Contro infezioni virali, tumori e malattie autoimmuni la riscossa delle proteine. Il nome, una garanzia. Deriva dalla loro nota “capacità di interferire” con la crescita del virus, gli interferoni fanno parte della grande famiglia delle citochine, nome composto dalla radice cito-cellula e chinetico/cinetico (dal greco κινέω «muovere, mettere in movimento»). In sostanza, un gruppo di proteine prodotte dalle cellule per difendersi dall'invasione di un virus e chiamate così perché si formano per l'interferenza reciproca tra il virus e la cellula. Acclarata da tempo poi anche la funzione del sistema immunitario nella cura e nella prevenzione. E di conseguenza, di quella svolta dai micronutrienti che ne costituiscono la principale linea di difesa e di attacco nella lotta contro le infezioni. Da sempre, unica e principale difesa naturale, è proprio questo sofisticato circuito di allarme che, per buona parte (circa il 70%) si trova nel nostro intestino. Un sistema che reagisce e ci difende anche se messo a dura prova e sotto continuo attacco da parte di inquinamento, alimentazione scorretta, stress e abuso dei farmaci. E laddove si trova indebolito si arrende a un crollo delle difese che apre le porte a microrganismi patogeni e virus, spianando la strada all’attuale pandemia da Covid. «Gli interferoni sono delle citochine, ovvero delle proteine con funzione di segnalazione e comunicazione tra le cellule», spiega in un’intervista a Gazzetta Active il professor Lorenzo Dagna, primario dell’Unità di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e professore associato di Medicina Interna all’Università Vita-Salute San Raffaele.
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Gli interferoni, secondo quanto riportato in una nota dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), sono “proteine (molecole, sostanze) prodotte naturalmente dalle cellule in risposta ad una grande varietà di stimoli”. Scoperti nel 1957 dagli scienziati Isaacs e Lindenman, nel corso dei loro studi sull'infezione, causati dal virus dell'influenza. All'epoca, i due ricercatori isolarono un fattore capace di interferire con la crescita del virus. Oltre alla capacità di conferire resistenza a molti virus, è stato poi scoperto che gli interferoni hanno anche quella di inibire la crescita di cellule normali e maligne (tumorali) e di modulare le funzioni di diverse cellule del sistema di difesa dell'organismo (sistema immunitario). Da queste molteplici funzioni derivano le diverse applicazioni terapeutiche degli interferoni, che spaziano dalle infezioni virali (epatite B e C) ai tumori e alle malattie autoimmuni. Queste molecole si diffondono nei tessuti e negli organi in cui vengono prodotte o in cui sono trasportate dal circolo sanguigno, permettono la comunicazione a distanza tra le rispettive cellule. Questi esercitano la loro azione sulle cellule legandosi a molecole presenti sulla superficie cellulare, i cosiddetti recettori, che innescano una serie di reazioni. Esse culminano con la produzione di numerose proteine, chiamate proteine responsive all'interferone che, a loro volta, svolgono diversi ruoli nella difesa della cellula da agenti infettivi o, comunque, pericolosi.
Ma in che modo gli interferoni si attivano all’interno del nostro sistema immunitario e come esercitano la loro azione contro le infezioni virali?
Gli interferoni attivano le cellule del sistema immunitario e anche alcune cellule esterne al sistema immunitario in modalità di difesa da virus e agenti pericolosi per l’organismo. Il loro nome deriva proprio dal fatto che, quando gli interferoni vennero scoperti, si notò che interferivano con la replicazione dei virus. Il virus è più subdolo del batterio: mentre quest’ultimo resta al di fuori delle cellule, e quindi può essere attaccato in vari modi, dagli anticorpi, ad esempio, o dai macrofagi, il virus penetra all’interno della cellula. Per questo motivo il sistema immunitario deve attivare dei programmi intracellulari che vadano ad interferire con la replicazione virale e ad uccidere la cellula infetta. L’interferone mette in atto questi programmi intracellulari e rende le cellule del sistema immunitario più aggressive nei confronti delle cellule infette.
INTEGRAZIONE ALIMENTARE, preziosa per il benessere psicofisico
Ciononostante, non tutti sanno che queste proteine, all’occorrenza, si trasformano in una sorta di “farmaco” preziosi nel trattamento di tantissime terapie.
Esistono diverse classi di interferoni, con funzioni leggermente diverse tra loro. Alcune di queste classi, per esempio, rendono il sistema immunitario in grado di controllare infezioni virali come l’epatite B e l’epatite C, mentre altri interferoni sono in grado di contrastare una patologia neurodegenerativa autoimmune come la sclerosi multipla. Gli stessi interferoni alfa capaci di combattere l’epatite B e C sono anche utili nell’acuire la risposta del sistema immunitario nei confronti di alcuni tipi di tumore.
Inoltre, tra le tante infezioni virali che riescono a ostacolare, anche il Covid:
Gli interferoni sono una delle citochine chiave nelle risposte antivirali. Da qui il presunto legame con il Covid. Quello che ad oggi si ipotizza è che nelle fasi iniziali dell’infezione virale da coronavirus Sars-CoV-2 il sistema immunitario normalmente funzionante produca le citochine e, in particolare, anche una buona quantità di interferoni. Quel che sembra, anche se al momento non vi sono certezze a riguardo, è che in alcune persone con Covid grave la produzione di interferoni sia molto ridotta e di conseguenza non si abbia un ottimale controllo del virus nella fase iniziale di malattia. Questa condizione ha portato ad ipotizzare di somministrare l’interferone per fermare la replicazione del Covid. Va altresì ricordato che non sempre una abbondanza di interferoni, anche attraverso somministrazione di farmaci, è cosa buona: alcune malattie autoimmuni come il lupus, ad esempio, sono caratterizzate da un eccesso di interferoni, e aumentarli non sarebbe sicuramente indicato.
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Per approfondimenti:
Gazzetta Active "Interferoni, cosa sono e come agiscono. Forse anche contro il Covid…"
Istituto Superiore di Sanità "Interferoni"
Focus "Che cos'è l'interferone?"
Enciclopedia Treccani "Interferone"
Corriere della Sera "Coronavirus, come incide la dieta sulla forza del sistema immunitario"
Salute Prevenzione "Nella guerra contro i Virus la scienza si dimentica sempre del Sistema Immunitario"
Philippe Lagarde "Libro d'oro della prevenzione: difendere la salute con gli integratori alimentari e le vitamine"
Sapere "I sistemi di difesa dell'organismo"
Corriere del Mezzogiorno "Coronavirus, come difendersi a tavola"
Il fatto alimentare "Coronavirus: dieta e trattamenti terapeutici naturali proposti da docenti di medicina"
LEGGI ANCHE: L'importanza del sistema immunitario, potente alleato nella guerra contro il virus
Covid-19, dalle vitamine ai minerali: la miglior difesa comincia a tavola
Vitamine e sali minerali: i principali alleati di adulti e bambini
Una rondine non fa primavera, ma due minerali si! Nella transizione dalla stagione invernale a quella primaverile ci accompagnano due alleati per contrastare i nemici del benessere: stanchezza e affaticamento, scarsa concentrazione e irritabilità. Arrivano ferro (Fe) e magnesio (Mg) per aiutarci a superare i tipici fastidi del passaggio di stagione. Uova, noci e banane. Quello che mangiamo ci aiuta a stare meglio. Fondamentali per la maggior parte delle attività metaboliche del nostro organismo, diventano cruciali in questo particolare periodo dell’anno. Tuttavia, i sali minerali non vengono prodotti autonomamente dal nostro corpo per cui dobbiamo necessariamente assumerli tramite l’alimentazione e l’integrazione. Primizie ricche di sali minerali e vitamine sbocciano anche nell'orto di Heinz Beck che per la gioia dei gourmant più esigenti propone nuovi piatti, pensati per un pasto buono, equilibrato e soprattutto salutare. Causa delle carenze nutrizionali e di un più diffuso senso di malessere, sicuramente un’alimentazione poco equilibrata. Infatti, per combattere la stanchezza non basta solo il riposo, ma è bene selezionare con attenzione quello che si decide di portare a tavola. Insomma, la combinazione giusta di micro e macro elementi per il supporto delle regolari attività quotidiane.
Sul banco degli imputati, anche alcuni farmaci, il cui consumo prolungato contribuisce alle carenze di minerali (e vitamine) diminuendo l'assorbimento o aumentando la perdita di micronutrienti essenziali. Ecco spiegata la motivazione per cui, quasi sempre, a sostegno della terapia farmacologica vengono associati specifici integratori alimentari, al fine di evitare, in questo modo, quadri di importanti deficit. Nel caso specifico, per fare qualche esempio i diuretici, gli antiacidi e la pillola anticoncezionale incidono negativamente sulla carenza di ferro e magnesio. Difatti, gli integratori non sono sostitutivi di una dieta varia, non sono scorciatoie a uno stile di vita equilibrato, ma hanno la funzione di “integrare”, appunto, eventuali carenze permettendo al nostro organismo di essere più forte capace di difenderci dagli agenti esterni, tra cui virus e influenze stagionali. «L’integrazione può essere un valido aiuto per migliorare il nostro sistema immunitario su diversi fronti anche per contrastare le malattie infettive» suggerisce Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti. E poiché un’alimentazione corretta potrebbe non essere sufficiente, sarebbe meglio giocare d’anticipo, bilanciando la propria dieta tra cibo sano ed integratori alimentari così da fornire al nostro corpo la "benzina" necessaria. «Gli integratori sono degli alimenti pensati per colmare eventuali carenze nutrizionali», sostiene Alessandra Bordoni in un'intervista a Vanity Fair, docente del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari dell’Università di Bologna. Ecco i due super minerali per affrontare la nuova stagione in salute e difendersi al meglio da malanni, virus e batteri.
Tra i principali sintomi di una carenza, nota come anemia (una delle più comuni condizioni patologiche del sangue), stanchezza, astenia e abbassamento del tono dell’umore, spiega in un’intervista a Fanpage il dottor Luca Di Russo, biologo e nutrizionista:
Il ferro è fondamentale perché si trova nell'emoglobina, la molecola che trasporta l'ossigeno nel sangue.- La principale fonte di ferro è di origine animale: - Dobbiamo distinguere il ferro in due categorie, quello non eme, che si trova in alimenti di origine vegetale, e quello eme di origine animale. Ma il ferro presente nell'emoglobina è soltanto quello di tipo eme. Per questo chi segue un'alimentazione vegetariana o vegana deve fare molta attenzione a eventuali carenze e valutare con il proprio medico la necessità di un'eventuale integrazione. Chi deve fronteggiare questo tipo di carenza con l'aiuto di un'integrazione dovrà quasi sempre assumere anche della vitamina C, un'alleata fondamentale nell'assimilazione del ferro.
Nella categoria dei microelementi, il ferro (insieme a iodio, rame, etc…), ovvero i minerali presenti in quantità minore rispetto ad altri (come magnesio, potassio, calcio e fosforo). Aiuta a ritrovare la concentrazione. Entra poi a far parte della molecola di emoglobina che costituisce i globuli rossi. Trasporta ossigeno e anidride carbonica nel sangue. Tra le sue principali funzioni, il ferro favorisce la/il:
Presente in circa trecento enzimi, è indispensabile per l'attivazione della vitamina D e per l'assorbimento del calcio. Tutto merito del magnesio, il minerale del buonumore. Al via con la scorta di un macroelemento importantissimo soprattutto dal punto di vista del livello energetico psicofisico. Inoltre, svolge anche un ruolo importante nella regolazione del tono dell'umore, stimolando la produzione di serotonina. «Lo troviamo principalmente nella frutta secca – spiega il dottor Di Russo nell’intervista – in particolare nelle mandorle, ma anche […] nel cacao». La carenze di magnesio, frequente, anche se asintomatica di lieve entità, si chiama ipomagnesemia e si manifesta spesso con sintomi comuni come debolezza muscolare, crampi, stanchezza cronica, depressione, mal di testa e insonnia. E un deficit di questo minerale potrebbe essere associato a copiosa sudorazione, a seguito di un’intensa attività fisica o peggio, ad altre importanti patologie. Ne sono ricchi diversi alimenti tra cui cioccolato (fondente e al latte), cacao, mandorle, pistacchi e noci. Presente, seppur in minore quantità nel parmigiano, nelle banane, nelle carni rosse e nei carciofi. Nella sua inesauribile miniera di peculiarità, il magnesio contribuisce al/alla:
La Repubblica "Arriva la primavera: contro la stanchezza ferro e magnesio diventano alleati a tavola"
Fanpage "Ferro, calcio, magnesio e potassio: l’importanza dei sali minerali che regolano il nostro organismo"
Gazzetta Active "Magnesio: a cosa serve, quali sono le fonti e i sintomi di una carenza"
Huffington Post "7 motivi per cui magnesio e potassio salveranno la tua estate"
National Library of Medicine "Scientific Opinion on Dietary Reference Values for magnesium"
PubMed "Magnesium intake and depression in adults"
MSN Lifestyle "Dieta del magnesio: la migliore per l’estate"
Grazia "La dieta del magnesio fa dimagrire e rinforza le ossa: ecco come seguirla"
Lecce Prima "Magnesio: proprietà e benefici per il benessere fisico e l'umore"
Ragusa News "I benefici del magnesio nella nostra dieta"
Vivere più sani "Benefici del magnesio: tutto quello che dovete sapere"
LEGGI ANCHE: Vitamine, minerali, spezie e altri nutrienti: gli ingredienti per vivere al massimo
Magnesio, rinforza ossa e muscoli: tanti benefici e zero controindicazioni
Magnesio e potassio: per affrontare estate e caldo con energia e vitalità
Calcio, magnesio e vitamina D: i principali nemici dell'osteoporosi
Una relazione tanto discussa che torna, ancora una volta, alla ribalta della cronaca nazionale grazie a una nuova ricerca italiana sull’importanza dell’ormone del sole nella lotta contro l’infezione da SARS-CoV2. Dall’indagine emerge che una carenza di vitamina D sembrerebbe peggiorare le condizioni, con evidenti criticità riscontrate nel quadro clinico delle persone positive al Covid. I ricercatori parlano appunto di "stadi clinici di Covid-19 più compromessi" per indicare una malattia più grave. Allo studio retrospettivo, pubblicato sulla rivista Respiratory Research e condotto su 52 pazienti, hanno collaborato l'Istituto superiore di sanità (Iss), l'Ospedale Sant'Andrea di Roma e altre istituzioni. Tra ipovitaminosi D e malattie polmonari, l’ennesima indagine prova a far chiarezza una volta per tutta: «[...] I nostri dati sottolineano una relazione tra i livelli plasmatici di vitamina D e diversi marcatori di malattia». Nelle persone con deficit di vitamina D, la sua integrazione è in grado di ridurre il rischio di sviluppare diverse infezioni virali. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a maggior rischio di essere positivi per Covid-19 rispetto a quei soggetti con stato di vitamina D sufficiente. Oltre all’esposizione solare e all’alimentazione, la supplementazione di vitamina D è una raccomandazione utile e sicura.
Insomma, molto di più di un micronutriente coinvolto nel metabolismo del calcio e nella salute delle ossa. La vitamina D, per l'appunto, svolge tra le altre funzioni anche un ruolo importante come ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. Come noto, infatti, i suoi recettori sono ampiamente distribuiti in tutto l’organismo e in particolare nell’epitelio alveolare polmonare e nel sistema immunitario. Ad, oggi, l'infezione da Covid-19 è ancora una sfida aperta. Sebbene siano note le caratteristiche cliniche a seguito della penetrazione del virus nel nostro sistema respiratorio, la patobiologia ei meccanismi che regolano questo ingresso e le ragioni alla base dei molteplici quadri clinici osservati sono ancora sconosciuti. Sfortunatamente, circa il 20% dei pazienti contagiati ha sviluppato una grave malattia respiratoria caratterizzata da infiltrati polmonari diffusi e danno di pneumociti alveolari, che va incontro ad apoptosi e morte. Le unità alveolari coinvolte sembrano essere periferiche e subpleuriche. Inoltre, è stata segnalata un'iperinfiammazione virale. Una precoce sovrapproduzione di citochine pro-infiammatorie conosciuta come tempesta di citochine. Tra questi, i livelli plasmatici elevati sono stati inclusi come predittori di mortalità. L'insufficienza della vitamina D è stata correlata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all'esacerbazione nelle malattie polmonari ostruttive croniche e nell'asma.
Coinvolti nella ricerca 52 pazienti (con età media di 68 anni) affetti da coronavirus con coinvolgimento polmonare (27 femmine e 25 maschi, nella fascia di età compresa tra i 29 ed i 94 anni). I livelli di vitamina D erano carenti (con livelli plasmatici di vitamina D molto bassi, sotto 10 ng/ml) nell'80% dei pazienti, insufficienti nel 6,5% e normali nel 13,5%. Circa l'8% della coorte di studio aveva livelli plasmatici di vitamina D normali. I pazienti alle prese con la forma più aggressiva di coronavirus avevano livelli plasmatici di vitamina D più bassi indipendentemente dall'età. Francesco Facchiano, ricercatore dell'Iss, coautore dello studio spiega il metodo di ricerca utilizzato:
Nella nostra indagine abbiamo correlato, per la prima volta, i livelli plasmatici di vitamina D a quelli di diversi marcatori (di infiammazione, di danno cellulare e coagulazione) e ai risultati radiologici tramite Tac durante il ricovero per Covid-19 e abbiamo osservato che i pazienti con bassi livelli plasmatici di vitamina D, indipendentemente dall'età, mostravano una significativa compromissione di tali valori, vale a dire risposte infiammatorie alterate e un maggiore coinvolgimento polmonare. Anche se gli effetti in vivo della Vitamina D non sono completamente compresi – si legge nello studio – una serie di osservazioni sottolineano il ruolo della vitamina D nello sviluppo delle malattie polmonari. La sua insufficienza è stata collegata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all’esacerbazione delle malattie polmonari ostruttive croniche e dell’asma. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di vitamina D al momento del test Covid-19 erano a un più alto rischio di essere positivi al Covid-19 rispetto ai soggetti con sufficiente stato di vitamina D.
Da un punto di vista generale, l'attività della vitamina D sembra essenziale anche nella regolazione dello stress ossidativo e dei meccanismi di sopravvivenza. L'epitelio alveolare respiratorio rappresenta la prima linea di difesa in grado di contrastare e impedire l'ingresso di agenti patogeni. Rappresenta uno dei principali attori dell'immunità innata compresi i macrofagi alveolari e le cellule dendritiche. Se stimolate, queste cellule attivano una varietà di vie di segnalazione intracellulare per specifiche difese antimicrobiche, rilascio di mediatori infiammatori e risposte immunitarie adattative. La risposta immunitaria adattativa è strettamente correlata alla capacità dei linfociti T e B di secernere citochine e produrre rispettivamente immunoglobuline. La carenza di vitamina D è stata correlata all'aumento dei livelli di IL-6, mentre l'integrazione di vitamina D riduce i livelli di IL-6 in diversi studi. L'IL-6 è elevata nei pazienti Covid-19 con malattia grave ed è anche considerata un marcatore prognostico rilevante. È stato riportato altresì che la mortalità è maggiore nei pazienti con livelli elevati di IL-6. Una conta dei neutrofili elevata predice l'infiammazione in corso e la diminuzione della conta dei linfociti è considerata un indicatore di prognosi infausta. Nel caso di infezione acuta, lo stato più grave è spesso associato a un aumento della conta delle cellule dei neutrofili e a una riduzione dei linfociti.
L'importanza della Vitamina D - intervista ad Adriano Panzironi
Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana che, soprattutto in Italia, è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.). In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione tra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente oppure al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente inferiori rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo.
Vitamina D, un prezioso alleato ricco di proprietà e benefici
Dati poi confermati da altri lavori condotti dall’inizio della pandemia hanno evidenziato l’importanza di questa sostanza come strategia di prevenzione e trattamento:
Respiratory Research "Circulating Vitamin D levels status and clinical prognostic indices in COVID-19 patients"
Agi "La carenza di vitamina D può aggravare la malattia"
Nurse Time "Coronavirus, carenza di vitamina D associata a stadi clinici più compromessi"
Comune di Torino "Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze"
Regione Piemonte "Covid, aggiornato il protocollo delle cure a casa"
Ansa "ANSA-IL-PUNTO/ COVID: PIEMONTE si attrezza contro varianti"
Nutrients "Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study"
Jama Network "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results"
Springer Link "Associations between hypovitaminosis D and COVID-19: a narrative review"
Il Messaggero "Covid, morti in calo con l'assunzione di vitamina D"
Ansa "Covid: calo morti con trattamento con vitamina D"
Il Resto del Carlino "Covid, con la vitamina D rischio di decesso e ricovero in Intensiva calato dell'80%"
La Nazione "Covid, calo di morti con la vitamina D"
La Gazzetta di Parma "Calo dei morti da Covid col trattamento con vitamina D: uno studio anche parmigiano"
Il Giornale "La Vitamina D ci salverà dal Covid?"
The Guardian "Add vitamin D to bread and milk to help fight Covid, urge scientists"
ANSA "Covid: carenza vitamina D per oltre 80% pazienti ricoverati"
Queen Mary University "Clinical trial to investigate whether vitamin D protects against COVID-19"
ISS "COVID-19: la vitamina D potrebbe cooperare con l’interferone nella risposta antivirale"
Today "Coronavirus e Vitamina D: la ricerca sull'olio di merluzzo e Covid-19"
Journal of American Medical Association Network Open "Association of Vitamin D Status and Other Clinical Characteristics With COVID-19"
Università di Torino "Possibile ruolo preventivo e terapeutico della vitamina D nella gestione della pandemia da COVID-19"
Leggo "Covid, 8 pazienti su 10 ricoverati in ospedale erano carenti di vitamina D"
Giornale di Brescia "Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti ricoverati"
Corriere del Ticino "Carenza di vitamina D nell’80% dei pazienti COVID"
Corriere della Sera "La carenza di vitamina D potrebbe avere un ruolo in Covid-19?"
AGI "Le carenze di vitamina D potrebbero aumentare la vulnerabilità al Covid"
Fanpage "La vitamina D riduce il rischio di COVID-19, lo conferma un nuovo studio"
Huffington Post "Bagni di sole e camminate nei boschi per difendervi dal virus. I consigli del Trinity College"
LEGGI ANCHE: Il Piemonte rompe gli schemi: vitamina D introdotta nel protocollo contro il Covid
Calcifediolo contro il Covid. Lo studio di Barcellona: morti in calo del 60% con la vitamina D
Dalla vitamina D al Covid: una lunga storia tra mito e scienza
Covid, calo morti e trasferimenti in terapia intensiva dell'80%: merito della vitamina D
Il sole contro il Covid: la vitamina D ci rende più forti e meno vulnerabili
Covid, studio a Pavia: carenza di vitamina D associata all’infezione
Regno Unito: contro il Covid, vitamina D a oltre 2 milioni di persone
Covid, carenza di vitamina D nell'80% dei pazienti
Covid: aumenta il rischio del 60% con carenza di vitamina D
Il sonno è l’allenamento più importante dell’atleta. Promemoria per gli sportivi: riposare bene per un risveglio in forma smagliante e per affrontare gli allenamenti con la giusta carica di energia. Il massimo delle prestazioni si ottiene solo con un buon riposo, ma quanto incide realmente il sonno sull’attività sportiva? Sonno e sport. Un doppio filo, un’influenza reciproca perché se è vero che una lunga dormita impatta positivamente sulle prestazioni è altrettanto vero che l’attività fisica facilita il riposo. Difatti, sono ormai acclarati gli effetti dello sport, o meglio, dei suoi postumi sulla durata e sulla qualità del sonno. In pratica l’attività motoria è il segreto per dormire con maggiore facilità. L'effetto "sonnifero" garantito dall'attività fisica emerge da un piccolo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports. I ricercatori hanno monitorato con un accelerometro 417 adolescenti (di 15 anni), campionati in venti diverse città degli Stati Uniti. L'utilizzo di questi dispositivi, applicati al polso e sul fianco, ha permesso di ottenere misurazioni precise relativamente alle ore riservate al movimento e al riposo da parte di ognuno. Dall’indagine, gli scienziati hanno riscontrato un miglioramento del profilo del sonno rilevabile attraverso tre parametri: un addormentamento precoce, avvenuto almeno 18 minuti prima, una maggiore durata del riposo, in media 10 ore a notte e una ridotta frequenza dei risvegli. «La sedentarietà è con ogni probabilità nemica del buon riposo - sintetizza Orfeu Buxton, specialista del centro dei disturbi del sonno del Brigham and Women’s Hospital di Boston -. Incoraggiare […] nella pratica sportiva vuol dire migliorare la sua salute, anche attraverso un sonno più ristoratore».
Insonnia, nemica degli sportivi. Lo sport fa bene al riposo, come sostiene anche la National Sleep Foundation e allenarsi regolarmente fa dormire meglio, non tutti sanno però che il rapporto può anche essere inverso. Ovvero, dormire è un po’ come allenarsi e dormendo bene si completa l’effetto degli allenamenti. La forma fisica è come una sorta di puzzle che si completa con 6 tasselli: fatica, costanza, regolarità, alimentazione, integrazione e sonno. Insomma, dormire aiuta anche l’organismo a costruire i muscoli soprattutto sotto il profilo della massa (la sintesi proteica aumenta e consente la crescita muscolare). Non dimentichiamo poi che il sonno, “quello buono”, stimola l’ormone della crescita (gh) che ha funzioni lipolitiche (brucia i grassi), contribuisce alla riduzione di glicemia e insulina, diminuisce aldosterone e cortisolo, favorendo così il dimagrimento e, secondo una serie di evidenze scientifiche, i muscoli più grandi si allenano meglio quando il sonno è soddisfacente. Non solo il non dormire, ma anche il dormire poco o meno del necessario e in modo frammentato influisce negativamente sul nostro organismo e, di conseguenza, anche sulle nostre attività. Una scarsa qualità ci manda in carenza di sonno e questa privazione può avere affetti negativi sulle performance sportive oltre per una lunga serie di patologie. Inoltre, la privazione di sonno è molto più importante della quantità di ore effettivamente riposate. Ovviamente, tra gli altri suggerimenti, sarebbe buona abitudine, per facilitare il corretto riposo, una cena sana e leggera ed evitare l’esposizione a fonti luminose come pc, tablet e smartphone.
Un sonno disturbato in maniera cronica può influenzare le performance, soprattutto di tipo tecnico o con una componente tecnica molto elevata. «Sicuramente se una persona ha un cronotipo serotino (è quindi un cosiddetto gufo) la scelta migliore è soffrire un po’ all’inizio per combattere la sua predisposizione ma favorire l’allenamento mattutino, se questo è l’unico momento in cui può allenarsi. All’inizio farà molta fatica ad allenarsi in quella fascia oraria, ma poi vi sarà un adattamento che renderà quello un orario abituale di allenamento», spiega a Gazzetta Active Jacopo Vitale, dottore in Scienze dello Sport e responsabile del Laboratorio del Movimento e Scienze dello Sport dell’IRCCS Istituto ortopedico Galeazzi di Milano.
Ma vediamo ora cosa significa esattamente cronotipo serutino o mattutino e quali differenze ci sono tra i due termini.
I mattutini veri sono coloro che anche quando non hanno impegni si svegliano tra le 6 e le 7 di mattina e vanno a letto tra le 21:30 e le 22. Sono piuttosto rari, sono circa il 15% della popolazione generale. I serotini sono un po’ più numerosi, circa il 25-30% della popolazione generale, ma anche in questo caso i serotini estremi sono più rari, circa il 10%, spesso sono atleti molto giovani, senza vincoli e impegni lavorativi, e tendono a svegliarsi verso le 11-12 e a coricarsi alle 1-3 di notte. Un orario intermedio, svegliarsi tra le 7 e le 9 e andare a letto tra le 23 e le 24 è l’orario intermedio per definizione. - Tuttavia, i ritmi della nostra vita sociale e lavorativa non coincidono quasi mai con quelli biologici - E’ un tema molto discusso, tanto che c’è chi ha proposto che alcuni giovani studenti particolarmente serotini debbano posticipare l’orario di inizio delle lezioni. I ritmi sociali e lavorativi sicuramente possono disturbare i ritmi biologici delle persone. C’è chi si adatta bene, soprattutto i mattutini e i soggetti con cronotipo intermedio, mentre chi soffre di più di solito sono i serotini».
INSONNIA? Come DORMIRE bene e svegliarsi riposati
Ma quali sono i rischi delle notti insonni e quali sono le ripercussioni dello scarso riposo sull’attività sportiva, o meglio sulle nostre performance?
Il sonno incide moltissimo sulle nostre performance. Incide sia la quantità sia la qualità del sonno. In linea teorica bisognerebbe raggiungere un minimo di 6 ore di sonno, ma i livelli raccomandati sono tra le 7 e le 9 ore per notte. Anche la qualità del sonno è fondamentale. Tra 8 ore dormite male, con molti risvegli, e 6 ore e mezzo dormite bene, molto meglio queste ultime. A livello di performance, una restrizione del sonno può avere effetti negativi indiretti: dormire bene determina, per esempio, l’inibizione della produzione di cortisolo, ormone dello stress, e se questo processo fisiologico viene alterato, la conseguenza è che anche la performance fisiche ne risentono. Fortunatamente se abbiamo una gara e ci siamo preparati bene nei mesi precedenti, dormendo adeguatamente facendo il cosiddetto sleep banking, la performance non viene inficiata se anche la notte prima non si dorme bene. Non è una sola notte di disturbi del sonno ad inficiare la performance. È molto più probabile che un sonno disturbato in maniera cronica influenzi le performance, soprattutto di tipo tecnico o con una componente tecnica molto elevata. Ad esempio, si è visto che se un tennista dorme male solitamente a peggiorare non è la sua espressione di forza, ma la sua capacità di effettuare servizi o colpi precisi in campo. Nell’ambito della pallacanestro, a risentire della scarsità di sonno sono i tiri liberi o da tre. Per chi pratica discipline di endurance il rischio è che la capacità di effettuare un gesto tecnico efficiente venga influenzata negativamente, con conseguente aumento del costo energetico e fatica e calo complessivo della performance. Dipende da caso a caso, da disciplina a disciplina. Ma in linea generale inizia ad essere preoccupante anche solo avere tre notti di seguito di sonno disturbato.
Nello sport come nel sonno, l’importante è recuperare: «Sicuramente aiuta a recuperare il debito di sonno accumulato. L’importante è non spostare troppo gli orari di sveglia e addormentamento, in modo da non creare una condizione di jet lag sociale. Ma allungare il periodo di sonno, senza esagerare, può aiutare».
Gazzetta Active "Sonno e sport: ecco i rischi sulla performance se si dorme poco"
Fondazione Veronesi "Lo sport? Fa bene anche perché ci fa dormire di più"
Gazzetta Active "Il miglior integratore per lo sport è il sonno (con qualche proteina…)"
Slow Sleep "Sonno e sport"
Gazzetta Active "Sistema immunitario, così il sonno ci protegge dalle infezioni. Dormite poco? Ecco i rischi"
Radio 24 "Il sonno amico del nostro cervello"
Il Messaggero "Covid: stanchezza, affaticamento e insonnia. Gli strascichi della malattia nello studio del Careggi"
Il Giornale "Coronavirus e insonnia: cosa fare per dormire meglio"
The italian times "Insonnia: cause e rimedi per curare ansia e stress da mancanza sonno!"
Plos Biology "A bidirectional relationship between sleep and oxidative stress in Drosophila"
Vanity Fair "INSONNIA E PROBLEMI COL SONNO: ECCO COSA FARE SE NON RIESCI A DORMIRE"
La Repubblica "Dormire poco fa male al cuore"
Plos Biology "Broken sleep predicts hardened blood vessels"
La Repubblica "Anziani, se troppo sonno diventa la spia di diabete e problemi di cuore"
Il Giorno "Effetto Coronavirus: Aumentati i pazienti con disturbi del sonno"
Io Donna "Post lockdown: 6 bambini su 10 mostrano ansia, irritabilità e disturbi del sonno"
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Elimina i "rifiuti": il sonno rigenera il cervello e contrasta le malattie neurodegenerative
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L'insonnia fa male al cuore: dalle notti tormentate alle patologie cardiovascolari
Dormire bene ai tempi del Covid: post lockdown, + 71% con disturbi del sonno
Dormire poco danneggia cuore e cervello: ecco tutti i possibili rischi dell'insonnia
Sonno e apnee notturne: oltre al fastidio, aumenta il rischio di infarto e ictus
Prezioso per il benessere di muscoli, contrasta lo stress ossidativo e allontana le lunghe notti insonni. Non solo d’estate! Il magnesio è un minerale fondamentale per la nostra salute in ogni stagione dell’anno. Dall’effetto miorilassante, che aiuta a distendere i muscoli in caso di sforzo fisico (come ad esempio dopo l’attività sportiva oppure in caso di particolare stress o tensione) alla sua capacità di alleviare i sintomi premestruali come i crampi e i dolori addominali o il mal di testa di tipo tensivo. Inoltre, si dimostra anche un ottimo aiuto nel contrasto all’insonnia. Insomma, tra i minerali fondamentali per il nostro organismo si annovera proprio il magnesio. Importante soprattutto per le funzioni biochimiche che controllano le contrazioni muscolari e la conduzione degli impulsi nervosi. Il magnesio, inoltre, è necessario per il controllo della glicemia, della regolazione della pressione sanguigna e per il buon mantenimento delle ossa. Un minerale che aiuta, inoltre, a mantenere l’equilibrio elettrolitico e a ridurre la sensazione di spossatezza. Presente nelle noci, nelle banane e nelle verdure a foglia larga, si trova anche, seppur in minore quantità, nel pesce e nella carne. Il magnesio è un macroelemento cruciale in numerose reazioni che vedono coinvolte le cellule dell’organismo, tra cui la sintesi delle proteine, così come il controllo della glicemia e della pressione arteriosa, i processi di produzione dell’energia, così come la sintesi del glutatione, tripeptide naturale con efficacia antiossidante.
La miglior risposta è sempre la prevenzione soprattutto quando il dispendio energetico si fa sentire, rischiando di mandare in riserva anche le vitamine coinvolte proprio nella produzione di energia. Indispensabile poi per chi pratica sport. Il rischio è proprio quello di andare incontro a una demineralizzazione che indebolisce le strutture dell’organismo. Importante perché favorisce il rilassamento delle tensioni nervose e mentali, contribuisce a distendere l’umore e facilita il riposo anche in caso di disturbi legati al sonno, il potassio, riduce gli stati di irritabilità, evitando sbalzi d’umore improvvisi. Fonte per antonomasia di energia, migliora anche l’umore e l’efficienza mentale. Infatti, questo prezioso nutriente, favorisce il miglioramento delle funzionalità del sistema nervoso e contribuisce al bilanciamento del metabolismo energetico. Utile per combattere la stanchezza e l’affaticamento sia fisico che mentale. Contribuisce poi anche al normale funzionamento del sistema nervoso e alla funzione psicologica, inoltre regola anche l’attività ormonale evitando l’insorgenza di eventuali problemi. Consigliato anche per chi dorme male o soffre d’insonnia poiché agisce sulla produzione di melatonina. Un vero e proprio toccasana per la salute, la sua presenza nella dieta, come ricordato da uno studio statunitense del 2015, riduce il rischio di depressione. Essenziale, nel nostro corpo è il quarto micronutriente più abbondante. Immagazzinato per la quasi totalità (99%) nelle ossa, nei muscoli e nei tessuti (il restante 1% si trova nel sangue). Secondo a nessuno, neanche al calcio, diventa fondamentale per lo sviluppo e la crescita delle ossa in età pediatrica. Secondo quanto mostra uno studio condotta da Steven A. Abrams, docente di Pediatria del Baylor College of Medicine di Houston, l’assunzione e l’assorbimento del magnesio sono fattori determinati per rilevare e promuovere il giusto contenuto minerale osseo non solo degli adulti, ma anche dei bambini.
«Sicuramente si tratta di un sale minerale molto utile in caso di stress fisico e psichico», spiega a Gazzetta Active la dottoressa Jessica Falcone, biologa nutrizionista presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e la RAF First Clinic di Milano. Ecco quali sono le proprietà e i benefici del magnesio:
Il magnesio è un minerale essenziale per il nostro organismo, necessario in dosi di 5-6 mg per chilo di peso corporeo, dosi che possono anche aumentare in casi particolari come la gravidanza. Le sue proprietà sono molte: stimola il rilassamento muscolare, contrastando i crampi e ripristinando la contrazione muscolare, come il calcio, ma agisce anche a livello del sistema nervoso, favorendo la distensione e avendo come effetto anche un miglioramento della qualità del sonno. Questa sua azione miorilassante è data dal fatto che questo minerale riduce la produzione di adrenalina.
Tra i fattori che ne aumentano la carenza, lo stress e una dieta non equilibrata. Un nutriente prezioso per gli sportivi.
Carenze di magnesio si possono osservare in condizioni di forte stress, intensa attività fisica e sportiva o sudorazione importante. Anche l’insonnia e i disturbi gastrointestinali possono indicare una carenza di magnesio. Il magnesio contrasta la stanchezza e la spossatezza, ma anche l’ansia. Per gli sportivi, in particolare per chi pratica sport di resistenza, sono disponibili anche bustine orosolubili ad assimilazione rapida. Ma certo il magnesio è presente anche negli alimenti...
A cosa serve, dove trovarlo e quando è importante il contributo fornito dagli integratori:
Le fonti principali sono la frutta secca, in particolare le mandorle, ma tracce di magnesio sono presenti anche in alcune verdure, dal momento che si tratta di un sale minerale, presente quindi nel terreno. Si possono valutare integrazioni in periodi di forte stress psichico e fisico, anche sportivo, e di insonnia. Attenzione però a non eccedere con il dosaggio.
Le peculiarità e le principali funzioni di questo minerale sul nostro organismo vengono spiegate anche da Adriano Panzironi nel libro Vivere 120 anni: le verità che nessuno vuole raccontarti:
È coinvolto in oltre 300 diversi processi metabolici risultando fondamentale per l’assimilazione del fosforo, del calcio e del potassio. Facilita l’utilizzo di alcune vitamine, come quelle del gruppo B, la vitamina C e la vitamina E. Il magnesio svolge diverse azioni protettive nei confronti del sistema circolatorio. Favorisce la diminuzione della pressione sanguigna, agendo sulle cellule muscolari del cuore (facendole rilassare), prevenendo palpitazioni e battito cardiaco irregolare. È un ottimo vasodilatatore. Inibisce la coagulazione del sangue (diminuzione del rischio dell’ictus ischemico) e riduce il colesterolo. Facilmente rintracciabile in alimenti come cacao, frutta secca oleosa, frutti di mare, pesci (aringa e merluzzo), legumi, verdure a foglie verdi, cereali integrali. La cottura del cibo può ridurre del 75% la quantità di magnesio.
Il magnesio vigila sulla nostra salute contribuendo a una serie di processi importanti: favorisce la riduzione della stanchezza e dell’affaticamento, contribuisce all’equilibrio elettrolitico, vigila sul metabolismo energetico, favorisce il funzionamento del sistema nervoso, incentiva la funzione muscolare, facilita la sintesi proteica, contribuisce alla funzione psicologica, rinforza ossa e denti. «Il magnesio - evidenzia Christian Orlando, biologo - supporta diverse reazioni biochimiche coinvolte nella trasformazione delle sostanze nutrienti assunte con il cibo in energia e, insieme al potassio, interviene nei processi di contrazione muscolare e di trasmissione degli impulsi nervosi». «Utilizzare integratori di magnesio e potassio che danno una nuova carica di energia per affrontare le giornate» suggerisce l'esperto.
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Grande amico della buona cucina e della nostra salute, l’olio extravergine di oliva sta conquistando sempre più consumatori. Colonna portante della nostra alimentazione e pilastro fondamentale della tradizione italiana. Non solo condimento. Difatti, l’olio EVO è molto di più. Un concentrato di proprietà benefiche per il nostro organismo. Protegge il cuore e ringiovanisce il cervello. Le sue notevoli doti, conosciute sin dall’antichità, sono state confermate nel corso degli anni da una serie di evidenze scientifiche che ne mostrano tutte le peculiarità. Sposa perfettamente la filosofia di un’alimentazione ricca ed equilibrata è considerato anche tra i migliori ingredienti “anticancro”. Un potente alleato nella lotta ai tumori intestinali. È quanto mostrato da uno studio pubblicato dalla rivista Gastroenterology e ripreso in Italia in un dossier pubblicato dall’Associazione Italiana di Ricerca contro il Cancro (Airc). I ricercatori hanno riscontrato nell’olio la presenza di una sostanza utile nel contrasto ai tumori intestinali. Questo è dovuto all’acido oleico, spiegano gli scienziati, una sostanza in grado di regolare la proliferazione cellulare. Nelle cellule dei topi di laboratorio, i ricercatori hanno potuto simulare l’azione di alcuni geni alterati e di stati di infiammazione intestinale, dimostrando che la somministrazione di una dieta arricchita di acido oleico è in grado di garantire notevoli benefici per la salute. Il team di esperti ha dimostrato poi in laboratorio che questa sostanza riduce le infiammazioni intestinali e lo sviluppo dei tumori. Infatti, secondo l’Airc, il consumo quotidiano dell’olio di oliva extravergine contribuisce a prevenire e combattere le neoplasie tumorali. Ricco di acidi grassi essenziali, se consumato abitualmente, si trasforma in un elisir di lunga vita.
Toccasana per mente, cuore e intestino. Dalla raccolta delle olive alla conservazione, dall'estrazione alle tempistiche di lavorazione. Il comun denominatore è il parametro di acidità che dev'essere inferiore o uguale allo 0,8%. A lavorazione ultimata, il pH dell'olio extravergine di oliva rappresenta, assieme ad alcune proprietà organolettiche e gustative, il parametro fondamentale nella valutazione qualitativa del prodotto. Il made in Italy alla conquista del mondo. Come testimonia un recente report della Commissione Europea, in Europa ha registrato un incremento del 15,6% nelle esportazioni verso i paesi extraeuropei fra ottobre 2019 e settembre 2020. Relativamente all’Italia, fra ottobre 2019 e agosto 2020 le esportazioni intraeuropee sono aumentate del 24,7 %. E in Italia, considerato anche il lockdown dovuto al Covid-19 di bar e ristoranti, secondo Coldiretti, 9 famiglie su 10 consumano quotidianamente olio extravergine d’oliva. «Durante il lockdown le persone hanno avuto modo di fermarsi e riflettere sulla propria alimentazione e questo ha influito su ciò che cercano sugli scaffali dei supermercati: prediligono ingredienti di qualità, sani e preferibilmente nostrani», spiega Federica Bigiogera, marketing manager di Vitavigor. Ecco come l’olio extravergine contribuisce al nostro benessere. Un recente studio pubblicato da ABC News precisa che l’olio Evo, ricco di fenoli e grassi monoinsaturi, può diminuire il grado d’infiammazione e il livello di grassi nel sangue, e aumentando la quantità di HDL, il colesterolo "buono" che aiuta a ridurre il rischio di malattie cardiache. «Le proprietà benefiche dell’olio Evo sono legate principalmente alla sua composizione – evidenzia la biologa nutrizionista Alice Parisi –. L’alta concentrazione di polifenoli e tocoferoli, infatti, contrasta l’ossidazione delle macromolecole biologiche, ovvero Dna, proteine e lipidi, e aiuta a prevenire cancro, diabete e numerose malattie cronico-degenerative. Io ne raccomando il consumo a crudo, in quanto le alte temperature degradano i composti dell’olio». Consumare olio extravergine d’oliva è «la prima profilassi anti-cancro che possiamo fare», ha spiegato a Affari Italiani, la dottoressa Farnetti. Esso è infatti ricco di idrossitirosolo e tirosolo, sostanza dalle proprietà antitumorali. L’olio Evo rinforza anche il sistema immunitario e regola il microbiota intestinale, ossia l’insieme dei microrganismi che si formano nell’intestino.
Fondamentale, non solo a tavola, ma anche nella prevenzione di malattie cronico degenerative. La sua utilità nel combattere lo stress ossidativo e la formazione di radicali liberi è ormai nota e consolidata. Da una recente ricerca condotta presso l'Università degli studi di Bari con la collaborazione dell'Airc (l'Associazione italiana per la ricerca sul cancro) è emerso che l'olio d'oliva possiede la capacità di proteggere il nostro organismo dall'insorgenza del tumore all'intestino. Nel corso dell’indagine, i ricercatori, inattivando il gene che codifica per SCD1, hanno dimostrato che l'assenza dalla dieta di acido oleico (di cui è l'olio EVO è particolarmente ricco) e la ridotta produzione endogena ad opera di questo enzima, comporta in un primo momento uno stato di infiammazione. Lo stesso potrebbe poi evolvere in un cancro dell'intestino. Antonio Moschetta, coordinatore della ricerca e autore del libro "Il tuo metabolismo", spiega perché l’olio extravergine di oliva è così prezioso per la nostra salute:
L'olio extravergine di oliva è ricco di acido oleico, una sostanza in grado di regolare la proliferazione cellulare. In studi preclinici abbiamo potuto simulare geni alterati e stati di infiammazione intestinale, dimostrando che la somministrazione di una dieta arricchita di acido oleico è in grado di garantire notevoli benefici per la salute. Tali effetti positivi sembrano essere dovuti anche alla presenza dell'enzima SCD1 nell'epitelio intestinale che funziona quale principale regolatore della produzione di acido oleico nel nostro corpo.
Insomma, un alimento che non dovrebbe mai mancare nelle nostre case. Consigliato nelle diete anche dai nutrizionisti per i benefici notevoli che fornisce. È un amico del benessere e fa bene all’apparato digerente, al cuore, al fegato e alle ossa. Dal valore nutrizionale eccellente al concentrato di vitamine, antiossidanti, fitosteroli e acidi grassi monoinsaturi. Insomma, l’olio d’oliva si presenta come una composizione nutrizionale che lo rende un alimento di grande importanza per il nostro organismo. Migliora la funzionalità del sistema cardiocircolatorio. L'olio d'oliva è stato anche correlato con una riduzione dei composti infiammatori che possono contribuire alla progressione della malattia cardiovascolare. Le olive contengono sostanze chimiche vegetali chiamate polifenoli che possono aiutare a ridurre l'infiammazione. Concentrato di proprietà importanti contiene antiossidanti, acidi grassi essenziali, polifenoli in grado di mantenere sotto controllo i livelli di colesterolo nel sangue. In particolare, favorisce l’aumento del colesterolo buono (HDL) e diminuisce, per contro, quello cattivo (LDL). Favorisce poi la corretta funzionalità dell’apparato digerente facilitando il transito degli alimenti e aiutando l’intestino grazie al suo leggero effetto lassativo. Migliora, inoltre, l’assorbimento delle vitamine, in particolare A, E, D e K2. Contribuisce, dunque, alla salute della pelle, aiuta la memoria e rinforza le ossa. Consente infatti di assorbire più calcio e magnesio. In ultimo, ma non per importanza, il suo effetto anti-age. L’olio EVO favorisce anche la longevità con il suo potente effetto anti-invecchiamento.
Il Giorno "L’olio extravergine è un concentrato di grassi anti-cancro"
Il Giornale "Cancro all'intestino: l'olio extravergine d'oliva lo previene"
Donna Moderna "Con l’olio extravergine d’oliva il cervello ringiovanisce"
La Repubblica "L'olio extravergine d'oliva conquista il mondo: nel 2026 mercato da 1,8 mld di dollari"
Harvard Medical School "Olive oil or coconut oil: Which is worthy of kitchen-staple status?"
Journal of the American College of Cardiology "Olive Oil Consumption and Cardiovascular Risk in U.S. Adults"
La Stampa "L’olio d’oliva vince su tutti gli altri: lo conferma ricerca di Harvard Medical School"
Il Secolo XIX "L’olio d’oliva vince su tutti gli altri: lo conferma ricerca di Harvard Medical School"
Consiglio Nazionale delle Ricerche "L'olio fa bene al cervello, soprattutto negli anziani"
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SOS invecchiamento? Arriva l'olio EVO, potente alleato del cervello
Colpo di scena della Regione Piemonte che introduce l’utilizzo della tanto discussa vitamina D nella lotta al coronavirus. Un trattamento alla portata di tutti. Nessun effetto collaterale, solo benefici per le persone positive al Covid. Una strategia anche in considerazione dell’attuale emergenza sanitaria con l’obiettivo di trattare la patologia fin dall’esordio ed evitare così eventuali complicanze. Una correlazione, quella tra Covid e vitamina D che torna ancora una volta alla ribalta, oggi a differenza di qualche mese fa, con 300 lavori all’attivo che ne dimostrano efficacia e benefici sia nella prevenzione sia nel trattamento.Hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata. Da qui il suggerimento di intervenire con la somministrazione della vitamina D, soprattutto nella popolazione anziana, che in Italia ne è in larga misura carente. Insomma, sullo stile di quanto fatto in precedenza dal premier inglese Boris Johnson. Una serie di evidenze scientifiche non trascurabili che portano a una raccomandazione da parte degli scienziati, soprattutto dove, in Paesi come in Italia, c'è un'alta prevalenza di ipovitaminosi D o carenza di vitamina D, i governi dovrebbero promuovere campagne di salute pubblica per aumentare il consumo di alimenti ricchi di vitamina D oltre a un'adeguata esposizione alla luce solare o, quando ciò non è possibile, la corretta integrazione. Lungo questa linea, la British Dietetic Association e il governo scozzese hanno pubblicato alcune raccomandazioni per garantire, soprattutto in un periodo critico come quello che tutti stiamo vivendo, livelli normali di vitamina D nella popolazione. Numerosi i lavori condotti sia retrospettivamente (Meltzer D et al.), che con metanalisi (Pereira M et al.), che hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa (Kohlmeier M et al.) e di una più elevata mortalità ad essa associata (De Smet D et al.): tutti questi dati forniscono a nostro giudizio interessanti elementi di riflessione e di ripensamento su un intervento potenzialmente utile a tutta la popolazione anziana, che in Italia è in larga misura carente di vitamina D (Isaia G et al.).
Un improvviso cambio di rotta da cui sta prendendo piede anche uno studio importante. Come spiega l’Accademia di Medicina nel suo documento, in un’indagine osservazionale (Jain A et al.) di 6 settimane su 154 pazienti, la prevalenza di soggetti con scarsa vitamina D è risultata pari al 31,86% negli asintomatici e al 96,82% in quelli che sono stati poi ricoverati in terapia intensiva. In uno studio randomizzato su 76 pazienti oligosintomatici (Castillo ME et al.), la percentuale di soggetti per i quali è stato necessario, successivamente, il ricovero in terapia intensiva è stata del 2% se trattati con dosi elevate di calcifediolo e del 50% nei pazienti non trattati. Uno studio retrospettivo su oltre 190.000 pazienti ha evidenziato la presenza di una significativa correlazione fra la bassa percentuale dei soggetti positivi alla malattia e più elevati livelli di questo nutriente (Kaufman HW et al.). In 77 soggetti anziani ospedalizzati per Covid (Annweiler G. et al., GERIA-COVID Study), la probabilità di sopravvivenza alla malattia è risultata significativamente correlata con la somministrazione di colecalciferolo, assunto nell’anno precedente alla dose di 50mila UI al mese, oppure di 80mila-100mila UI per 2-3 mesi, oppure ancora di 80mila UI al momento della diagnosi. Nei pazienti positivi i livelli di vitamina D sono risultati significativamente minori (p=0.004) rispetto a quelli dei pazienti negativi (D’Avolio et al.). Dato poi confermato da altri lavori in termini di maggiore velocità di clearance virale e guarigione per coloro che hanno livelli ematici più elevati di vitamina D. E ancora in una sperimentazione clinica (Rastogi A. et al., SHADE Study) su 40 pazienti asintomatici o paucisintomatici è stata osservata la negativizzazione della malattia nel 62,5% dei pazienti trattati con alte dosi di colecalciferolo contro il 20,8% dei pazienti del gruppo di controllo. Così l’assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi, annuncia l’aggiornamento appena effettuato del protocollo per la presa in carico dei pazienti Covid a domicilio da parte delle Unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta:
Diamo nuovi strumenti ai medici di famiglia e alle Unità speciali di continuità assistenziali (USCA) per combattere il Covid19 direttamente a casa dei pazienti. Con l’aggiornamento del protocollo delle cure domiciliari, introduciamo l’utilizzo dell’idrossiclorochina nella fase precoce della malattia, insieme a farmaci antinfiammatori non steroidei e vitamina D. In più, prevediamo la possibilità di attivare 'ambulatori USCA' per gli accertamenti diagnostici altrimenti non eseguibili o difficilmente eseguibili al domicilio, ottimizzando le risorse professionali e materiali disponibili. Siamo convinti, perché lo abbiamo riscontrato sul campo fin dalla prima ondata - osserva Icardi - che in molti casi il virus si possa combattere molto efficacemente curando i pazienti a casa. Non vuol dire limitarsi a prescrivere paracetamolo per telefono e restare in vigile attesa, ma prendere in carico i pazienti Covid a domicilio da parte delle unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta. Siamo stati tra i primi, l’anno scorso, a siglare un protocollo condiviso con ASL, prefetture e organizzazioni di categoria dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta. L’obiettivo è evitare che i ricoveri, così come le degenze prolungate oltre l’effettiva necessità clinica, delle persone che possono essere curate a domicilio, determinino una consistente occupazione di posti letto e l’impossibilità di erogare assistenza a chi versa in condizioni più gravi e con altre patologie di maggiore complessità.
Con l’intento di fornire contributo e supporto alle istituzioni per contrastare la pandemia, un altro lavoro scientifico, sull’utilizzo della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del Covid-19 si era fatto strada nel mare magnum di indagini che sono state condotte negli ultimi mesi. Il gruppo di lavoro, istituito dall’Accademia di Medicina di Torino coordinato dal suo Presidente, Giancarlo Isaia, professore di Geriatria e da Antonio D’Avolio, professore di Farmacologia all’Università di Torino, e composto da 61 Medici di molte città italiane. Un documento che mostra le più recenti e convincenti evidenze scientifiche sugli effetti positivi della vitamina D nel contrasto all’infezione da SARS-CoV2. Nella ricerca di fattori che influenzano l'incidenza e la letalità dell'attuale pandemia, recenti studi di associazione hanno esplorato il possibile ruolo della carenza di vitamina D. Nel complesso, questi studi, nella maggior parte dei casi basati su analisi trasversali, non potevano ancora fornire una dimostrazione convincente di una relazione causa-effetto. In questo editoriale, gli autori descrivono le prove scientifiche alla base di un possibile ruolo della vitamina D nella prevenzione e nello sviluppo della pandemia, considerando il suo ruolo immunomodulatore e gli effetti antivirali.
In un precedente numero di Aging Clinical and Experimental Research, Ilie e colleghi riportano una correlazione in 20 paesi europei tra i livelli di vitamina D e l'incidenza di Covid-19 e i tassi di mortalità. Questo lavoro si aggiunge a un crescente corpo di prove circostanziali che collegano Covid-19 e lo stato della vitamina D, come ben riassunto da Fiona Mitchell in un recente editoriale. Gli studi di associazione rientrano in due categorie principali: confronto della variazione dei livelli di vitamina D stimati o storici e dell'incidenza o dei tassi di mortalità del Covid-19 tra i paesi. L'analisi, inoltre, può essere mondiale o all'interno di continenti o anche tra emisferi, considerando la latitudine e lo stato stagionale associato come indicatori indiretti dello stato della vitamina D; studi caso-controllo retrospettivi che confrontano i livelli individuali di vitamina D (effettivi o stimati) con l'incidenza di Covid-19, sia per la popolazione generale che per minoranze specifiche. In questo lavoro, D'Avolio e colleghi hanno trovato un livello di 25 (OH) D notevolmente inferiore nei pazienti Covid-19 rispetto ad altri pazienti ospedalizzati a Bellinzona, in Svizzera. Altro lavoro interessante, quello condotto da Meltzer e colleghi che hanno stimato la probabilità di carenza di vitamina D sulla base di misurazioni 25 (OH) D precedenti (fino a 1 anno) per 499 pazienti testati per Covid-19 e hanno scoperto che coloro che erano positivi aveva una probabilità significativamente maggiore di carenza vitaminica. L’indagine mirava a valutare, in questo caso, se una maggiore incidenza di Covid-19 nelle minoranze non bianche nel Regno Unito potesse essere associata a carenza di vitamina D. Inoltre, una metanalisi che ha coinvolto 25 studi interventistici randomizzati e più di 11.000 pazienti hanno dimostrato che l'integrazione di vitamina D riduce di 2/3 l'incidenza di infezioni respiratorie acute.
«La vitamina D è fondamentale per il nostro sistema immunitario perché coordina l’attività di tutte le sue cellule: sia quelle coinvolte nell’immunità innata che quelle dell’immunità adattativa» spiega Christian Orlando, biologo.
Il recettore per la Vitamina D – continua l’esperto - è particolarmente sviluppato nelle cellule del sistema immunitario. L’azione della Vitamina D è quella di modulare la risposta del nostro sistema immunitario ad esempio riduce il rischio di allergie, aumenta la protezione verso le infezioni ed ha anche un ruolo importante nella prevenzione delle patologie autoimmuni. - Inoltre, evidenzia Orlando - La letteratura scientifica, infatti, ha confermato la capacità della vitamina D di agire sulle cellule immuno-competenti, attivandole e studi recenti dimostrano come i livelli ematici di vitamina D influenzino la funzionalità dei macrofagi, cellule dell’immunità innata. A livello polmonare, in particolare, la presenza di un virus o batterio attiva i macrofagi, che inviano stimoli per promuovere l’attivazione della vitamina D e l’espressione dei suoi recettori VDR: in questo modo induce la produzione di citochine e varie molecole coinvolte nell’infiammazione, con lo scopo di eliminare il microrganismo invasore. Per quanto riguarda l’immunità adattativa, invece la vitamina D, accumulata nelle cellule del tessuto adiposo (gli adipociti), passa nel circolo linfatico e raggiunge i linfonodi. Qui lega i propri recettori VDR all’interno dei linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi.
Tuttavia, esistono anche prove precliniche di un effetto protettivo della vitamina D sul danno polmonare. Esistono, quindi, prove consolidate sul ruolo immunomodulatore della vitamina D, sulle sue proprietà antivirali e su un possibile ruolo nella mitigazione della polmonite e dell'iperinfiammazione. Varie recensioni ha esaminato la relazione tra vitamina D e sistema immunitario, evidenziando un ruolo protettivo per molte malattie infettive, alla base dell'associazione tra ipovitaminosi D e molte infezioni del tratto respiratorio, enterico e urinario, vaginosi, sepsi, sindrome influenzale, dengue ed epatite. Queste proprietà della vitamina D sono state attribuite alla sua capacità di modulare l'espressione genica attivando il recettore della vitamina D in molte cellule bersaglio, comprese le cellule immunitarie, e promuovendo l'espressione di peptidi antimicrobici come catelicidine e beta-defensine, anch'esse dotate di antivirali e attività immunomodulatorie. Inoltre, la vitamina D supporta l'immunità innata, mantiene l'integrità delle giunzioni strette e della barriera polmonare, fornisce attività immunoregolatrice e modula il sistema renina-angiotensina, tutti fattori di potenziale rilevanza per la polmonite acuta e l'iperinfiammazione osservati in pazienti con Covid-19.
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Il sonno, soprattutto quello profondo, contrasta l’Alzheimer. Dall’eliminazione dei “rifiuti” dal cervello alla protezione dalle tossine. Insomma, dormire bene tiene alla larga le malattie neurodegenerative. È il risultato di un nuovo studio della Northwestern University che sottolinea, ancora una volta, così come hanno fatto indagini precedenti, l’importanza del corretto riposo. Secondo quanto spiega Ravi Allada, professore in Neuroscience e presidente del Dipartimento di Neurobiologia del Weinberg College of Arts and Sciences nel nord ovest, direttore associato del Northwestern's Center for Sleep and Circadian Biology, membro del Chemistry of Life Processes Institute e autore senior dello studio, questa capacità di rimuovere i “rifiuti” da parte del cervello in realtà si verifica anche durante la veglia o durante le altre fasi del sonno ma è durante la fase del sonno profondo che essa si rivela particolarmente efficiente. Nell’indagine, pubblicata su Science Advances, i ricercatori descrivono come hanno ottenuto queste informazioni eseguendo esperimenti sui moscerini della frutta, piccole mosche che hanno cicli del sonno-veglia sorprendentemente simili a quelli degli esseri umani e che proprio per questo vengono presi in considerazione quando si tratta di studi sul sonno o su tutto ciò che riguarda questo argomento per gli esseri umani. I ricercatori si sono concentrati soprattutto sul sonno profondo di questi moscerini, simile alla fase del sonno profondo umana con le sue lente onde cerebrali e hanno scoperto che, i moscerini, durante questa importante fase, estendono e ritraggono in maniera ripetuta la proboscide, ossia quella sporgenza che hanno davanti al muso. Si tratta di un movimento di pompaggio di fluidi verso quelli che sono considerati le versioni dei reni negli umani.
«Il nostro studio mostra che questo facilita l’eliminazione dei rifiuti e aiuta nel recupero degli infortuni» spiega Allada. Compromettendo la fase del sonno profondo nei moscerini, questi ultimi erano meno capaci di eliminare una sostanza che gli stessi ricercatori avevano iniettato nei loro corpi e risultavano più suscettibili alle lesioni traumatiche. Questo studio mostra perché la maggior parte degli animali debba dormire, nonostante la fase di sonno sia rimasta ancora pericolosissima perché rende il corpo particolarmente vulnerabile agli attacchi. Evidentemente i benefici che il sonno apporta, come la rimozione di importanti rifiuti, restano ancora nettamente superiori ai pericoli che possono incorrere durante una fase in cui si è praticamente incoscienti e quindi la stessa evoluzione non ha permesso che il sonno stesso possa essere intaccato in qualche modo. Quando gli scienziati hanno compromesso il sonno profondo delle mosche, le mosche erano meno in grado di eliminare un colorante non metabolizzabile iniettato dai loro sistemi ed erano più suscettibili a lesioni traumatiche. Secondo l’autore della ricerca, questo studio ci avvicina alla comprensione della motivazione per cui tutti gli organismi hanno bisogno di dormire anche se, proprio gli animali, specialmente quelli in natura, sono incredibilmente vulnerabili quando dormono. Ma la ricerca mostra sempre più che i benefici del sonno, inclusa la rimozione cruciale dei rifiuti, superano questa maggiore vulnerabilità.
La rimozione dei rifiuti potrebbe essere importante, in generale, per mantenere la salute del cervello o per prevenire le malattie neurogenerative», ha affermato il dottor Ravi Allada, autore senior dello studio. La rimozione dei rifiuti può verificarsi durante la veglia e il sonno, ma è notevolmente migliorata durante il sonno profondo. Questo movimento di pompaggio sposta i fluidi possibilmente alla versione mosca dei reni - spiega Allada -. Il nostro studio mostra che questo facilita l'eliminazione dei rifiuti e aiuta nel recupero degli infortuni. La nostra scoperta che il sonno profondo ha un ruolo nell'eliminazione dei rifiuti nel moscerino della frutta indica che l'eliminazione dei rifiuti è una funzione fondamentale del sonno conservata in modo evolutivo. Questo suggerisce che l'eliminazione dei rifiuti potrebbe essere stata una funzione del sonno nell'antenato comune delle mosche e degli esseri umani.
Tutti i consigli per RIPOSARE meglio ed essere più energici
La privazione del sonno altera l'apprendimento, la memoria e la funzione immunitaria oltre a ritardare la guarigione delle ferite, ma una buona notte di sonno può invertire queste menomazioni. Proponiamo che quelle funzioni conservate rappresentino le funzioni primordiali del sonno che hanno guidato l'evoluzione di questo stato enigmatico. Una di queste funzioni proposte comporta l'eliminazione dei rifiuti dal cervello attraverso i cambiamenti innescati dal sonno nella dinamica dei fluidi. In un modello, il liquido cerebrospinale (CSF) entra nel parenchima cerebrale attraverso percorsi periarteriosi, guidando la convezione del liquido interstiziale (ISF) che rimuove i prodotti di scarto tossici dallo spazio interstiziale del cervello e drena lungo i percorsi perivenosi. Inoltre, il flusso sanguigno cerebrale e il volume del sangue diminuiscono durante il sonno a onde lente (SWS), causando un'inversione temporanea della direzione del flusso del liquido cerebrospinale nel terzo e quarto ventricolo. Queste oscillazioni emodinamiche guidate da SWS facilitano potenzialmente l'eliminazione dei rifiuti consentendo a CSF e ISF di mescolarsi. Sebbene il sonno sia stato spesso caratterizzato nei mammiferi utilizzando firme neurali per diverse fasi del sonno, i criteri comportamentali vengono generalmente applicati a un'ampia gamma di organismi. Questi criteri comportamentali includono la quiescenza comportamentale reversibile alla stimolazione, una postura caratteristica, una ridotta reattività sensoriale e un sonno di rimbalzo in seguito alla privazione del sonno.
Nello studio è stato dimostrato che il sonno della drosofila è importante per l'apprendimento e la memoria, risparmio energetico, riducendo il degrado delle prestazioni indotto dalla veglia e supportando le funzioni immunitarie. Vi sono prove crescenti che il sonno degli invertebrati sia composto anche da diverse fasi. Il sonno profondo negli invertebrati ha distinti correlati neurali. Oscillazioni lente (8 Hz), accompagnate da una postura specifica e soglie di eccitazione aumentate, sono state identificate nei gamberi e oscillazioni di 1 Hz in risposta all'aumento della pressione del sonno sono state osservate localmente nei neuroni della drosophila R5. Le api che si addormentano progrediscono attraverso diverse posture correlate a soglie di eccitazione aumentate e i moscerini della frutta attraversano fasi di sonno più leggero e più profondo durante un periodo di sonno, come indicato dai cambiamenti nelle soglie di eccitazione. L'inizio del sonno è un processo cerebrale discreto in drosophila che è caratterizzato da oscillazioni da 7 a 10 Hz mentre la mosca passa al sonno. Questa è una fase del sonno profondo, come indicato dall'aumento delle soglie di eccitazione e dai cambiamenti caratteristici dell'attività neurale. In sintesi, l'eliminazione dei rifiuti è un'antica funzione riparatrice del sonno profondo, in cui le mosche come gli esseri umani hanno sviluppato soluzioni meccaniche per aumentare le oscillazioni emodinamiche durante il sonno.
Il sonno è insostituibile. Da non confondere poi con il rituale “pisolino”. Oltre ad essere vitale per un equilibrato funzionamento del nostro organismo, rappresenta l’unico metodo per tenere a un certo livello le funzioni cognitive del cervello e in generale per il recupero di questo importantissimo organo. La conferma arriva da un nuovo studio pubblicato sulla rivista SLEEP ad opera di un team di ricercatori dell’Università di Friburgo.
«Il sonno è insostituibile per il recupero del cervello. Non può essere sostituito da brevi intervalli di riposo per migliorare le prestazioni. Lo stato del cervello durante il sonno è unico» spiega Christoph Nissen, ricercatore del Dipartimento di Psichiatria e Psicoterapia dell’Università tedesca al momento dello studio (ora ricercatore all’Università di Berna). Secondo i ricercatori dall’indagine è emerso che il sonno profondo ha un impatto sul cervello molto importante, soprattutto per la connettività delle cellule nervose e, di conseguenza, le ore di sonno non possono essere sostituite dal semplice riposo, breve o frammentato che sia, senza avere impatti negativi sulle funzioni cognitive e quindi sulla vita quotidiana. Inoltre, indagini precedenti condette all’Università della California, Berkeley, evidenziano che nel target di riferimento dell'indagine, tra cinquantenni e sessantenni che dormono poco e male aumenta il rischio di Alzheimer. Attenzione, quindi, come ricorda Matthew Walker, professore di Psicologia all’Università della California e autore principale dello studio: «Il sonno insufficiente, soprattutto quando caratterizza la vita di una persona a lungo termine, è predittivo dello sviluppo del morbo di Alzheimer».
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“Gli uomini preferiscono le bionde” capolavoro cinematografico e preludio di un amore millenario. Segni particolari: artigianale, biologica e low carb. Non tutte le birre sono uguali, ma soprattutto non tutte fanno bene alla nostra salute. Dalle grigliate alle feste popolari. Una scelta che dilaga anche tra le donne e valida alternativa al buon vino. Tra le bevande alcoliche più antiche e più amate al mondo. Anche se ne rivendicavano la paternità egizi e sumeri, la leggenda narra una storia tutta femminile. Nata per errore dalla distrazione di una donna che dimenticò una ciotola di cereali fuori casa, quei semi, complice un temporale, si bagnarono al punto tale da trasformarsi nella prima versione di birra della storia. Prodotta intorno al 3500-3100 a.C. tra Egitto e Mesopotamia. Con i sumeri poi, nascono i primi birrai, professionisti del settore retribuiti, seppur in parte, con la birra stessa. La prima legge a regolamentarne la produzione, fu indubbiamente il codice Hammurabi (1728-1686 a. C.) che prevedeva la condanna a morte per chi non ne rispettava i criteri di produzione. La birra poi, assumeva anche una connotazione religiosa e veniva consumata durante le cerimonie funebri in onore del defunto. Una delizia da gustare, ancora meglio se biologica, non pastorizzata, priva di carboidrati e senza glutine. Insomma, una bevanda buona e rinfrescante che se assunta con moderazione fa bene alla salute. Promossa anche dai medici italiani, considerata genuina per 9 su 10. Sali minerali, antiossidanti e vitamine sono le proprietà apprezzate. Il consumo eccessivo della birra industriale e di scarsa qualità che non rispetta precisi criteri di produzione potrebbe alterare il microbiota intestinale, infatti «La quantità eccessiva di zucchero, alcol e funghi capaci di alterare la nostra flora batterica la rendono un alimento poco salutare» spiega Adriano Panzironi. Tuttavia, se il malto è inserito nel mosto attraverso la fermentazione, trasformandosi poi in alcol, il problema è solo la qualità (e ovviamente, anche la quantità) oltre naturalmente al processo produttivo e agli ingredienti utilizzati. I cereali se, in piccole quantità e miscelati con altri elementi non sono nocivi perché in realtà, il carico glicemico che ne deriva non è dannoso per il nostro organismo.
Dalle proprietà digestive a quelle antiossidanti. Tra le numerose proprietà benefiche per l’organismo, secondo una ricerca italiana, va aggiunta anche la capacità di contrastare l’angiogenesi, ossia il meccanismo alla base della proliferazione dei tumori. L’indagine condotta dall’IRCCS MultiMedica di Milano, dall’Università di Pisa e dall’Università dell’Insubria di Varese si è focalizzata sullo xantumolo, molecola contenuta nel luppolo della birra che parrebbe in grado di inibire la proliferazione delle cellule tumorali, affamandole: ossia bloccando il meccanismo attraverso cui tali cellule si procurano l’ossigeno di cui hanno bisogno per diffondersi nell’organismo. In realtà i ricercatori si sono soffermati su due derivati dello xantumolo, i quali esplicherebbero un’azione anti-angiogenica ancora più efficace rispetto al principio naturale. Tra gli alimenti OGM Free, riduce del 24,7% il rischio di malattie coronariche e del 17% gli incidenti cardiovascolari. Le buone notizie per gli amanti del luppolo arrivano da uno studio svolto dal Department of Food Science and Technology presso l'Università della California, secondo i ricercatori la birra servirebbe a prevenire l'osteoporosi. Lo studio ha evidenziato che la birra è una ricca fonte di silicio organico, un ingrediente fondamentale per aumentare la densità minerale ossea. Un moderato consumo di birra può aiutare a combattere l'osteoporosi. Attenzione poi all’intruso. Ebbene sì, in alcune birre c’è un ingrediente non gradito: il glifosato, un pesticida comunissimo associato al cancro. È ciò che emerge da uno studio condotto dallaUS Public Interest Research Group secondo cui il 95% delle bottiglie esaminate è risultato positivo. Il glifosato è tra gli ingredienti principali contenuti nei diserbanti. E poi che chi beve birra campa cent’anni lo dice la scienza. A conferma della teoria, i risultati di una ricerca europea condotta dall'Istituto nazionale della Nutrizione insieme all'Istituto di Medicina interna dell'Università Cattolica di Roma e all'Istituto di industrie agrarie dell'università di Perugia, sugli effetti della somministrazione di birra nei topi e presentati al Cnr di Roma. «La birra come prodotto vegetale contiene micronutrienti, molecole antiossidanti in piccola quantità, ma molto potenti dal punto di vista fisiologico, medico, biochimico, nel neutralizzare i famosi radicali liberi, rallentando così gli effetti dell'invecchiamento» sottolinea il professor Giuseppe Rotilio presidente dell'Istituto nazionale della nutrizione. E per mantenere la linea, precisa in un’intervista a Vanity Fair il dottor Daniele Basta, biologo nutrizionista:
La birra contiene acqua, vitamine del gruppo B, tracce di minerali come calcio, ferro, magnesio, fosforo, potassio, manganese e selenio, preziosi per l’organismo. Inoltre, è fonte di antiossidanti, in particolare di polifenoli. Per queste caratteristiche, come dimostrano diversi studi, un consumo moderato di questa bevanda è associato per esempio a un ridotto rischio cardiovascolare. Consigliabile abbinarla a alimenti ipocalorici come un secondo di carne o di pesce accompagnati da un contorno di verdure miste» suggerisce l’esperto nell’intervista. - Secondo diverse evidenze scientifiche un consumo lieve-moderato di birra può avere effetti benefici nei confronti della salute cardiovascolare. Il merito è della presenza di polifenoli che, come dimostrano diversi studi, hanno un’azione antinfiammatoria e antiossidante - precisa il nutrizionista. Inoltre, aiuta nel contrasto all’invecchiamento - Grazie alla presenza di composti antiossidanti, la birra consumata in quantità moderate, può contribuire a combattere lo stress ossidativo alla base dell’invecchiamento contrastando l’azione dannosa dei radicali liberi.
L'analisi svolta ha infatti evidenziato che sia il luppolo che il malto, i due principali ingredienti da cui si produce la birra, contengono alti livelli di silicio. Il silicio organico è presente nella birra in forma solubile di acido orto silicico, con un tenore medio di 6,4-56,5 mg per litro.
Un moderato consumo di birra può - dicono gli studiosi - aiutare a combattere l'osteoporosi, la malattia del sistema scheletrico sistemica dell'apparato scheletrico caratterizzata da una bassa densità minerale ossea e da un deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo. Un valore questo che fa diventare la bevanda - affermano i ricercatori - una delle principali fonti del minerale nelle diete occidentali. Per quanto riguarda il malto - spiegano i ricercatori - che nella buccia dell'orzo risiede la maggiore concentrazione del minerale, parte che non viene influenzata nel corso della germinazione del cereale. E inoltre le analisi effettuate sul luppolo hanno rilevato livelli di silicio quattro volte superiori rispetto a quelli del malto. La birra contiene alti livelli di malto d'orzo e di luppolo che sono le più ricche fonti di silicio - commenta Charles Bamforth, autore principale dello studio - il grano contiene meno silicio rispetto all'orzo, perché è l'involucro dell'orzo ad essere ricco di questo elemento.
L’obiettivo dello studio, pubblicato sullo European Journal of Medicinal Chemistry e durato quattro anni, era invece quello di sperimentare sostanze analoghe allo xantumolo, che potessero essere utilizzate come chemiopreventivi efficaci, alternativi e a basso costo. Negli esami effettuati è stata evidenziata una capacità di riduzione dell’angiogenesi, da parte delle nuove sostanza sperimentate, addirittura dell’80%. I ricercatori sostengono che i derivati neo-sintetizzati analizzati sono risultati particolarmente efficaci nell’interferire con funzioni chiave della cellula endoteliale (lo scheletro che costituisce i vasi sanguigni tumorali) quali: la proliferazione, l’adesione, la migrazione, l’invasione e la formazione di strutture simil-capillari. Ecco tanti buoni motivi per “farsi una bionda”. In primis per l'elevato contenuto di vitamine e sali minerali (un bicchiere di birra contiene fosforo, iodio, magnesio, potassio e calcio) e il suo consumo, quindi, aiuta a proteggere la densità minerale delle ossa. La birra non pastorizzata poi ha i maggiori vantaggi per la salute perché contiene grandi quantità di Vitamina B12 fondamentale per il sistema nervoso. Altro ingrediente prezioso, gli antiossidanti naturali. Utile, come dimostrano numerose ricerche, nella prevenzione di malattie come il diabete e l'Alzheimer, patologia associata ad alti livelli di allumino che il silicio contenuto nella birra potrebbe compensare. Inoltre, fa bene al cuore perché migliora la flessibilità delle arterie. Amica delle donne, grazie ai fitoestrogeni del luppolo aiuta a ridurre i sintomi della menopausa come le vampate di calore e l'abbassamento della libido. Inoltre, riequilibra gli ormoni in caso di sindrome da ovaio policistico, endometriosi e perimenopausa. Importante per mantenere l'idratazione, grazie alle sue caratteristiche che la rendono una bevanda per reintegrare i liquidi e i sali minerali persi durante lo sforzo fisico: aminoacidi, minerali, vitamine del gruppo B e antiossidanti.
«Un moderato consumo della birra può dare notevoli benefici alla nostra salute» suggerisce Christian Orlando, biologo e nutrizionista:
Secondo Eric Rimm, ricercatore di Harvard, può ridurre il rischio di attacco cardiaco del 30% e incrementare il colesterolo buono. Uno studio condotto in Finlandia ha indicato che la birra ha un impatto negativo inferiore sui reni rispetto alle altre bevande alcoliche. Consumare birra può contribuire a ridurre il rischio di sviluppare calcoli ai reni fino al 40%. Bisogna comunque sempre fare attenzione a non bere alcolici in eccesso e a seguire una dieta sana e bilanciata. Uno studio pubblicato nel 2009 sulla rivista scientifica Diabetes Care ha rivelato che bere alcol con moderazione può contribuire nella prevenzione del diabete di tipo 2 sia negli uomini che nelle donne. Uno studio condotto di recente dall’Università di Cambridge ha rivelato che la birra sarebbe una fonte di acido ortosilicico, che incoraggia lo sviluppo delle ossa. Secondo uno studio condotto dall’Università di Harokopio, in Grecia, bere birra può fare bene al cuore e contribuire a migliorare la circolazione del sangue, in particolar modo rendendo più flessibili le arterie. Secondo i ricercatori greci, i benefici della birra sulla salute del cuore e sulla circolazione sarebbero da ricercare nel suo contenuto di antiossidanti. La birra contiene vitamine. È considerata una fonte di vitamina del gruppo B, in particolare di vitamina B6 e di vitamina B9, che sono importanti per proteggere il nostro organismo dalle malattie cardiovascolari. Un moderato consumo di birra, secondo uno studio olandese, può aiutare ad incrementare il contenuto di vitamina B6 nel sangue. Uno studio condotto di recente in Spagna suggerisce che il silicio contenuto nella birra potrebbe contribuire a proteggersi dagli eventuali effetti deterioranti dell’alluminio sul cervello, che da ricerche precedenti era stato correlato al rischio di Alzheimer. Gli esperti dell’Università di Alcala ricordano comunque che il consumo di bevande alcoliche deve essere mantenuto entro certi limiti, che possono variare a seconda del sesso e dell’età. Bere un bicchiere di birra prima di andare a dormire potrebbe essere d’aiuto a chi soffre di insonnia. La birra tende a generare torpore. Viene dunque indicata a chi fatica a prendere sonno come rimedio per cercare di contrastare l’insonnia. L’alcol contenuto nella birra svolgerebbe una blanda azione sedativa, mentre l’effetto soporifero della birra sarebbe dovuto al luppolo La birra può essere d’aiuto per chi soffre di ansia e stress? Secondo uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Montreal, in Canada, bere 2 bicchieri di birra al giorno può rappresentare un antidoto utile per ridurre l’ansia e lo stress, soprattutto se sono legati alla propria situazione lavorativa. Anche in questo caso, però, è importante non cadere vittime del consumo eccessivo di bevande alcoliche.
Inoltre riduce la formazione di sostanze nocive (idrocarburi policiclici aromatici) previa cottura alla griglia di carne o pesce, come già detto è utile a prevenire l’osteoporosi, (fonte di silicio, molecola organica fondamentale per la densità minerale dell’osso), dopo l’attività fisica aiuta a reintegrare i liquidi e i sali minerali persi durante lo sforzo, riduce il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson, previene la formazione dei calcoli renali e favorisce la diuresi per la presenza di magnesio e potassio e, grazie al ridotto contenuto di sodio, facilita il normale funzionamento dei reni. Migliorare il metabolismo della glicemia e tiene a bada il diabete. È quanto dimostra un recente studio, presentato all'incontro annuale dell'Associazione Europea per lo Studio del Diabete a Barcellona, che ha messo in relazione il consumo di birra (ma anche di vino) con il diabete. Difatti, bere una birra (o un bicchiere di vino) al giorno può proteggere dal diabete e, in particolare da quello di tipo 2. Dove i soggetti che ne soffrono hanno una ridotta capacità di scomporre il glucosio, con conseguente alterazione dei livelli di glicemia, resistenza all'insulina e un aumento del peso. I ricercatori della Southeast University hanno osservato come una quantità moderata di alcol possa migliorare la regolazione della glicemia. Senza trascurare però i pericolosi cambiamenti nei livelli di zucchero nel sangue causati dal consumo frequente di alcolici causa, peraltro di obesità, fattore importante per l'insorgenza del diabete di tipo 2. Altro dato importante riscontrato nel corso dell’indagine riguarda il collegamento tra consumo di alcolici e livelli più bassi di trigliceridi. Raccomanda in un'intervista a Today la dottoressa Daniela Vitiello:
«Prima di tutto c’è differenza di composizione soprattutto in base al tipo di cereale usato per la produzione della birra. Ogni cereale ha proprietà specifiche. Le birre industriali, a differenza di quelle artigianali, sono sempre filtrate, pastorizzate e addizionate di additivi. Nonostante così si migliori la conservazione, la fermentazione viene bloccata, privando la birra della sua peculiarità. Inoltre parte delle vitamine e dei minerali vengono perse durante la pastorizzazione, poiché sono sensibili al trattamento termico. Quindi direi che le migliori sono decisamente quelle artigianali».
Quando il consumo moderato si trasforma nell’elisir di lunga vita. Altra scoperta interessante è quella fatta da un team di scienziati dell'Università di Scienze della Vita di Varsavia secondo i quali l'assunzione moderata di birra (insieme a vino e cioccolato) potrebbe aiutare a vivere più a lungo. «[…] la birra è ricca di antiossidanti. L'aderenza a una dieta con un alto potenziale antinfiammatorio può ridurre la mortalità per tutte le cause, cardiovascolare e tumorale, e prolungare il tempo di sopravvivenza. La nostra analisi della dose-risposta ha mostrato che anche l'adesione parziale alla dieta antinfiammatoria può fornire un beneficio per la salute» spiega a Il Giornale la professoressa Joanna Kaluza dell'Università di Scienze della Vita di Varsavia (WULS), autrice della ricerca. La raccomandazione è quella di scegliere birre artigianali di alta qualità, meglio se provenienti da produzione biologica, non pastorizzate, a ridotto contenuto di carboidrati e di additivi, per godere dei benefici senza avere brutte soprese sulla salute.
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In cucina come in un quadro di Van Gogh. Punto di fumo, temperatura e acidi grassi sono i tre pilastri fondamentali dell’olio di girasole alto oleico per il rispetto della salute. Sicuramente meno noto dell’EVO, ma altrettanto ricco di nutrienti. Tre concetti imprescindibili per una frittura sana. Dall’acido grasso monoinsaturo alla concentrazione di benefici e antiossidanti. La sua stabilità sino ai 230 gradi lo rendono ottimo per friggere. E questo non è un dettaglio trascurabile perché, quando l’olio comincia a fumare si forma una sostanza tossica, l’acroleina. Tutti ne parlano, ma pochi lo conoscono realmente. Insomma, un simil olio extravergine non solo con le medesime proprietà nutrizionali e salutistiche, ma persino con una marcia in più. Difatti, il suo valore aggiunto è proprio l’elevato punto di fumo che garantisce fritture leggere e gustose. E poi, proprio come l’olio extravergine di oliva, riduce i livelli di colesterolo nel sangue. Un prodotto sano che compare la prima volta in Russia nel 1976 con la sua prima variante: il Pervenets. Paese che ancora oggi, insieme all’Ucraina, detiene il primato della produzione mondiale di semi di girasole (circa l’80%). L’alta percentuale di acido oleico (letteralmente “di acido grasso insaturo, diffuso in natura come componente della maggior parte dei grassi animali e vegetali, dai quali viene estratto per la fabbricazione di sapone, lubrificanti e resine”) rende quest’olio di girasole maggiormente stabile alle alte temperature oltre che all’ossidazione e alla degradazione a cui gli acidi grassi vanno incontro non solo durante la cottura, ma anche durante la conservazione. Estratto naturalmente dai semi di girasole si presenta con un colore dorato e un gusto sottile, privo di grassi saturi e colesterolo (poiché i grassi insaturi che contiene sono ben metabolizzati nel fegato). Al contrario, aumenta anche i livelli di HDL (colesterolo buono), riducendo così il rischio di malattie cardiovascolari. Inoltre, l'American Heart Association, l'associazione dei cardiologi americani, lo indica tra gli oli più efficaci per la prevenzione del colesterolo.
Tra cucina e cosmetica, utilizzato per le molteplici proprietà, quest’olio vanta numerose applicazioni. Grazie alla sua consistenza leggera e non grassa, agisce come ottimo idratante naturale, viene usato anche per rigenerare le cellule della pelle danneggiate e tenere alla larga i batteri che causano l’acne. Inoltre, si rivela come un rimedio efficace per ammorbidire capelli secchi o crespi. Ricco di vitamina E, preziosa per il corretto funzionamento di muscoli e per il supporto fornito al sistema immunitario. Una buona dose di acido ascorbico, contenuta in esso, ne aumenta il potere antiossidante. Fonte anche di vitamina B3 (niancina o PP), B5 (acido pantotenico), B6 e di folati, indispensabili per la corretta attività del sistema nervoso e per la creazione dei tessuti del sistema digestivo. Inoltre, è un concentrato di minerali (tra cui ferro, rame, zinco, fosforo, magnesio e manganese). Queste sostanze lo rendono un alleato fondamentale per rinforzare tessuti, ossa, oltre al circolo sanguigno e alla produzione di ormoni. Secondo quanto spiega su Alimenti e Sicurezza Sabina Rubini, biologa ed esperta in sicurezza degli alimenti, la progressiva alterazione dell'olio e dei grassi, durante il processo di frittura, si evidenzia attraverso una serie di cambiamenti fisico-chimici: Intensificazione del colore o imbrunimento, aumento della viscosità, maggiore schiumosità, riduzione del punto di fumo. Quest’ultimo di caratterizza nella fase di ossidazione dell’olio, per contatto con l’aria, dovuto all’alta temperatura sfociando, infine, in una colonna di fumo. Il suggerimento, in generale, è quello di non friggere a una temperatura inferiore a 160 e superiore a 180 gradi. Difatti, è proprio in questo intervallo che, con un tempo adeguato, si ottiene la migliore cottura senza la liberazione di sostanze tossiche. 100% italiano e con oltre l’80% di acido oleico. Al via con il meglio del girasole!
Straordinario non solo per le caratteristiche chimiche, ma anche organolettiche. Con alcuni grassi si arriva a tavola a cuor leggero e sono fortemente consigliati nella dieta di chi soffre di diabete. In primis, gli acidi grassi monoinsaturi, soprattutto l’acido oleico, si associano a una riduzione del rischio di diabete, migliorano il profilo lipidico, la pressione arteriosa e il controllo glicemico. Inoltre, le basse concentrazioni di acido linoleico (rispetto all’olio di girasole classico) conferiscono un’altra caratteristica positiva: un minore potere infiammatorio. La presenza di acido oleico rispetto a quello linoleico riduce la produzione di prostaglandine. Contribuisce quindi a limitare l’ondata infiammatoria e favorisce la prevenzione e il trattamento di alcune patologie. Un altro vantaggio è quello di regolare le lipoproteine plasmatiche. L’acido oleico, infatti, aumenta la produzione di HDL (il colesterolo buono), migliorando il profilo lipidico del sangue e la protezione cardiovascolare. Dall’extravergine al girasole alto oleico. Via libera quindi all’olio del benessere.
E' una delle grandi novità nel panorama agroalimentare - spiega il presidente del Gruppo oli da semi di Assitol, Carlo Tampieri - il consumatore ne sa ancora poco, ma ci chiede produzioni sostenibili e italiane e l'altoleico va proprio in questa direzione». Si tratta di una varietà con un alto contenuto di acido oleico, grasso monoinsaturo presente anche nell'olio di oliva, ma non nel girasole convenzionale, consigliato per le sue qualità salutistiche e per la resistenza alle alte temperature. Non è un Ogm, spiegano dall'associazione, ma è una diversa varietà dell'originale ottenuta attraverso incroci di diversi ibridi; a vederli sono identici quello che cambia è la loro composizione. Oggi il 90% del girasole coltivato in Italia è di questa varietà per una produzione di semi di 270 mila tonnellate, insufficiente a coprire la domanda interna ed estera.
Ma cos’è l’acido oleico? Un acido grasso monoinsaturo maggiormente presente nell’olio d’oliva. Tuttavia, a differenza del classico olio di girasole, dove l’acido grasso in maggiore quantità è quello linoleico (polinsaturo) che possiede due doppi legami l’olio alto oleico, si differenzia dalla sua versione classica per la natura dei grassi in esso contenuti o meglio, la prevalenza di grassi insaturi, per la precisione, quelli polinsaturi, a differenza degli altri oli di semi che in genere contengono prevalentemente grassi polinsaturi, ovvero i grassi facilmente deperibili che vanno per lo più in contro a ossidazione e irrancidimento. Insomma, un surrogato con tutte le carte in regola. Dunque, poiché è un acido grasso monoinsaturo, l’olio girasole ad alto oleico assomiglia più all’olio d’oliva per composizione di acidi grassi che non al tradizionale olio di girasole.
La sua qualità più importante è sicuramente l'elevato contenuto di vitamina E - sottolinea Christian Orlando, biologo e nutrizionista -, quantità talmente elevata da superare ampiamente altri oli vegetali come l'olio di mandorle dolci o burri cosmetici come quello di karité. L'olio di girasole è inoltre ricco di vitamine A, C e D, che hanno tutte ottime qualità protettive. La vitamina E in esso contenuta è stata individuata come un elemento in grado di proteggere i polmoni dallo stress ossidativo, e inoltre sembra che contribuisca ad alleviare i dolori causati dall’artrite. L’olio di girasole ad alto oleico deriva da varietà ad elevata concentrazione di acido oleico. La particolare presenza dell’acido oleico rende l’olio di girasole più stabile alle alte temperature rispetto a quello ordinario, più resistente all’ossidazione e alla degradazione a cui gli acidi grassi vanno incontro soprattutto durante la cottura o durante la conservazione. Oltre all’impiego diretto come condimento, il basso valore di acidi grassi insaturi e l’elevato punto di fumo (220-230°C), fanno sì che questo olio sia particolarmente indicato nelle fritture. L'acido oleico rappresenta il più noto ed apprezzato acido grasso della serie omega-nove. L'acido oleico è un omega-9 contenuto soprattutto nell'olio di oliva (60-80%) che però presenta un punto di fumo (210°C) più basso di quello di girasole. Oltre all’impiego diretto come condimento, il basso valore di acidi grassi insaturi e l’elevato punto di fumo (220-230°C), fanno sì che questo olio sia particolarmente indicato nelle fritture. L’olio di girasole ad alto oleico risulta essere povero in acidi grassi essenziali quali l’acido linoleico e l’acido alfa-linolenico. Come tutti gli oli vegetali è ricco in fitosteroli, in particolar modo in beta-sitosterolo che rappresenta il 52% circa.
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