni dello stress i quali, a loro volta, influenzano il follicolo pilifero e possono portare alla caduta occasionale dei capelli».
Insomma, stress, sonno e alimentazione. La caduta dei capelli potrebbe dipendere da una serie di fattori non trascurabili. Nel caso della perdita di capelli durante il cambio di stagione le cause sono da ricondursi a fenomeni fisiologici. Spesso l'alimentazione è tra i primi fattori da considerare. Difatti, la carenza di alcuni elementi nutritivi potrebbe rendere il capello più debole e provocarne la caduta. Viste le principali cause scopriamo ora come prevenirla! Innanzitutto cominciamo con la giusta alimentazione e la corretta integrazione. Particolare attenzione alla dieta! Nel contrasto alla caduta dei capelli è fondamentale uno stile alimentare sano ed equilibrato, ricco di vitamine e minerali. l cibi, infatti, sono fondamentali per la salute della nostra chioma. Non dimentichiamo poi che le proteine aumentano la crescita. La vitamina B12, inoltre, contenuta in uova, carne e pollame, è fondamentale sia per la crescita che per il benessere, mentre i cibi ricchi di ferro come i broccoli o il lievito di birra ne combattono la perdita. La biotina poi, presente nel fegato e nel tuorlo d'uovo, è essenziale per la naturale crescita dei capelli, ma anche la caffeina che favorisce e stimola la crescita. Per aumentare i sali minerali nell'organismo è importante mangiare frutta e verdura di stagione, meglio se cruda. E ancora il miglio, che fortifica la chioma. Gli alimenti ricchi di betacarotene, trasformato in vitamina A, sono indispensabili. Preziosi per il benessere della nostra chioma anche la vitamina C che promuove la produzione di collagene e che troviamo negli agrumi, nell'insalata, nelle patate, nei pomodori, oltre che nei mirtilli, nelle more e nelle fragole.
CALVIZIE: dalla caduta dei capelli all'alimentazione
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